Ilaria Cucchi: «Quella consuetudine di pestare gli arrestati»

Da popoffquotidiano

Ilaria Cucchi: «per la difesa di Mandolini è consuetudine maltrattare gli arrestati». Consip, condannato il generale Del Sette, che c’entra con Cucchi?

«La difesa di Roberto Mandolini sta dicendo che è una consuetudine da parte delle forze dell’ordine maltrattare e pestare gli arrestati. Che c’è stata troppa attenzione per questo su quanto accaduto a Stefano». Così in un post su Facebook Ilaria Cucchi, ha commentato l’udienza di ieri del processo d’Appello, che si è svolta a porte chiuse, per l’uccisione di suo fratello Stefano in cui ha preso la parola il difensore del maresciallo dei Carabinieri Roberto Mandolini.

Nel procedimento, forse il più noto caso di malapolizia, in cui sono imputati quattro carabinieri, Mandolini è accusato di falso e per lui il pg ha sollecitato una condanna a 4 anni e mezzo. Per capirci Mandolini è quello che ha detto a quello che poi sarebbe diventato il supertestimone, Francesco Tedesco: «Tu non ti preoccupare, devi dire che stava bene. Tu devi seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere».

Ora la linea dell’Arma potrebbe essere riassunta nella consuetudine all’abuso che i suoi difensori hanno sbandierato come argomento difensivo?

Secondo la sentenza di primo grado, è stato Mandolini a dare il via a una concatenazione di falsificazioni che sarebbe continuata su input di alcuni ufficiali ed è ora oggetto di un processo specifico. In questi anni di processi abbiamo appreso che il maresciallo è un tipo ambizioso, secondo i suoi sottoposti voleva gonfiare il numero degli arresti per mettersi in luce con i suoi superiori. Pochi giorni dopo il delitto Cucchi ci fu un corteo nel suo quartiere, Torpignattara, e qualcuno raccontò come in quel periodo quel quadrante della periferia romana sembrava il far west per come fossero “bruschi e disinvolti” i tutori dell’ordine. E’ in quel clima che potrebbe essere maturato il contegno violentissimo dei carabinieri che pestarono Stefano Cucchi che, sei giorni dopo, sarebbe morto, nascosto dagli sguardi, nel “repartino”, il reparto penitenziario del Pertini?

Nello stesso periodo altri carabinieri romani furono protagonisti di un tentativo di ricatto dell’allora presidente della Regione, Marrazzo, e di un clamoroso errore scaturito dall’ansia di far dimenticare all’opinione pubblica quell’episodio: venne sbattuto in prima pagina uno straniero accusato di uno stupro al parco della Caffarella ma era assolutamente estraneo ai fatti. Mandolini iniziò, secondo le ricostruzioni agli atti dei processi, le prime operazioni di insabbiamento. Un ministro (post fascista, all’epoca regnava Berlusconi), La Russa pronunciò un anatema a reti unificate contro chiunque avesse sospettato dei carabinieri: «Non ho strumenti per accertare, ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione». Pochi giorni dopo la morte, il 26 ottobre 2009, i vertici romani dell’Arma inviarono tre note di «plauso» e «apprezzamento» alla compagnia dei carabinieri che aveva operato l’arresto del geometra, deceduto 4 giorni prima, una settimana dopo essere stato arrestato per droga.

E un cono d’ombra avvolse per anni l’Arma, finché le testimonianze di alcuni carabinieri, a sei anni dai fatti, non permisero con «elementi di dirompente novità» nuove indagini e l’approdo a due processi per una varietà impressionante di abusi in divisa, uno per il delitto, l’altro per la catena di depistaggi e falsificazioni che, secondo l’accusa (il primo grado è in corso), sarebbero stati ordinati ed effettuati da ufficiali, sottufficiali e militari della Benemerita.

Negli anni avremmo messo a fuoco anche la figura di Mandolini, quello della «consuetudine di ciancicare gli arrestati», Popoff lo descrisse come il “maresciallo felice”, come lui stesso, con i post sui social, affermava di essere i primi giorni di gennaio 2016: «Ad oggi ho ricevuto quasi 3000 messaggi in privato di padri e madri di famiglia, di cittadini onesti, di persone che non delinquono nella vita per vivere, genitori attenti all’educazione dei figli… ».

