Soccorso Rosso Proletario

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Morire di carcere. Cosa racconta lo sciopero della fame di Alfredo Cospito

Caterina Calia, Iniziativa alla Sapienza in solidarietà con
Alfredo Cospito in sciopero della fame da 40 giorni contro la
tortura del 41 bis e il carcere ostativo.

Alfredo Cospito, anarchico, è in sciopero della fame dal 20 ottobre. Vuole denunciare le condizioni della pena di chi è condannato al 41bis, come lui. Soprattutto se il verdetto è emesso per opinioni politiche e come strumento di repressione

di Giulia Galzigni

È passato più di un mese da quando Alfredo Cospito ha intrapreso uno sciopero della fame a oltranza per denunciare le disumane condizioni detentive a cui è sottoposto, ergastolo ostativo e regime speciale 41 bis. Alfredo è recluso dal 2012 per la sua attività politica di matrice anarchica, ovvero il coinvolgimento in azioni dimostrative e la diffusione di idee e contenuti sovversivi. Dall’inizio della sua protesta sono stati scritti vari resoconti dei reati che gli sono imputati e dei diversi processi in cui è coinvolto (come ad esempio il testo uscito su “Napoli Monitor”).

La lotta estrema di Alfredo è occasione per un dibattito pubblico più ampio sul senso della pena, sulle attuali tendenze politiche in materia di giustizia e sullo stato delle carceri in Italia. Da qualche settimana prendono la parola in sostegno alla sua denuncia esponenti della giurisprudenza, dell’università, della cultura e della società civile, e si organizzano numerose e diffuse iniziative di solidarietà in Italia e all’estero.

Proviamo a tracciare qui sotto gli elementi più significativi del dibattito, con alcuni rimandi a risorse esterne utili all’approfondimento dei diversi aspetti.

STRAGE POLITICA E ERGASTOLO OSTATIVO

Il 6 luglio 2022 la Cassazione ha riqualificato una delle accuse, che vede Alfredo Cospito co-imputato insieme ad Anna Beniamino nell’ambito del processo Scripta Manent, da strage contro la pubblica incolumità (strage comune) a strage contro la sicurezza dello stato (strage politica). La vicenda in questione riguarda l’esplosione di due ordigni a basso potenziale davanti a una scuola carabinieri, di notte e in un’area extraurbana, che non causò feriti né tanto meno decessi.

Il reato di strage politica è il più grave del nostro ordinamento giuridico, nel quale è stato introdotto dal codice Rocco del 1930. Secondo l’Avvocato Gianluca Vitale la scelta di riqualificare l’accusa in tal senso solleva un problema giuridico e politico noto come diritto penale del nemico:  «è il classico reato che disegna un diritto penale diverso per il nemico: io ti condanno a una pena così alta perché tu sei un nemico dello stato. […] Prevedere l’ergastolo al di là della concreta pericolosità dell’azione è fuori del perimetro costituzionale». È utile inoltre ricordare che l’anarchismo non contempla né rivendica in alcun modo lo stragismo tra le sue pratiche. Risulta quindi paradossale e indicativo che si sia deciso di ricorrere a questa accusa per un reato come quello contestato ad Anna Beniamino e Alfredo Cospito, e che invece non sia stata utilizzata per le grandi stragi degli anni ’80 e ’90 come quelle di Piazza Fontana, della stazione di Bologna, di Capaci, di via D’Amelio, di via dei Georgofili, seppure abbiano causato molti morti e rappresentato effettivamente una minaccia per lo stato.

La riqualificazione in strage politica implica la trasformazione della pena in ergastolo ostativo, il regime detentivo del “fine pena mai” che impedisce alla persona condannata di accedere a misure alternative e altri benefici come liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà. Il “fine pena mai” confligge con la finalità rieducativa della pena, ed è stato contestato dalla Corte costituzionale che nel 2021 ne aveva stabilito l’incostituzionalità, e dalla Corte europea per i diritti umani che nel 2019 aveva invitato l’Italia a rivedere la legge, ritenendola in contraddizione con la Convenzione europea che proibisce «trattamenti inumani e degradanti».

