Tunisia – In morte della retorica sulla “transizione democratica”: genesi di un golpe annunciato (Seconda Parte)

Un’interpretazione materialista e non idealista dei fatti.
La costituzione tunisina così come tutte le costituzioni apparse fino ad oggi altro non sono che il risultato del rapporto di forza reale raggiunto in un determinato momento storico in un determinato paese tra diverse classi sociali, determinando l’involucro giuridico del potere politico.
Gli eventi politici sono infatti il risultato del movimento delle masse popolari e delle classi sociali i cui interessi sociali ed economici sono più o meno rappresentati coerentemente da partiti politici o organizzazioni collettive quali sindacati, associazioni patronali, ma anche da organizzazioni della cosiddetta società civile ecc.
Pensare che i fatti di questa settimana siano frutto della regia occulta dell’uomo forte, com’è stato definito da alcuni Kais Saied è un’idiozia politica: le interpretazioni di questo tipo che spaziano dalla demonizzazione del tiranno da un lato al culto della personalità del salvatore della patria dall’altro sfociano nell’idealismo e sono lontane dalla realtà.
E’ sempre l’intervento diretto delle masse (o l’assenza di esso/neutralità) sulla scena politica che determina l’evoluzione degli eventi politici stessi: senza le proteste popolari degli ultimi mesi e la mobilitazione popolare di massa e violenta del 25 luglio, non ci sarebbero stati i presupposti per il colpo di stato presidenziale ovvero per forzare momentaneamente le regole del gioco.
Kais Saied piuttosto ha sfruttato la propria carica istituzionale, che ricopre ricordiamo ancora grazie al voto prima e al sostegno dopo, di milioni di tunisini, per giocare le proprie carte in dialettica con “le mosse” degli altri soggetti che partecipano al gioco.

