Giovanni Ceraolo, compagno dell’USB, condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi di carcere per aver contestato con migliaia di cittadini, lavoratori, studenti il PD 9 anni fa.

Condannati anche altri 20 compagne/i, con oltre 80 mila euro tra risarcimenti e ammende.

SRP esprime la massima solidarietà. Non possono fermare il vento, gli fanno solo perdere tempo!

Qui ciò che ha scritto Giovanni:

“Questa mattina mi è stato notificato “l’ordine di esecuzione per la carcerazione” relativo ad una recente condanna ormai diventata definitiva.
Nove anni fa partecipai ad una contestazione pacifica contro un comizio dell’allora segretario del PD Bersani. Eravamo in piena fase di austerity con il Governo Monti e la Ministra Fornero. I lavoratori e le lavoratrici presenti furono caricati selvaggiamente dalla polizia in assetto antisommossa con diversi feriti.
Il giorno successivo stessa storia. Presidio in zona pedonale, arrivano camionette su camionette della celere. Si presenta un funzionario visibilmente fuori di sè (abbiamo poi scoperto essere lo stesso delle cariche ai lavoratori AST di Terni e degli sfrattati dal presidio di Piazza Indipendenza a Roma nel 2017).
Anche in quell’occasione violente cariche, decine di feriti anche tra i passanti.
Il giorno ancora successivo Livorno risponde compatta. La foto che ho pubblicato qui sotto ne è la dimostrazione. Migliaia di lavoratori e lavoratrici scendono in piazza spontaneamente in difesa della libertà di manifestare, a fianco degli attivisti e delle attiviste e contro la violenza della Questura Livornese.
Anche quel giorno ci furono provocazioni inaccettabili e la piazza, ancora una volta, rispose con determinazione di fronte al palazzo della Prefettura.
Sono stato condannato principalmente perchè sarei, a loro avviso, il responsabile morale di quei fatti. Non ho tirato sassi nè transenne ma per loro è lo stesso.
Secondo il Tribunale devo scontare 2 anni, 6 mesi e 20 giorni. Ho la possibilità di chiedere delle misure alternative al carcere e ovviamente lo farò. Sarà il Giudice di Sorveglianza a dover accettare o meno questa richiesta.
Insieme a me oltre 20 attivistə. In 4 con condanne superiori alla sospenzione condizionale della pena come me.
Oltre 80 mila euro tra risarcimenti e ammende.
Non stiamo qui a lamentarci, sia chiaro. Certo fa riflettere. I responsabili di stragi come quella di Viareggio non hanno mai ricevuto e probabilmente non riceveranno mai una raccomandata come quella in foto. Quelli che hanno “assassinato” Lorenzo e Nunzio al Costiero Neri vanno avanti tra rinvii e prescrizioni e dormono sonni tranquilli.
Tra qualche giorno sarà il ventennale del G8 di Genova. Ha pagato qualcuno tra i responsabili dell’ordine pubblico?
Viviamo in un sistema che “premia” questi personaggi facendogli capire che possono continuare a fare ciò che vogliono e contemporaneamente colpisce chi prova a mettere in discussione la realtà esistente. Chi fa lavoro sociale e chi fa sindacato. Si perchè tra di noi ci sono anche sindacalisti. Non quelli con il culo incollato alle poltrone che firmano i peggiori accordi sulle spalle dei lavoratori. Ma persone oneste che credono in ciò che fanno e sono disposte a pagarne le conseguenze. Era così 100 o 50 anni fa ed è così anche adesso.
Ci vediamo lunedì mattina di fronte ai piazzali della Bertani Logistica. Azienda che ha licenziato l’ennesimo operaio in appalto. Ci vediamo di fronte ai cancelli della GKM di Firenze.
Non si molla di un centimetro
Ps: sarebbe cosa buona e giusta contribuire alle spese. Sono oltre 80 mila euro e ad un compagno è già iniziato l’iter per il pignoramento della prima casa.
Potete farlo a questo link https://www.gofundme.com/f/effetto-refugio…

Bologna: Antifascisti condannati per la contestazione a Salvini

7 luglio 2021, sono stati condannati in primo grado gli antifascisti che l’8 novembre 2014 si opposero all’ennesimo atto di sciacallaggio sugli ultimi da parte di Salvini, Borgonzoni e Lega al campo sinti di via Erbosa.