Pochi giorni dopo l’inizio dello sciopero della fame di Alfredo, proprio l’ergastolo ostativo era al centro del primo consiglio dei ministri del nuovo governo Meloni, la cui decisione è stata in sostanza quella di confermarne l’esistenza e anzi di restringere ulteriormente le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, con il beneplacito delle opposizioni.

IL REGIME SPECIALE 41 BIS

Dal mese di aprile scorso Alfredo è stato trasferito nel carcere di Bancali (Sassari) in regime di 41 bis. Forma più estrema tra i regimi speciali di Alta Sorveglianza, il 41 bis è stato inizialmente introdotto per combattere le associazioni mafiose ed è volto a impedire la comunicazione tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno.

Il 41 bis non è una condanna, ma una modalità di trattamento penitenziario, caratterizzata da restrizioni molto pesanti in cui tutto è sottratto tranne le funzioni biologiche primarie. Il regime prevede un’afflizione sensoriale, cognitiva e affettiva estrema: è vietato leggere, studiare, informarsi e comunicare con l’esterno tramite corrispondenza. Le ore d’aria sono ridotte a due in un cubo di pochi metri quadri con alte pareti che impediscono qualunque profondità visiva, e il cielo è coperto da una rete metallica. Un’ora di socialità al giorno insieme a tre altri detenuti sottoposti al medesimo regime da numerosi anni, indicati ovviamente dall’amministrazione penitenziaria.

Come racconta l’Avvocata Caterina Calia, il 41 bis viene applicato per reati politici dal 2003. Un caso eclatante è quello che vede sottoposti a questo regime da 17 anni Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma per il loro coinvolgimento nelle nuove Brigate Rosse. Questo caso è particolarmente significativo in quanto non sussiste il presupposto minimo che giustifica l’applicazione del 41 bis, ovvero l’esistenza di un’organizzazione di appartenenza all’esterno con cui si intende impedire la comunicazione, visto che da anni nessuna azione viene rivendicata con la sigla BR.

Calia osserva come «già con questi i tre prigionieri in realtà la finalità è rompere qualsiasi vincolo di solidarietà, di classe, impedire il passare di idee, di un confronto di qualsiasi natura tra interno ed esterno. […] Siccome il conflitto sociale è ineliminabile, vengono mantenuti come ostaggi con la finalità di prevenzione che non è più sul singolo, ma è diretta a chi all’esterno porta la solidarietà, denuncia le condizioni di vita del 41bis. Questo è scritto nero su bianco sui decreti fatti dal ministero per questi tre prigionieri quindi già lì si capisce che la volontà è non far uscire fuori le idee. Con l’applicazione per la prima volta del 41 bis ad un anarchico si è sdoganata ulteriormente, c’è stato un passaggio che è ancora più esplicito: tu non devi più comunicare col mondo, non devi più sapere nulla, devi essere sepolto vivo».

Nel caso di Alfredo, il pretesto per la disposizione 41 bis è la sua appartenenza al sodalizio FAI, la cui esistenza in quanto gruppo terroristico però non è dimostrata giuridicamente, ma solo ipotizzata. È cosa nota tra l’altro che l’anarchismo non prevede l’esistenza di organizzazioni strutturate e gerarchiche a cui fare riferimento.

ACCANIMENTO GIUDIZIARIO E REPRESSIONE

L’accanimento penale contro Alfredo Cospito non è un caso isolato. Negli ultimi anni c’è stata a una proliferazione di processi e di condanne contro imputate e imputati di area anarchica: nel luglio di quest’anno sono stati dati 28 anni a Juan Sorroche per un attentato senza feriti alla sede della Lega Nord; nel 2020 cinque ordinanze di custodia cautelare in regime di Alta Sorveglianza per terrorismo, nonostante reati minori quali manifestazioni non preavvisate e imbrattamenti; due processi a Perugia qualificati come istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo per diffusione di slogan violenti anarchici; e altre iniziative giudiziarie a Trento, Torino, Bologna e Firenze, con diffusa applicazione di misure cautelari in carcere. Da notare che molte di queste sentenze fanno riferimento al reato di propaganda sovversiva, fattispecie però abrogata nel 2006, sulla base dell’assunto che la diffusione di idee, anche di sovversione violenta, debba essere tollerata da uno stato che si dica democratico, pena la negazione del suo stesso carattere fondante.