In tal senso ciò che a nostro avviso dovrebbe destare maggior interesse è rappresentato da due elementi:
– chi ha tratto giovamento dal colpo di stato del 25 luglio?
– le nuove condizioni politiche che si sono venute a creare possono favorire l’avanzamento delle istanze popolari espresse dai movimenti di lotta negli ultimi mesi?
Il colpo di stato ha colpito innanzitutto il governo reazionario di Ennahdha-Karama-Qalb Tounes, questo giano bifronte rappresentante la mediazione tra islam politico e vecchio regime, secondariamente ha colpito l’istituzione parlamentare nel suo insieme. Un “parlamento nero” e ultrareazionario per le forze che lo compongono che non poteva che dare alla luce un governo antipopolare espressione dell’accordo delle due fazioni attuali della classe dominante tunisina: la borghesia compradora e burocratica tradizionalmente legata fin dal ’56 all’imperialismo occidentale (ed in particolare a Francia, Italia e USA) e quella legata alle potenze regionali di Turchia e Qatar che ha avuto accesso al potere dal 2012.
I governi della “transizione democratica” seppur con forme parzialmente diverse sono stati caratterizzati da questo minimo comun denominatore in cui Ennahdha è stata la forza parlamentare e di governo egemone in questo processo graduale di restaurazione politica dall’indomani della Rivolta Popolare/rivoluzione fallita (o come l’hanno gramscianamente chiamata alcuni: rivoluzione passiva) fino ad oggi.
Non stupisce allora che la violenza popolare si sia concentrata e abbia colpito il partito politico di regime per eccellenza negli ultimi dieci anni, forza egemone del governo e in parlamento.
In particolare il governo ed il parlamento recentemente deposti, rappresentano l’ultima impersonificazione della cosiddetta “transizione democratica”, locuzione usata indistintamente da tutti i partiti parlamentari dalla Fratellanza Musulmana ai socialdemocratici e dai revisionisti di “sinistra” che cercano un accomodamento nelle istituzioni usando una fraseologia “rivoluzionaria”come il Partito dei Lavoratori (ex PCOT), dalle potenze straniere agli attivisti delle ONG finanziate da quest’ultime.
Una definizione fuorviante perchè denota uno sviluppo politico positivo e progressista in tema di acquisizione di diritti sociali ed economici mentre ciò che è realmente accaduto negli ultimi dieci anni è stato proprio il contrario: una progressiva restaurazione del vecchio regime ma con forme nuove a cui il governo deposto aveva impresso un’accelerazione.
Durante le ultime elezioni il parlamento è stato eletto dalla minoranza del popolo, considerato l’astensionismo record di due anni fa, a cui ha fatto da controaltare un’elezione plebiscitaria a favore di Kais Saied.
Kais Saied in tal senso ha condotto la propria azione politica impersonificando una forma di “populismo puro” in cui il contatto diretto tra masse e leader, l’interpretazione della volontà del popolo e le dichiarazioni e atti politici presidenziali conseguenti, sono legati a doppio filo.
Chi si arrovella intorno al falso problema della legittimità costituzionale inerente all’attivazione dell’articolo 80 non vede, e con questa impostazione idealista non può vedere, che lo scioglimento di un parlamento e di un governo di tale natura non solo non ha provocato scandalo nelle file del popolo ma al contrario sia stato salutato con giubilo dalle larghe masse.
Questa reazione è dovuta al fatto che le masse popolari con le loro organizzazioni e i partiti e gruppi rivoluzionari declamavano lo scioglimento di questo parlamento e la caduta di questo governo già da mesi, ma a causa delle proprie debolezze soggettive non sono riusciti a raggiungere tale obiettivo in maniera totalmente autonoma, allo stesso tempo la mobilitazione popolare ha permesso a Kais Saied di varcare il Rubicone appellandosi alle proprie prerogative istituzionali.
L’esito immediato del colpo di stato del 25 luglio ha risolto questo problema ed è quindi un passo in avanti nella direzione degli interessi del popolo tunisino.
A riprova di ciò il fatto che gli slogan lanciati nelle piazze il 25 luglio erano coerenti con quelli dei movimenti di lotta degli ultimi mesi:
“Ghannouchi assassino”, “Saied dissolvi il parlamento”, “Il popolo vuole rovesciare il sistema”, “Il sistema è corrotto, il capo del governo è corrotto”, “Libertà dallo Stato di polizia della morte”.
La seconda questione da noi posta è invece più complessa perchè ha a che fare con gli sviluppi futuri dell’attuale contraddizione che vede la polarizzazione delle forze reazionarie contrapposte a quelle popolari.
La reazione delle forze in campo e l’interesse delle masse popolari tunisine
Nell’attuale fase di polarizzazione delle forze in campo tutti i soggetti politici e sociali nel paese non hanno altra possibilità che collocarsi in una delle due parti della polarizzazione stessa, tertium non datur.
Nel “polo del sistema”, l’attore principale è Ennahdha che è stato il fulcro attorno a cui ha ruotato l’equilibrio della “transizione democratica”, un partito che ha rassicurato la classe dominante interna e le potenze straniere i cui interessi economici continuano ad essere soddisfatti a detrimento della sovranità e dignità nazionale e del benessere delle classi lavoratrici, dei contadini e del popolo tunisino in generale.
La sola possibilità che Ennahdha sia estromessa dal potere è fonte di preoccupazione dei paesi imperialisti che hanno interessi in Tunisia, in tal senso vanno interpretate le “preoccupazioni per il rispetto dell’assetto costituzionale e democratico del paese” espresse dai comunicati del Dipartimento di Stato USA e dai ministeri degli esteri di Francia e Italia.
Nonostante il 26 luglio il tentativo di riconquistare il parlamento con la forza da parte di Ennahdha-Karama-Qalb Tounes sia fallito miseramente, probabilmente queste forze, proveranno a riorganizzarsi rafforzate dal sostegno internazionale politico e finanziario di cui godono.
A rafforzare oggettivamento tale polo si aggiungono alcuni partiti liberali, socialdemocratici e riformisti (Partito Repubblicano, Corrente Democratica, Partito dei Lavoratori) che hanno condannato la mossa presidenziale.
Sorvolando sulle ex forze di governo, gli ultimi partiti qui citati assumono una motivazione di principio che denota la loro piena fiducia nel sistema democratico borghese e dei suoi meccanismi istituzionali e di potere e quindi del rispetto della legalità istituzionale formale anche se questa cozza con la volontà espressa esplicitamente e palesemente dal popolo nelle piazze, il popolo il cui interesse dovrebbe essere garantito dalla democrazia borghese stessa in via teorica ma che in realtà è calpestato quotidianamente.
Scontato dire che nella “società civile” anche l’estesa rete di ONG finanziate dai paesi occidentali e dall’UE coerentemente con la propria impostazione di “sostegno della democrazia tunisina e alla transizione democratica” sia dentro a questo polo.
Dall’altro lato della barricata la presidenza della repubblica gode momentaneamente di un vantaggio tattico che potrebbe rivelarsi inconcludente o più probabilmente controproducente se non si riuscisse a dare una forma politica e organizzativa definita al diffuso sostegno popolare.
Non è un caso che già il 27 luglio all’indomani del golpe, Kais Saied ha convocato tre riunioni nel palazzo presidenziale in cui sono stati invitati il sindacato unico nel paese UGTT, l’associazione patronale Utica, due associazioni femministe tra cui la storica Associazione Tunisina delle Donne Democratiche, il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, l’ordine degli avvocati, il presidente del Consiglio Superiore della magistratura, il presidente del Consiglio dell’ordine giudiziario ed il vice presidente del Consiglio dell’ordine amministrativo, con il tentativo evidente di includere nell’attuale fase di transizione innanzitutto i rappresentanti di alcuni settori sociali strategici nel paese (i lavoratori e la classe patronale), rassicurare il potere giudiziario e la sua più alta carica attuale, così come i giornalisti. Infine assicurarsi il sostegno delle donne, priorità onnipresente anche nei precedenti regimi dall’indipendenza ad oggi.
Una volta concluse queste riunioni Kais Saied ha fatto un appello pubblico rivolto a tutte le organizzazioni della società civile per contribuire a fissare delle linee guida di una road map per questo mese di transizione fino alla nomine del nuovo primo ministro incaricato di formare il governo.
Per quanto concerne i partiti politici istituzionali che hanno finora sostenuto apertamente il presidente della repubblica si tratta di un partito socialdemocratico e di un partito marxista-leninista (Partito Popolare e Partito dei Patrioti Democratici Rivoluzionario).
Il Partito degli Elkadehines (dei lavoratori più sfruttati/oppressi n.d.a) extraparlamentare marxista-leninista-maoista ha pubblicato un comunicato in cui giudica positivamente la mossa presidenziale ed in accordo con la volontà e gli interessi popolari, così come altri gruppi e partiti rivoluzionari che hanno avuto un ruolo nella rivolta e nelle manifestazioni dello scorso gennaio e febbraio giudicano positivo il colpo inferto al regime di Ennahdha, tutti questi però dichiarano di partecipare all’attuale movimento in maniera critica e indipendente con le proprie parole d’ordini, legate alla conquista di una reale indipendenza nazionale, al controllo diretto dei settori strategici del paese da parte dei lavoratori, differenziandosi dall’impostazione “costituzionalista” del presidente seppur valutando positivamente la rottura de facto del processo di “transizione democratica” (ovvero di restaurazione).
Effettivamente in questa fase in cui gli eventi si susseguono velocemente, le forze politiche che rappresentano gli interessi dei lavoratori e del popolo tunisino sono impegnate nel migliorare i propri sforzi politici e organizzitivi per svolgere in maniera più incisiva il proprio ruolo negli eventi in corso.
Nelle prossime ore sicuramente sarà più chiaro quale sviluppo intraprenderà la polarizzazione in atto, attualmente nessuno scenario è da escludere compreso lo scoppio di una guerra civile dispiegata o in egual modo un passo indietro di “riconciliazione nazionale” che potrebbe concretizzarsi nell’accettazione condivisa un nuovo appuntamento elettorale.
Di certo l’attuale rivolgimento politico è potenzialmente un’occasione per avanzare in direzione dei principi rivoluzionari di Lavoro, Libertà e Dignità Nazionale abortiti dalla “Transizione Democratica”.