Il giudice bolognese ha ritenuto gli attivisti responsabili a vario titolo di reati quali violenza privata, lesioni e danneggiamento. Il Tribunale ha pertanto deciso di condannarli a pene tra i quattro mesi e un anno e sei mesi di reclusione.

Pene che, anche se ridimensionate rispetto a quelle chieste dalla procura (che aveva chiesto pene comprese tra uno e due anni), risultano titaniche rispetto alle dinamiche della giornata e alle forme della protesta come verificabile nei vari video della giornata.

Peraltro, la Lega, Matteo Salvini , Lucia Bergonzoni e Alan Fabbri si erano costituiti parte civile per cogliere l’occasione e “fare cassa”. Non si spiegano altrimenti le richieste di risarcimenti danni esorbitanti superiori a 200 mila euro. Il giudice ridimensionando la richiesta ha comunque condannato gli antifascisti, in aggiunta alla pene della reclusione, ad un del tutto immotivato risarcimento danni nei confronti della Lega pari a 50 mila euro.

Non possiamo non ritenere come la mediatizzazione dell’evento e la rilevanza della parte civile costituita da Lega, Matteo Salvini, Lucia Bergonzoni e Alan Fabbri abbia determinato il particolare accanimento verso gli imputati dimostrato dalla sentenza.

Quest’ennesimo episodio di repressione nei confronti degli antifascisti conferma come palese il modello politico autoritario di società in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità, colpendo preventivamente e repressivamente chi ritiene che l’ordine di tali priorità vada rovesciato e quindi oppone resistenza.

Dopo anni in cui Salvini e i suoi soci hanno provato a cavalcare la rabbia delle vittime della crisi indirizzandola in senso reazionario, oggi si trovano in una situazione di perdita di credibilità, avendo infatti calato la maschera partecipando al governo di Draghi. Si pone quindi per noi l’occasione e la necessità di riaffermare con forza le ragioni che avevamo allora per dare voce alle fasce popolari escluse dal sistema, anche a fronte della gravissima crisi sanitaria e socio-economica innescata dalla pandemia di covid-19.

Contestare il neofascismo, il razzismo e le discriminazioni tutte, è diritto e dovere di ogni libero cittadino e questa condanna non ci farà fare nessun passo indietro.

Cambiare Rotta Bologna – Noi Restiamo

Da Bolzaneto a Santa Maria Capua Vetere: vent’anni di tortura in Italia

Da quando nel 2017 l’Italia ha introdotto (in ritardo) il reato di tortura, sono stati aperti diversi procedimenti penali in tutto il paese. Eccone alcuni.

In occasione del ventennale dei fatti del G8 di Genova, abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli e approfondimenti a quella che ancora oggi rimane una delle pagine più nere della storia d’Italia.

Per tutta la durata del G8 di Genova di vent’anni fa, la caserma di Bolzaneto si era trasformata in una prigione degna di un regime militare.

L’elenco delle angherie subite dalle centinaia di persone fermate (spesso illegalmente) è sterminato: posizioni vessatorie da tenere per ore, come quella della “ballerina” (sulle punte dei piedi o su una gamba sola); pestaggi seriali e ripetuti; percosse ai genitali; “corridoi umani” dentro i quali i prigionieri venivano massacrati dagli agenti; insulti a sfondo sessuale e razzista; costrizione a inneggiare al fascismo, al nazismo e alla dittatura di Pinochet… Agli arrestati provenienti dalla “macelleria messicana” della Diaz è stato riservato un ulteriore trattamento: la “X” sul viso col pennarello, una “marchiatura” per identificarli in mezzo agli altri.