Queste ricorrenze allarmanti hanno spinto decine di avvocate e avvocati a esporsi sottoscrivendo una lettera aperta. La denuncia degli avvocati rileva una torsione giuridica in atto, finalizzata allo spegnimento di qualcosa che sta ben oltre il ruolo della magistratura, segno di “un pericoloso slittamento verso funzioni meramente preventive e neutralizzatrici degli strumenti sanzionatori”. Emerge infatti un doppio binario nella valutazione delle condotte, non più legate ai fatti ma agli autori, in cui le garanzie dell’imputato subiscono un deterioramento in vista di un risultato da raggiungere. Lo scardinamento delle garanzie costituzionali e la sproporzione della pretesa punitiva sono emblematici di «una deriva giustizialista che rischia di contrapporre a un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i tre diritti tipici degli stati democratici, uno riservato ai soggetti ritenuti pericolosi, destinatari di provvedimenti e misure rigidissimi, nonché di circuiti di differenziazione penitenziaria».

L’utilizzo di misure repressive come strumento per contrastare fenomeni sociali è una pratica in uso allo stato fin dalla stagione del terrorismo degli anni ’80. La risposta a un fenomeno sociale, che dovrebbe situarsi su un piano politico, affrontando le condizioni che tale fenomeno fa emergere, viene invece demandata alla magistratura. Lo strumento giuridico viene quindi usato in maniera impropria, soprattutto nei confronti delle categorie rispetto alle quali si è sviluppata una politica di emergenza: il terrorismo, la mafia, le tossicodipendenze, i migranti. Il carcere fa parte di un complesso sistema repressivo e punitivo che negli ultimi anni viene rinforzato senza sosta dai governi di ogni colore, per mezzo di decreti e ordinanze che producono morti in mare, chiusura dei confini, criminalizzazione della socialità, limitazioni a diritti fondamentali come la libertà di circolazione e di espressione. Tanto più è forte questa tendenza giustizialista, tanto più la controparte dei movimenti conflittuali sociali dal basso si indebolisce, e questi rapporti di forza entrano nelle aule di giustizia alterandone i processi.

STRAGE DI STATO

Nelle carceri italiane si sta consumando una vera e propria strage. A novembre 2022 si contano 79 suicidi dall’inizio dell’anno, il numero più alto da quando si registra questo dato. Gli ultimi tre casi proprio negli ultimi giorni: ad Ariano Irpino un ragazzo quarantenne arrivato da una settimana soltanto, tossicodipendente; a Firenze un detenuto marocchino, anche lui con problemi di dipendenze e con un noto disagio psicologico; a Foggia un detenuto nigeriano.

L’osservatorio Antigone ha pubblicato lo scorso 2 settembre il rapporto “Suicidi. Persone, vite, storie. Non solo numeri ” aggiornato al 2022, che rileva che il tasso di suicidi più elevato è tra persone giovani (tra i 20 e i 39 anni), e mette in luce la presenza massiccia di persone carcerate con disagi psichici e problemi di dipendenza da farmaci o da sostanze. I dati raccontano che il carcere è un luogo che crea isolamento e disperazione, e che la finalità di accompagnare il condannato nel reinserimento sociale, prevista dall’articolo 27 della Costituzione, è completamente mancata. Il record macabro dei suicidi di quest’anno si aggiunge al triste elenco di tragedie, abusi e violenze in ambito penitenziario, tra i quali ricordiamo i morti per le rivolte nel marzo 2020, a inizio pandemia, e le torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

È importante segnalare come proprio dall’area anarchica arriva da anni una delle rarissime voci di denuncia sulla questione carceraria e sulle lotte condotte all’interno dei CPR – Centri di Permanenza per Rimpatri, vere e proprie galere per migranti.

MOVIMENTO DI OPINIONE E INIZIATIVE DI SOLIDARIETA’

La storia di Alfredo e più largamente ergastolo ostativo, 41 bis e condizioni di detenzione sono oggetto di una crescente attenzione da parte del mondo accademico e culturale, di cui citiamo alcuni esempi che ci sembrano rilevanti, senza alcuna pretesa di esaustività.