NO TAV – il governo e lo Stato di polizia prepara più occupazione e militarizzazione in Val Susa… Ma chi semina vento raccoglie tempesta.

Tav, il ministro Lamorgese: “In un mese 10mila agenti di rinforzo in Valsusa per sorvegliare il cantiere”

Question time alla Camera della titolare dell’Interno: “Proteste seguite con la massima attenzione, dall’inizio dell’anno denunciati 63 attivisti”

Quasi diecimila agenti in più per sorvegliare il cantiere Tav: “Le iniziative di protesta sono seguite con la massima attenzione e con un notevole dispiegamento delle forze di polizia, anche con riguardo ai territori di quei Comuni per ora non ricompresi nel perimetro di quelle aree dichiarate di interesse strategico nazionale”. Lo ha detto il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, nel corso del question time alla Camera in merito alle proteste No Tav in Val di Susa e ai recenti attacchi al cantiere di Chiomonte con pietre e fuochi d’artificio.
“Sul piano dei dispositivi di controllo e vigilanza del cantiere di Chiomonte la Questura di Torino dispone di un rinforzo continuativo di 180 unità giornaliere – ha aggiunto – al dispositivo concorrono anche 266 militari delle forze armate dell’operazione Strade Sicure. Presso il sito di San Didero è operativo un rinforzo continuativo con l’impiego di 120  unità delle forze di polizia, e un contingente di altri 50 militari di Strade Sicure per le attività di vigilanza”.
“L’imponente dispositivo di sicurezza viene rafforzato in occasione di specifiche iniziative di protesta – ha sottolineato il ministro Lamorgese – dal primo al 27 luglio corrente sono stati assegnati alla sede di Torino per queste esigenze 9.356 unità di rinforzo. Per i recenti episodi di contestazione violenta con danneggiamenti a strutture di cantiere sono in corso approfondimenti investigativi per individuare i responsabili – ha concluso il ministro – dall’inizio dell’anno le forze di polizia hanno denunciato 63 attivisti per l’illeciti nel corso delle proteste No Tav”.