Per la Corte Europea dei Diritti Umani, quello che è accaduto dentro Bolzaneto ha un solo nome: tortura. La giustizia italiana, però, non ha potuto contestare quel reato perché ancora non era contemplato nel codice penale. Il risultato è che molti responsabili non sono mai identificati o sono stati salvati dalla prescrizione.

A vent’anni di distanza da quei fatti, è impressionante constatare come gli abusi e le torture di una parte delle forze dell’ordine continuino a far parte della realtà—e anzi, in alcuni casi abbiano raggiunto una gravità simile a quella di Bolzaneto, soprattutto in carcere.

“La tortura è ancora una pratica di sistema,” mi ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “Ed è di sistema quando le istituzioni tutte non prendono le distanze da quanto accaduto, quando lo spirito di corpo prevale sulla dignità della persona e il rispetto dell’habeas corpus, quando si commettono atti di questo tipo contando che ‘tanto la si fa franca’.”

Tuttavia, almeno un cambiamento significativo dal punto di vista legale c’è stato. Dal 2017 l’Italia infatti prevede il reato di tortura, anche se il testo non ha rispecchiato tutte le aspettative: e infatti, diverse associazioni per i diritti umani non lo ritengono del tutto adeguato e conforme alla Convenzione Onu.

Da quando è entrato in vigore, comunque, sono stati aperti diversi procedimenti penali in tutto il paese—alcuni arrivati al primo grado, altri ancora fermi alle udienze preliminari o alle indagini. Basandomi su un recente dossier compilato dall’Associazione Antigone, qui di seguito ne ripercorro alcuni.

La prima condanna per tortura al carcere di Ferrara

Nel gennaio del 2021, per la prima volta dall’introduzione del reato, un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere di Ferrara è stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione per tortura.

I fatti risalgono a settembre del 2017. Secondo la ricostruzione, tre poliziotti (il condannato e altri due, anche loro sotto processo) entrano nella cella d’isolamento in cui si trova un detenuto per una perquisizione. Uno di questi si mette di guardia nel corridoio; all’interno i colleghi fanno inginocchiare il recluso, lo ammanettano e lo picchiano selvaggiamente.

Al termine del pestaggio, gli agenti si allontanano lasciandolo ammanettato e senza prestare alcuna cura. Significativamente tra gli indagati figura anche l’infermiera del carcere, accusata di favoreggiamento e falso per aver dichiarato di aver visto il detenuto sbattere la testa contro la porta blindata della cella.

I dieci agenti condannati per tortura al carcere di San Gimignano

Un mese dopo la sentenza di Ferrara, altri dieci agenti—questa volta in servizio al carcere di San Gimignano (Siena)—sono stati condannati in primo grado per tortura.

I poliziotti erano accusati di aver picchiato un detenuto durante il trasferimento da una cella all’altra, nel 2018. L’uomo è stato trascinato per il corridoio del reparto d’isolamento e preso a pugni e calci. “Sentivo le urla,” ha raccontato un altro detenuto, “poi lo hanno lasciato svenuto [in un’altra cella]. Il giudice ha parlato di un “trattamento inumano e degradante” e di “crudeltà.”

Oltre agli agenti è stato condannato anche un medico del carcere perché si era rifiutato di visitare e refertare il detenuto abusato.

Le torture dei carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza

Un’altra condanna per tortura è arrivata più recentemente, e si riferisce alla nota inchiesta sui carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza—integralmente sequestrata lo scorso anno con una decisione giudiziaria senza precedenti.

I cinque carabinieri (su un totale di oltre venti imputati) che hanno scelto il rito abbreviato sono stati ritenuti colpevoli di una sfilza impressionante di reati. Quello che era ritenuto il capo della banda, l’appuntato Giuseppe Montella, da solo ne aveva ben sessanta.