Il Dubbio”, giornale degli avvocati, ha condiviso le riflessioni dei professori universitari Spangher e Fiandaca, che denunciano lo stravolgimento dello strumento penale dall’epoca dello stragismo in avanti. Massimo Cacciari ha scritto un articolo su “La Stampa” in cui sottolinea la sproporzione tra reato commesso e pena inflitta. “Il post” invece si concentra sullo sciopero della fame come unica forma di protesta rimasta alle persone prigioniere e ne traccia i precedenti. Su “Ristretti Orizzonti” inoltre si più consultare una rassegna stampa quotidiana sul tema carcerario. L’Avvocato Flavio Rossi Albertini, che segue personalmente il caso Cospito insieme a Maria Grazia Pintus, ha rilasciato nelle ultime settimane diverse interviste, tra le quali segnaliamo questa perché più recente su Radio Città Fujiko. Nella puntata del 20 novembre di Zazà su Radio3 prende la parola il giornalista e docente universitario Luigi Manconi, che ha anche curato un articolo uscito su “Repubblica”.

Moltissime anche le iniziative di solidarietà organizzate nel corso degli ultimi mesi.Qui una raccolta in costante aggiornamento delle azioni e dei presidi in Italia e all’estero, tra cui citiamo l’occupazione della sede di Amnesty International a Roma, che mette in risalto il parallelo tra l’indignazione verso il sistema carcerario degli altri paesi e il silenzio su quello che succede nel nostro.

Il 1° dicembre è fissato a Roma il riesame della disposizione di 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito. Il 5 dicembre a Torino ci sarà l’udienza in appello per la conferma della pena.

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Altri otto agenti di polizia penitenziaria arrestati per tortura

Altri otto agenti di polizia penitenziaria arrestati, ieri, per tortura e lesioni personali. Questa volta il carcere è il “Panzera” di Reggio Calabria e a finire nell’ordinanza del procuratore reggino

Altri otto agenti di polizia penitenziaria arrestati, ieri, per tortura e lesioni personali. Questa volta il carcere è il “Panzera” di Reggio Calabria e a finire nell’ordinanza del procuratore reggino Giovanni Bombardieri e della pm Sara Perazzan c’è anche il comandante del reparto al quale vengono contestati anche i reati di falso ideologico, omissione d’atti d’ufficio, calunnia e tentata concussione. Per lui e altri quattro poliziotti penitenziari il Gip ha disposto la custodia cautelare ai domiciliari, mentre per altri due agenti indagati è scattata la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio.

I fatti contestati agli indagati risalgono al 22 gennaio 2022 e riguardano l’episodio di un detenuto trentenne campano, Alessio Peluso, che avrebbe subito violenza per essersi rifiutato di rientrare in cella dopo l’ora di passeggio all’interno del carcere. Dopo la sua denuncia altri reclusi avrebbero presentato esposti in cui riferivano altri episodi di violenza.

Secondo un rapporto di Antigone sono oltre 200 gli operatori penitenziari indagati per tortura e violenze avvenute nelle carceri italiane.

criminalizzazione contro film No tav e lotta continua al festival di torino

Torino Film Festival, polemica su film No Tav. Augusta Montaruli attacca Steve Della Casa

La sottosegretaria all’Università Augusta Montaruli (Fdi) contro Steva della Casa e la selezione artistica del Torino film festival, di cui domani sarà inaugurata la 40esima edizione e nel cui programma vi è anche, all’interno della sezione ‘Dei conflitti e delle idee’
un film su Lotta continua e uno sulla Tav .
Montaruli posta uno screen dalla pagina Instagram del film sul movimento No Tav “La scelta”, che ha pubblicato un post che inizia così: “In questi dieci anni di lavorazione del film abbiamo vissuto nel movimento No Tav in una forte consonanza ideale con esso”.
Post a cui Montaruli replica: “Se si mette come direttore artistico di Torino film festival Steve Della Casa il risultato è questo: ‘consonanza ideale’ con chi attacca ogni giorno operai e polizia e ulula pure alla repressione dello Stato dimenticando che è proiettato grazie al contributo pubblico”.
Il direttore del Torino film festival Steve Della Casa, parlando dei due film ‘politici’ in concorso, questa mattina ha dichiarato: “Quello su Lotta continua, tema che conosco bene (ne è stato militante negli anni ’70, ndr), è molto equilibrato e montato benissimo. Il film sui No Tav è invece molto più squilibrato”, ha ammesso Della Casa, “ma racconta le persone prima ancora delle loro scelte”.