Come moltissimi tutori dell’ordine anche il maresciallo sembrava convinto di servire con onore uno stato, troppo permissivo, che non difende adeguatamente i propri servitori. Per esempio il post del 20 settembre 2014: “Le forze dell’ordine arrestano……e i giudici liberano…..!!!! È sempre stato così in Italia e sempre così sarà”. Forse per questo la consuetudine di maltrattare gli arrestati come unico argomento difensivo. Anche le intercettazioni dei suoi uomini forniscono uno spaccato inquietante della visione del mondo che li ispira: «Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (…). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie», dice uno dei tre indagati per il pestaggio, lo stesso che l’ex moglie rimprovera di essersi divertito a pestare Cucchi. Dirà la donna agli inquirenti che quel pestaggio non fu un caso isolato: «Quando raccontava queste cose Raffaele rideva e, davanti ai miei rimproveri, rispondeva “Chill è sulu nu drogatu e’ merda”».

Il comandante generale dell’Arma di quel periodo, Tullio Del Sette (nella foto), ha dichiarato, 5 anni fa, mentre emergeva l’evidenza della responsabilità dei suoi uomini nel caso Cucchi: «Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri».  Poche ore prima che finissimo di scrivere questo articolo Del Sette è stato condannato a 10 mesi (pena sospesa) nell’ambito di un processo-stralcio della maxinchiesta sul caso Consip dall’ottava sezione collegiale del tribunale di Roma. Era accusato di rivelazione del segreto di ufficio e favoreggiamento.

Si potrebbe dire che ieri è stata una pagina nera per l’Arma, si potrebbero riempire quaderni di frasi fatte sulle mele marce. Oppure si potrebbe ragionare su come viene costruito un tutore dell’ordine, con quale immaginario, quale subcultura, quale tacito patto d’impunità, quale opacità e osservare gli argomenti di chi, lontano da qui, scende in piazza per gridare “Defund the police”.

Ora i proletari hanno altri 3 buoni motivi per combattere il carcere, ma la strada è una sola: unità e lotta di classe a 360°

52.000 persone a rischio covid. A questo numero elevatissimo corrispondono bambini al seguito delle madri, anziani, ammalati gravi di varie patologie, disabili, persone in custodia cautelare, migliaia di persone a cui mancano pochi mesi per uscire ma non escono perché condannati per reati “ostativi”. L’80% della popolazione detenuta è colpevole di essere povera, emarginata e facilmente ricattabile. Si tratta per lo più di meridionali e migranti, e il carcere è un’istituzione profondamente classista, è l’espressione di una giustizia a senso unico, quella borghese. E se non bastassero questi dati a convincercene, andiamo a leggere la cronaca di ieri:

  • Denis Verdini è stato scarcerato e da oggi sconta agli arresti domiciliari nella sua villa di Firenze la pena di sei anni e sei mesi per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha provvisoriamente accolto l’istanza dei suoi difensori, preoccupati per un focolaio Covid scoppiato all’interno del carcere di Rebibbia dove Verdini è recluso dallo scorso novembre.

Nella sua breve permanenza in carcere Verdini è stato trattato come un detenuto “eccellente”: in cella singola, mentre agli altri detenuti stipati in 7/8 erano impediti colloqui e assistenza sanitaria adeguata, ha ricevuto visite, non solo mediche, ma di numerosi parlamentari, politici, imprenditori mafiosi. Dal genero Salvini a Matteo RenziLuca Lotti e tanti ex compagni di centrodestra: dal “re delle cliniche romane” Antonio Angelucci a Ignazio Larussa e Daniela Santanché, fino a Maurizio Lupi e Renata Polverini. Sempre manettari nei confronti dei proletari, sempre solidali con il loro comitato d’affari e con la polizia al servizio dello stato dei padroni.
La stessa polizia che 2 o 3 settimane fa ha risposto con lacrimogeni, manganelli e trasferimenti punitivi al grido di aiuto dei detenuti comuni, preoccupati per lo sviluppo del focolaio covid. Qui riportiamo lo sfogo di una familiare che ha scritto a tutti i politici, fino a Mattarella, una lettera che merita di essere letta da tutti e non solo da chi non ha orecchie per gli ultimi:

“oggi ho voluto esprimere il mio dissenso ma a molti nn è piaciuto!
Giusto x rimare in tema giustizia,combinazione ieri Verdini e’ stato scarcerato( arresti domiciliari ma anche quelli dureranno meno della carcerazione ) LA LEGGE NN È UGUALE PER TUTTI,PERCHÉ NON TUTTI SONO UGUALI PER LA LEGGE!!
DATE UN’ESEMPIO DI PAESE DEMOCRATICO, SIAMO IN PIENA PANDEMIA E NONOSTANTE TUTTO FATE FINTA DI NIENTE ,DETENUTI CONTAGIATI ,MORTI,PER NON PARLARE DI SUICIDI ,MALTRATTAMENTI,DETENUTI PRIVATI DEI LORO DIRITTI,A NOI IMPONETE IL DISTANZIAMENTO MENTRE LORO NELLE CELLE SONO IN 7/8 ..PER NN PARLARE DELLA SANITÀ !! FATE UN ATTO D’ONORE : DATE L’AMNISTIA,DATE L’INDULTO, FATE IN MODO DI ESSERE RICORDATI COME ESSERI UMANI CAPACI DI PROVARE EMPATIA E UMANITÀ SOPRATTUTTO IN QUESTO MOMENTO DELICATO E CRITICO DEL PAESE!! SIAMO ANCORA IN UN PAESE DEMOCRATICO O SIAMO IN PIENA DITTATURA ?