Secondo l’accusa, poi confermata dalla sentenza di primo grado, gli agenti avevano allestito un vero e proprio “sistema parallelo” fatto di traffico di sostanze stupefacenti, minacce, copertura dei pusher amici, arresti illegali per gonfiare le statistiche, e per l’appunto tortura nei confronti di alcune persone fermate.

Come aveva sottolineato la procuratrice Grazia Pradella dopo gli arresti, “tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi nel lockdown. Faccio fatica a definire questi soggetti ‘carabinieri’, perché i comportamenti sono criminali.”

“Tu devi morire qui”: il carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino

Nell’autunno del 2019 sei agenti della polizia penitenziaria del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino sono messi ai domiciliari con l’accusa di tortura. In tutto, gli indagati per quel reato (e altri illeciti) salgono a 25. Anche il direttore del carcere finisce tra gli indagati, accusato di favoreggiamento personale e omessa denuncia: sapeva, ma avrebbe coperto le condotte dei poliziotti.

In base all’inchiesta, che riguarda fatti avvenuti tra il 2017 e il 2019, le guardie carcerarie si sfogavano soprattutto sui detenuti più fragili. Questi venivano picchiati tra le risate, obbligati a spogliarsi e ripetere frasi come “sono un pezzo di merda” o “tu devi morire qui.”

A un detenuto è stato rotto il naso, quasi sfondata l’orbita di un occhio e spezzato di netto un incisivo superiore. Quando poi i reclusi erano troppo malconci e dovevano farsi visitare in infermeria, gli agenti li costringevano a mentire e dichiarare che erano stati altri detenuti a picchiarli.

L’indagine era partita da una segnalazione del Garante dei detenuti del Piemonte, Monica Gallo, che aveva raccolto testimonianze e voci che circolavano all’interno della struttura. Al momento dev’essere ancora fissata la prima udienza preliminare.

“Estrema crudeltà”: i fatti nel carcere di Sollicciano

Nel giugno del 2021 la procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti di polizia penitenziaria e due medici, di servizio al carcere di Sollicciano (Firenze). Le accuse contestate a vario titolo sono quelle di tortura e falso in atto pubblico. A gennaio dello stesso anno tre agenti erano finiti agli arresti domiciliari.

L’inchiesta è partita nel 2019 dalla denuncia di un’ispettrice, che aveva sostenuto di essere stata aggredita da un detenuto. In realtà, era tutto falso. Come ricostruito dagli inquirenti, erano gli agenti ad aver picchiato “un uomo solo, inerme, ultracinquantenne e di costituzione esile agendo, nell’arco di un’ora, con estrema crudeltà”.

Per la paura il detenuto si era orinato addosso, ma gli agenti non gli avevano consentito di lavarsi e cambiarsi. L’uomo è stato inoltre rinchiuso in una cella di isolamento e senza vestiti.

L’“orribile mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

L’ultimo caso preso in esame riguarda quello del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta).

Il 5 aprile del 2020, nel pieno della prima ondata della pandemia, circa 150 detenuti si impossessano delle chiavi di sei sezioni e le occupano per protesta a seguito di alcuni casi di contagio. Dopo lunghe trattative, all’alba del giorno dopo si ristabilisce l’ordine.

Nel pomeriggio, però, 300 agenti entrano nel padiglione Nilo per eseguire una “perquisizione straordinaria”—in realtà una selvaggia spedizione punitiva.

I detenuti vengono fatti inginocchiare in uno stanzone, picchiati e umiliati. Come si vede dai video pubblicato dal quotidiano Domani, alcuni sono costretti a passare in mezzo ai famigerati “corridoi”, dove vengono tempestati di calci, pugni e manganellate. Persino un disabile in sedia a rotelle viene colpito con i manganelli.