repressione e montatura poliziesca contro il gruppo musicale band P38

dalla stampa borghese

«Istigava a riprendere il progetto eversivo delle Br». Perquisita la band P38

I membri del gruppo musicale usavano nomi falsi. Le denunce dei parenti delle vittime del terrorismo

I nomi d’arte sono Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Young Stalin. Insieme, fino a cinque mesi fa, formavano la band «P38 – La Gang» ed erano soliti solcare i palcoscenici di circoli privati e centri sociali proponendo musica trapper. La loro reale identità, invece, è oscura alla maggior parte dei fan: non fosse altro che erano soliti presentarsi ai concerti celandosi dietro a un passamontagna bianco. A conoscerli, però, sono gli investigatori della Procura di Torino, che da tempo li ha iscritti sul registro degli indagati con l’accusa di apologia di terrorismo. Ieri mattina, carabinieri e polizia si sono presentati a casa di questi artisti ribelli, il più giovane ha 23 anni e il più grande 34, con un decreto di perquisizione: nessuno di loro abita in Piemonte, risiedono a Bergamo, Nuoro e Bologna. L’accusa, stando al capo d’imputazione, è: «Quali componenti del gruppo musicale P38 La Gang facevano apologia del gruppo terroristico Brigate rosse, di cui esponevano nei concerti la bandiera rossa con una stella a cinque punte e la scritta Br, e delle loro imprese delinquenziali. Nonché istigavano a riprenderne il progetto eversivo anche tramite l’uso della violenza avverso rappresentanti della politica e dell’informazione».

«P38» è chiaramente evocativo di un determinato periodo storico: è la marca della pistola che le Br usavano per gambizzare e uccidere i loro obiettivi politici. Ma a segnare il confine tra un offensivo amarcord e la presunta istigazione a delinquere sarebbero i testi delle canzoni urlate dal palco. Tra questi, il più famoso parla del rapimento di Aldo Moro: s’intitola «Renault» ed è un esplicito riferimento alla vettura in cui venne ritrovato il corpo del leader della Dc: «Presidente mi sembra stanco, la metto dentro una Renault 4» e «Zitto pagami il riscatto, zitto sei su una R4». Molti altri — fino a poco tempo fa rintracciabili sul canale YouTube — sembrano inneggiare agli Anni di Piombo: «Primo Comunicato», «Fritto misto», «Ghiaccio Siberia». Quest’ultimo si apre con la registrazione di un’intervista a Mario Moretti, membro del gruppo che rapì e uccise Moro, del giornalista Sergio Zavoli.

L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Emilio Gatti e dal sostituto Enzo Bucarelli, ha preso le mosse nel dicembre dello scorso anno dopo un’informativa della Digos di Torino. Ma è stato nel maggio 2022 che la vicenda è mediaticamente deflagrata. In poco tempo, la band si è fatta conoscere esibendosi su palchi meno di nicchia. E così il Primo Maggio ha proposto la propria performance negli spazi del circolo Arci di Reggio Emilia in occasione dell’evento: «La Festa dell’Unità Comunista». I P38 hanno fatto il loro ingresso con il tradizionale look (passamontagna bianco e bandiera di stampo brigatista), per poi intonare: «Esco con il ferro e ti vengo a sparare come a Montanelli». Parole inaccettabili per chi negli Anni di Piombo ha perso genitori, fratelli e amici. Tra questi anche Bruno D’Alfonso, il figlio di Giovanni, il carabiniere di 44 anni ucciso dalle Br il 5 giugno 1975 in un conflitto a fuoco alla Cascina Spiotta, nell’Alessandrino, durante la liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia. L’uomo ha presentato un esposto, mentre sul web la polemica si faceva sempre più accesa. Molti concerti sono stati annullati e a giugno è stata la stessa band ad annunciare su Instagram il ritiro dalla scena musicale: «Il progetto P38 è giunto al termine. Il tribunale dei magistrati e quello dei giornalisti incombono sulle nostre vite personali. I nostri telefoni, le nostre abitazioni e i nostri cari sono controllati da reparti Digos di tutta Italia. Ci togliamo il passamontagna per tornare in mezzo a voi come persone, come amici, come compagni. Ma non più come P38». Un addio che non li ha salvati dai guai giudiziari.