Chiudere i Cpr, chiudere i lager di Stato centri di pestaggi e tortura: due esposti alla procura della Repubblica contro il Cpr di Milano

Tutti i “centri di accoglienza” sono illegali perché non si possono tenere persone in carcere, lo si chiami come si vuole, senza che queste abbiano commesso delitti. Lo Stato italiano usa leggi create ad hoc, disumane e fasciste, per reprimere i migranti, e, infatti, in questi centri ogni volta che c’è una “ispezione”, una “visita” (ce ne vorrebbero tante di più) si scopre che assomigliano appunto a dei veri lager dove si tortura.

L’articolo del Manifesto di oggi che riportiamo sotto parla di una di queste “visite” che si è conclusa non solo con la solita pubblica denuncia sugli aspetti moralmente insostenibili di tale situazione ma con due esposti alla procura della repubblica per tortura, chiedendo il sequestro preventivo del centro.

La procura di Milano si prenderà il suo tempo, tempo che non ha chi è rinchiuso in questi lager, e la “soluzione”, quindi, potrà venire solo dalla lotta per la loro chiusura definitiva, nel frattempo ancora una volta si smaschera il finto buonismo dei “gestori” di questa feroce società borghese.

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Milano, due esposti contro il Cpr: ipotesi di torture e abusi d’ufficio

La denuncia. Dopo la visita di una delegazione composta dai senatori Gregorio De Falco (gruppo misto) e Simona Nocerino (5 Stelle) con esperti della rete «Mai più lager-No ai Cpr»

Nello schermo della videosorveglianza interna un uomo in un cortile si fa dei tagli su tronco e braccia, mentre in un corridoio vicino agenti anti-sommossa si preparano a intervenire. La sequenza è avvenuta nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano, ma riflette la quotidianità anche degli altri Cpr. Ne abbiamo notizia solo perché è stata vista dalla delegazione composta dai senatori Gregorio De Falco (gruppo misto) e Simona Nocerino (5 Stelle) che, con esperti della rete «Mai più lager-No ai Cpr», è entrata nella struttura il 5 e 6 giugno scorsi. Quei fotogrammi aprono il rapporto Delle pene senza delitti. Istantanea del Cpr di Milano, reso pubblico ieri contestualmente alla presentazione di due esposti presso la Procura del capoluogo lombardo.

Il primo ipotizza il reato di lesioni e tortura aggravata in concorso per dei pestaggi che, secondo le testimonianze dei reclusi, sarebbero avvenuti nel centro il 25 maggio 2021. Una «smazzoliata» nelle parole di un dipendente dell’ente gestore. Il secondo verte sul rifiuto di atti d’ufficio e chiede il sequestro preventivo del centro per l’indisponibilità di accesso alle cure sanitarie specialistiche. Le ragioni di accuse così gravi sono contenute nelle 90 pagine del rapporto, che disegnano i contorni di una struttura degna di un film horror.

Nel Cpr i reclusi abusano di psicofarmaci, ingeriscono cibo avariato, possono chiamare gli operatori solo prendendo a calci una porta, tentano il suicidio o si infliggono continuamente dei danni fisici. Una «struttura inutile e costosa» che nella metà dei casi fallisce perfino nel suo obiettivo di rimpatriare le persone (nel 2020: 2.232 rimpatri su 4.387 detenzioni in tutti i Cpr). «La questione da porsi è se una società civile possa tollerare un prezzo così alto, in termini di lesioni di diritti e dignità della persona, ma anche economico, per un’azione che in definitiva ha più un fine politico-simbolico che concretamente operativo», chiede il rapporto

https://ilmanifesto.it/milano-due-esposti-contro-il-cpr-ipotesi-di-torture-e-abusi-dufficio/