Nelle chat private, gli agenti dicono cose come “li abbattiamo come vitelli” e “domate il bestiame.” Stando a una testimonianza, una guardia avrebbe detto a un detenuto: “questo è Santa Maria, il capolinea. Qui ti uccidiamo.”

L’inchiesta è partita dopo le denunce delle famiglie dei detenuti e gli esposti di Antigone. A giugno del 2020 la procura ha notificato avvisi di garanzia a 44 agenti per tortura, abuso di potere e violenza privata; alcuni di questi salgono sul tetto del carcere in segno di protesta. Un anno dopo, il 28 giugno del 2021, ben 52 agenti sono raggiunti da misure cautelari per quella che il gip definisce nell’ordinanza una “orribile mattanza.”

Per Antigone, quella avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è “una delle più gravi violazioni dello stato di diritto nella storia repubblicana del paese.”

Leonardo Bianchi

da Vice.com

Il Parlamento Europeo approva la sorveglianza di massa di tutte le email

Con la scusa della pedofilia, l’Ue straccia le sue norme a tutela della privacy e consente per tre anni il controllo di massa di tutti i messaggi, i commenti e le email. Un’intelligenza artificiale controllerà tutto e in casi sospetti girerà la segnalazione agli organi di vigilanza. Critiche tutte le ong e gli specialisti di lotta alla pedofilia

Una deroga ai principi generali. Di fatto uno “strappo” che nega quei principi generali. Regalando un’altra legge a chi sogna un controllo di massa più invasivo, ancora più invasivo.

Accade in Europa, che pure fino a ieri era considerata la parte più avanzata del mondo in materia di tutela della privacy. Invece martedì 6 luglio – con una votazione passata un po’ sotto silenzio – il parlamento di Bruxelles ha varato, a stragrande maggioranza, una controversa normativa che permetterà ai provider di setacciare ogni mail, ogni commento, ogni messaggio scritto. In deroga, appunto, all’avanzatissimo (non più?) Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati.

Il pretesto? Sempre lo stesso, sempre quello che anche al di là dell’Oceano giustifica le norme che violano la privacy: la lotta alla pedofilia.

La “deroga” – cioè la validità di questa legge – durerà tre anni. Nel senso che i 537 eurodeputati che hanno votato sì (appena 133, invece, quelli contro: la sinistra, i verdi e pochissimi obiettori fra le fila dei socialdemocratici) sanno benissimo che la norma – proprio perché in contrasto col Gdpr – quasi sicuramente non passerà l’esame di un tribunale, sanno benissimo che i ricorsi avranno molte possibilità di essere accolti. Anzi, il deputato tedesco dei pirati (nel gruppo dei verdi) Patrick Breyer, ha già lanciato una campagna in rete per presentare dieci, cento, mille esposti all’Alta Corte europea.

Quei tre anni di sospensione, la deroga temporanea delle misure a tutela della privacy dovrebbero servire, quindi, nelle intenzioni dei promotori ad evitare la bocciatura. Come se si trattasse di una misura straordinaria, eccezionale e quindi non sanzionabile.

Ma non ci credono tanto neanche loro. Al punto che Sophie in ‘t Veld, eurodeputata liberale olandese – nome che dovrebbe essere conosciuto anche in Italia, visto che dieci anni fa lei, moderata e conservatrice, divenne quasi un’icona solo perché aveva denunciato il linguaggio antifemminile di Berlusconi -; Sophie in ‘t Veld, si diceva, votando a favore ha aggiunto: “Signor Presidente, diciamoci la verità: sia io che lei sappiamo bene che le normative europee ci impedirebbero di approvare questa legge”.

Sophie in ‘t Veld e la stragrande maggioranza degli eurodeputati, invece, l’hanno fatta passare. Con una fretta che davvero non ha precedenti nelle vicende legislative del vecchio continente, noto per iter che in genere durano anni e anni.