Torino, indagata per apologia di terrorismo la band «P38-La Gang»

Perquisizioni nei confronti dei componenti del gruppo

Quattro perquisizioni sono state eseguite da polizia e carabinieri nei confronti dei componenti della band musicale «P38-La Gang», (sciolta lo scorso giugno), indagati dalla procura di Torino per apologia di terrorismo. Il blitz è scattato in mattinata di oggi (25 novembre) quando sono entrati in azione militari dell’Arma e agenti della questura di Torino, coadiuvati dai colleghi di Bologna, Bergamo e Nuoro. Nel corso dell’operazione è stato sequestrato materiale informatico.

L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Enzo Bucarelli, risale al dicembre scorso, ma è emersa nel maggio di quest’anno in seguito a un esposto presentato da Bruno D’Alfonso, il figlio di Giovanni, il carabiniere di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse il 5 giugno 1975 in un conflitto a fuoco alla Cascina Spiotta, nell’Alessandrino, durante la liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia. Nel mirino degli inquirenti sono finiti i testi delle canzoni che la band presentava sui palchi di piazze e locali italiani.

A maggio, i P38, che è anche il nome della pistola divenuta il simbolo degli anni di piombo, si erano esibiti all’Arci Tunnel di Reggio Emilia, portando sul palco, con il volto coperto da passamontagna, la stella a cinque punte delle Brigate rosse e brani sugli anni di piombo.

Tra gli autori di esposti presentati contro la band c’era anche Maria Fida, figlia di Aldo Moro, il presidente della Dc rapito e assassinato dai brigatisti. Uno dei brani più famosi parla infatti del rapimento Moro, s’intitola «Renault» ed è un chiaro riferimento alla vettura in cui venne ritrovato il corpo del leader della Dc: «Presidente mi sembra stanco, la metto dentro una Renault 4».

Dopo gli esposti, in cui si sottolineava che le loro canzoni inneggiavano alle Br e al terrorismo, molti concerti sono stati annullati. A giugno, poi, è stata la stessa band ad annunciare su Instagram il ritiro dalla scena musicale: «Il progetto P38 è giunto al termine», denunciando appunto i concerti cancellati e la stretta sorveglianza della Digos, che aveva reso la vita, professionale e non, impossibile.

Ivrea – “Portateci via da questo inferno”

Ivrea, il grido dei detenuti picchiati: “Portateci via da questo inferno”

Pestaggi, pasti negati e violenze psicologiche: 45 indagati tra cui due direttori dell’istituto (continua solo per gli abbonati, n.d.r.)

CORRIERE DELLA SERA (TORINO)

Carcere di Ivrea, botte e torture ai detenuti: 45 indagati

Al momento gli indagati iscritti sono 45, tra appartenenti alla polizia penitenziaria, medici in servizio presso la Casa circondariale di Ivrea, funzionari giuridico pedagogici e direttori pro-tempore

Avrebbero rinchiuso detenuti dentro apposite celle, picchiandoli e impedendo loro di vedere anche i difensori: per questo diversi agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Ivrea sono indagati per tortura; oltre ad altre persone tra cui medici, educatori e direttori-pro tempo (in tutto 45), cui vengono contestati altri reati, tra cui il falso in atto pubblico. Episodi che – secondo la Procura di Ivrea – continuavano ad accadere, nonostante le indagini della Procura Generale riferite a fatti del 2015, in cui erano già finite indagate 25 persone per  pestaggi ai detenuti avvenuti nello stesso carcere di Ivrea. Per questo, nel cuore della notte scorsa (22 novembre), personale del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, del comando provinciale dei carabinieri di Torino e della guardia di finanza di Torino, hanno dato esecuzione a 36 perquisizioni domiciliari, notificando altrettante informazioni di garanzia. Gli accessi sono avvenuti nella casa circondariale e nelle abitazioni degli indagati.

La nuova indagine riguarda numerosi fatti riferiti agli anni successivi (a quelli oggetto di accertamento da parte della Procura Generale), e in particolare diversi episodi dell’ultimo biennio, alcuni anche recentissimi, sino all’estate scorsa. Al momento gli indagati iscritti sono 45, tra appartenenti alla polizia penitenziaria, medici in servizio presso la Casa circondariale di Ivrea, nonché funzionari giuridico pedagogici e direttori pro-tempore: i reati ipotizzati sono quelli di tortura con violenze fisiche e psichiche nei confronti di numerosi detenuti, falso in atto pubblico e reati collegati. Le indagini finora svolte – secondo gl investigatori, coordinati dal pubblico ministero Valentina Bossi – hanno consentito di raccogliere precisi e gravi elementi probatori oggettivi che hanno fornito riscontro alle denunce prodotte alla Procura nel corso degli anni (da alcuni detenuti), permettendo così di individuare la cosiddetta “cella liscia” nonché il cosiddetto “acquario”, celle entro le quali i detenuti venivano picchiati e rinchiusi in isolamento senza poter avere contatti con alcuno, nemmeno con i loro difensori.

I reati risultavano tuttora in corso, situazione che ha reso ineludibile l’intervento degli inquirenti. Le indagini proseguono, per meglio chiarire le responsabilità di ognuno in relazione ai fatti già noti e per verificare l’eventuale sussistenza di ulteriori episodi in danno dei detenuti.

Ivrea – il carcere dei massacratori e torturatori in divisa – pagherete caro, pagherete tutto!

Pestaggi e umiliazioni nel carcere di Ivrea. Detenuto in isolamento 15 giorni per far guarire le ferite

Agenti di polizia penitenziaria, medici, educatori e dirigenti non avrebbero mai interrotto le violenze fisiche e psicologiche dietro le sbarre

Li picchiavano nella cella liscia, li portavano nell’acquario, denudati, tenuti al buio per interminabili ore. Imponevano il silenzio, punivano con provvedimenti disciplinari inventati o pretestuosi, al solo scopo di infondere la paura. Il rischio per i detenuti era quello di veder andare in fumo gli sconti dei giorni per la libertà anticipata. Tutti sapevano, pochi parlavano. È la storia di un inferno che è proseguito come se nulla fosse, nonostante un’indagine pregressa che già coinvolgeva il carcere di Ivrea, nonostante l’attenzione che altre procure, e gli stessi media, hanno riservato agli intollerabili pestaggi nei confronti dei detenuti. Botte, vessazioni, minacce e relazioni falsificate.

E ancora una volta il reato di tortura: la procura eporediese ha messo insieme quattro anni di denunce e nella notte tra lunedì e martedì ha proceduto ad effettuare 36 perquisizioni. Ma sono 45 in tutto gli indagati coinvolti, per la maggior parte agenti della polizia penitenziaria ma anche medici in servizio nel carcere, funzionari giuridico pedagogici e direttori pro-tempore della casa circondariale. Personale della polizia penitenziaria, carabinieri e guardia di finanza hanno bussato alle abitazioni degli indagati, sequestrando cellulari e supporti informatici. Poi li hanno portati in carcere dove hanno proceduto alla perquisizione dei loro armadietti. Le guardie – il cui gruppo più numeroso è difeso dall’avvocato Celere Spaziante – negano ogni accusa e si dicono fiduciosi di chiarire al più presto le proprie posizioni.

Quello che ha stupito gli inquirenti è che il carcere di Ivrea negli anni sia rimasto il penitenziario più temuto, quello in cui i detenuti non volevano essere portati e quello sul quale, appena venivano trasferiti, raccontavano gli orrori subiti, nel famoso “acquario”, l’anticamera dell’infermeria che equivale a una cella liscia. Un carcere in cui i direttori hanno condiviso il ruolo in altre sedi, risultando spesso assenti.

Dopo l’inchiesta avocata dalla procura generale per i fatti risalenti al 2015 e 2016, per cui ci sono stati 25 avvisi di garanzia, la procura guidata da Gabriella Viglione ha deciso di riunire in un solo fascicolo tanti episodi – sarebbero una ventina quelli in indagine – tutte le denunce sporte tra il 2019 e l’agosto 2022. Storie di violenze fisiche e psicologiche sui detenuti spesso più fragili, italiani e stranieri. Come il tunisino trasferito dal carcere di Vercelli che aveva dimenticato in cella le foto del padre e del figlio. Dopo aver chiesto di riaverle per giorni, alcuni agenti sarebbero arrivati nella sua cella dicendogli di seguirli per riprenderle. Invece lo avrebbero portato nell'”acquario”: l’avrebbero denudato, ammanettato e picchiato.