Stavolta, invece, la Commissione ha presentato la sua proposta a settembre. Davanti al coro di no della società civile, non si sono fermati. E sono cominciate le pressioni, le forti pressioni sul Parlamento per approvarla rapidamente. Pressioni – racconta il solitamente bene informato politico.eu – che sarebbero arrivate addirittura dall’America, probabilmente per dare un po’ di dignità politica alle loro norme, molto simili.

Pressioni, anche qui, ammesse tranquillamente dalla relatrice, la socialdemocratica Birgit Sippel: “Sì, ne abbiamo ricevute molte. Per fare presto”. Unica concessione fatta dai promotori, l’unica modifica al testo iniziale, è che dal filtraggio saranno esentati i messaggi audio. Tutto qui.

Così in attesa di un giudice a Strasburgo, la norma entrerà in vigore. E così i provider potranno scansionare, visionare e controllare tutti i messaggi, tutte le immagini sui siti, sui social, addirittura nelle email alla ricerca di testi e foto “sospette”. Il tutto affidato all’intelligenza artificiale: se l’algoritmo “leggerà” un contenuto come pericoloso, trasmetterà la segnalazione, senza verifica umana, a un centro che poi la girerà alle polizie competenti. Senza che gli indagati siano avvisati di questa strana e improbabile inchiesta virtuale.

Magari non è molto pertinente ma forse vale la pena ricordare che le denunce alla polizia degli utenti verso altri utenti sospettati di pedofilia – denunce che probabilmente servono ad istruire le intelligenze artificiali – nel 95 per cento dei casi si sono rivelate inaffidabili.

Non è ancora tutto. Perché ci sarà anche un follow-up, un seguito alla votazione di martedì scorso.

Di fronte alle proteste di tutte le associazioni per i diritti digitali – ma proprio tutte-tutte, a cominciare dall’Edri, la istituzionalissima European Digital Rights – i promotori hanno sostenuto che fra poco un pool di esperti scriverà un documento per indicare nel dettaglio gli strumenti tecnici per realizzare questo screening di massa “in equilibrio con la tutela dei diritti”.

Ossimoro a parte, il seguito della legge dovrebbe preoccupare ancora di più. Perché stando al dibattito che l’ha accompagnata, l’Europa vorrebbe obbligare anche i social che offrono servizi di messaggi crittografati – WhatsApp e Signal per capire – ad adattarsi ai controlli.

Quindi, di fatto, introducendo una backdoor, una porticina che renderebbe violabili gli scambi “end to end”. E non esisterebbe più la crittografia.

Qualcuno, nel brevissimo dibattito, ha ricordato, ovviamente, che tutto ciò non ha nulla a che vedere con la lotta alla pedofilia. Visto che chi prova ad abusare dei minorenni non si propone certo su FaceBook o sui social tradizionali.

Magari andrebbe potenziata la capacità di infiltrarsi degli agenti nei gruppi di pedofili, magari andrebbe aumentato il numero di persone che si occupano di queste inchieste, visto che – sempre per fare il caso della Germania -, mancando personale, sono ancora da “visionare” centinaia di hard disk sequestrati agli arrestati.

Forse andrebbe accresciuto il coordinamento fra gli investigatori. Di più, come ha detto uno psicologo a Bruxelles: “Tutto ciò sarà dannoso soprattutto per le vittime degli abusi. Chi è colpito da questa violenza ha un bisogno sopra agli altri: comunicare in modo sicuro e confidenziale con terapisti, con avvocati, con personale specializzato. Ha bisogno soprattutto di stanze protette. La possibilità che un’intelligenza artificiale e poi altri possano leggere quel che scrivono potrebbe impedire alle vittime la ricerca di aiuto e sostegno”.

Sembrano, sembravano discorsi ragionevoli. Invece è passata la «deroga». Una «sorveglianza di massa» che ha altri obiettivi, per usare ancora le parole di Patrick Breyer.

Stefano Bocconetti

da il manifesto