Altri due detenuti stranieri avevano fatto racconti simili. Un italiano sarebbe stato messo in isolamento per 15 giorni solo perché guarissero lividi e ferite e nessuno se ne accorgesse, per poi essere anche trasferito per nascondere le violenze. Gli esposti si sono susseguiti nei mesi, correlati ad abusi psicologici, minacce di ritorsioni o ispezioni in cella quasi quotidiane, per dispetto, con annessi rapporti disciplinari destinati all’archiviazione ma comunque in grado di vessare i detenuti. Un italiano ne ha ricevuti una dozzina, uno dopo l’altro: entravano nella sua cella e sostenevano di aver trovato qualcosa di illecito. Ancora, il caso di un italiano di 22 anni, a cui era stato rotto un braccio. Non durante un pestaggio ma nel “braccio di ferro” con un agente: un fatto ufficialmente catalogato come una caduta per le scale. Al padre, il giovane avrebbe raccontato la reale dinamica. Ma a quel punto per lui sarebbe cominciato l’inferno. Assistito dall’avvocato Gianluca Orlando, è stato sentito più volte. E sono emerse le minacce e le relazioni falsificate proprio per coprire quel fatto. I medici sarebbero invece accusati di omissioni, per aver coperto o evitato di denunciare le lesioni riscontrate sui detenuti.
Tra gli ultimi episodi finiti al vaglio degli investigatori anche quello di un ragazzo italiano detenuto dal 24 luglio al 31 agosto, denudato, picchiato e costretto ad assumere psicofarmaci. La madre aveva raccontato in una lettera, l’orrore senza fine del carcere di Ivrea.

Perquisizioni e foglio di via a un compagno sospettato di aver scritto: ABBASSATE I PREZZI, NON PAGHIAMO. Complicità e solidarietà dal srp

Venerdì scorso un compagno anarchico del Campetto occupato a Giulianova è stato perquisito da agenti dalla Digos, che non trovandolo in casa all’alba, l’hanno fermato per strada mentre andava al lavoro. Gli hanno sequestrato il telefono subito e in mezzo alla strada gli agenti hanno eseguito una prima perquisizione, che poi è stata estesa alla sua abitazione e alla sua autovettura. Oltre il cellulare, sono stati sequestrati indumenti e oggettistica varia. Il compagno poi è stato portato in Questura dove è stato fotosegnalato, gli sono state prese le impronte digitali e gli è stato dato un foglio di via dal Comune di Teramo, della durata di due anni. Nel primo pomeriggio è stato rilasciato.
La perquisizione prende piede, a detta delle carte, da un danneggiamento che sarebbe avvenuto circa un mese fa a un punto Enel a Teramo, a cui sarebbe stata incollata la serratura e lasciato il biglietto ABBASSATE I PREZZI, NON PAGHIAMO.

Non è la prima volta che gli occupanti del Campetto subiscono queste intimidazioni, e misure repressive, l’ultima, in ordine di tempo è stata tre settimane fa, quando lo spazio sociale ospitava la presentazione del libro “Prostitute in rivolta”, a cura del collettivo Ombre Rosse e poi uno spettacolo a cura del Collettivo Malelingue. Allora l’intero quadrante intorno allo spazio fu accerchiato da forze dell’ordine, digos, polizia, carabinieri, vigili urbani, finanza con unità cinofile, investendo migliaia di soldi pubblici in un’operazione repressiva e intimidatoria, mentre per le cose essenziali i soldi non ci sono.

Guerra, carovita, carobollette, disoccupazione, precarietà, queste sì invece ci sono, e chiunque sia stato a incollare quella serratura e a lasciare quel biglietto ha fatto bene.
Solidarietà senza se e senza ma al compagno perseguitato, se toccano uno toccano tutti!
FORZA GIGI, LA LOTTA CONTINUA!