PRESIDENTE #Mattarella LA PREGO DI MEDITARE E DI NN GIRARSI DALL’ALTRA PARTE COME HANNO FATTO TUTTI FINO AD ORA !!”

  • Dal Resto del Carlino – Modena: “Morti in carcere dovute a overdose Nessuna violenza”. “La Procura di Modena ha già accertato che nove detenuti del carcere Sant’Anna sono deceduti per l’assunzione di sostanze stupefacenti sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti durante la rivolta dell’8 marzo”. Lo ha detto ieri, nella sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi”, la cui credibilità ora è messa in discussione dalla stessa magistratura per il suo coinvolgimento nel caso Palamara.

Ora dopo le denunce dei detenuti, l’esposto alla procura di Modena che ha costato il trasferimento punitivo di 5 di essi, queste dichiarazioni suonano come una minaccia/promessa di rappresaglia e non possiamo far calare su queste denunce il silenzio. L”inchiesta su Repubblica e quella di Report hanno mostrato e disvelato  quello che è avvenuto nelle carceri in occasione della rivolta generale della primavera scorsa , che è quello che avviene spesso e volentieri anche in questo autunno inverno, come diversi blog e organi di stampa denunciano. Quindi non possiamo chiudere gli occhi su questo.

  • Da gonews.it di oggi sulle torture al carcere di Sollicciano: Pestaggi in carcere, revocati gli arresti domiciliari: tornano liberi ispettrice e agenti. Sono stati revocati gli arresti domiciliari per i due agenti della polizia penitenziaria del carcere fiorentino di Sollicciano arrestati l’8 gennaio scorso e accusati di tortura verso alcuni detenuti e falso ideologico in atto pubblico. I giudici del riesame hanno accolto le richieste del difensore. È stata quindi disposta per i tre la misura dell’interdizione dall’incarico per 12 mesi. Nell’inchiesta sono indagati altri sei agenti della penitenziaria, nei confronti dei quali il riesame ha revocato la misura dell’obbligo di dimora e ridotto quella dell’interdizione dall’incarico da 12 a 6 mesi. Tra gli arrestati c’e anche un 55enne residente a San Miniato, mentre tra gli indagati figurano anche tre persone residenti nell’Empolese Valdelsa.

Noi vogliamo che i responsabili delle torture e dei pestaggi vengano perseguiti fino in fondo e che i proletari prigionieri escano tutti dal carcere come salvaguardia della loro salute. Per questo dobbiamo impegnarci il più possibile a sostenere i detenuti e i loro familiari nelle denunce. Ed è importante che questa battaglia esca dai confini dell’area anticarceraria, che nei presidi e nelle manifestazioni sotto le carceri e il ministero ci vengano tutti/e: dai familiari dei carcerati a quelli delle vittime delle altre stragi di stato, a quelli delle vittime sul lavoro, ai lavoratori e lavoratrici ai disoccupati, con la consapevolezza che “nessuno può salvarsi da sé”.

Ma per far questo è fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica e in particolare quella di classe: è giusto che chi ruba miliardi, chi uccide ogni giorno i lavoratori per il profitto, chi massacra i proletari nelle carceri non paghi e i proletari pagano con la vita, in carcere e fuori, questa ingiustizia di classe?

30 gennaio: “Presidio di solidarietà allə carceratə”

Da notav.info.

Ci arriva notizia che sono molte le iniziative in tutto il territorio nazionale di sostegno alla protesta di Dana, Fabiola e le altre detenute che hanno intrapreso uno sciopero della fame per i diritti fondamentali in carcere. Di seguito alleghiamo via via gli eventi delle varie iniziative:

ROMA – Sabato 30 – ore 11

Sei giorni fa Dana, Fabiola, Stefania ed Emanuela hanno iniziato lo sciopero della fame nel carcere delle vallette di Torino per richiedere il rispetto dei diritti di affettività e salute sospesi dalla direzione della casa circondariale. Con lo scoppio della pandemia le condizioni delle carceri, già pessime, non hanno fatto che peggiorare ed è per questo che le detenute hanno richiesto il ripristino delle video chiamate, la possibilità di integrare le 6 ore di colloquio in presenza, con le video chiamate, visto che queste ultime non vengono assicurate, come da legge costituzionale, uno screening accurato di tutta la popolazione detenuta, così da verificare il reale stato dei contagi e la somministrazione dei vaccini a tutti i detenuti che lo vorranno.
Ieri “a seguito dell’impegno dell’amministrazione carceraria di Torino di garantire, ad effetto immediato, la possibilità di usufruire delle 6 ore ministeriali previste per i contatti con i propri familiari e a seguito delle notizie pubbliche rispetto al piano prevenzione Covid che da marzo riguarderà tutta la popolazione detenuta”, Fabiola, Dana, Stefania ed Emanuela hanno sospeso lo sciopero.
In solidarietà con tutte le detenute e tutti i detenuti in lotta in questi mesi per la sopravvivenza e il miglioramento delle loro condizioni abbiamo deciso di chiamare un presidio al carcere di Regina Coeli di Roma perché possano essere intraprese misure adeguate al rispetto della salute e della dignità in tutte le carceri d’Italia.
Vi aspettiamo a Regina Coeli* sabato 30 gennaio alle ore 11
Verso il 22 Febbraio
Con Valerio nel ❤️ Cuore
Tutti/e liberi/e
Avanti No Tav
*a breve maggiori informazioni sul luogo preciso del presidio

MILANO – Sabato 30 – ore 14

PADOVA – Sabato 30 – ore 10:30

Invitiamo tuttə a partecipare al presidio di solidarietà organizzato per Sabato 30 gennaio sotto la Casa Circondariale di Padova alle ore 10.30

Un appello dei centri sociali del nord-est per costruire sabato 30 gennaio iniziative di solidarietà a Dana e a chiunque sia recluso nelle carceri italiane. La popolazione carceraria sta pagando il prezzo più alto della restrizione di diritti e tutele legata alla gestione della crisi pandemica.
È passata quasi una settimana dall’inizio dello sciopero della fame da parte di Dana, storica portavoce del movimento No Tav, che chiede, insieme ad altre detenutǝ che stanno scioperando con lei, di ripristinare le ore di colloquio con i famigliari e degli interventi immediati vista la grave situazione che si sta vivendo a causa del covid-19 all’interno delle carceri.
Ci stringiamo a Dana e le esprimiamo tutta la nostra solidarietà e vicinanza sperando di poterla riabbracciare presto.
Non possiamo non pensare a tuttǝ lǝ detenutǝ che in questi mesi di pandemia si sono vistǝ privare ulteriormente dei pochi diritti che ancora sono garantiti.
Nel weekend immediatamente successivo al primo lockdown in molte carceri italiane sono scoppiate proteste che chiedevano interventi concreti per garantire la sicurezza sanitaria, già messa a dura prova dalla situazione di sovraffollamento che vede la presenza di più di sessantamila detenutǝ in tutta Italia a fronte di meno di cinquantamila posti letto effettivi.
Da un giorno all’altro il lockdown ha portato alla sospensione di tutte le visite, comprese quelle di insegnanti, volontariǝ e responsabili delle attività lavorative che garantiscono la possibilità ai detenutǝ di poter aspirare a un reinserimento nella società, quello per cui in teoria le carceri dovrebbero servire in un paese che sarebbe garantista. Sono morti 13 detenuti solo nei giorni delle rivolte (ben 9 sono morti nel carcere di Modena!) e in quelli immediatamente successivi: morti imputate ad overdose e sulle quali non è mai stata aperta un’inchiesta e si è fatto finta di non vedere le responsabilità delle forze dell’ordine.
È di poco più di una settimana fa la notizia della condanna, a carico di un agente della polizia penitenziaria, per il reato di tortura, contestato per la prima volta ad un membro delle forze dell’ordine. Come è possibile che in questo panorama non ci siano responsabili per le decine di morti nelle carceri da inizio pandemia? Fino ad oggi si sono verificati migliaia di contagi e un numero non precisato di morti a causa del Covid-19, decine di persone sono morte senza garanzie, diritti e nell’impunità totale dei responsabili.
Dopo quasi un anno di pandemia ancora non ci sono stati interventi, come invece accaduto altri Paesi: amnistie, indulti e sconti di pena per ridurre l’affollamento, se non in una misura insignificante.
Ancora non ci si è posti di mettere in atto un piano di vaccinazione per detenutǝ e reclusǝ per garantire la loro sicurezza, visto che sono sotto la responsabilità dello stato, come molte associazioni stanno chiedendo nel nostro paese e non solo.
«Il grado di civiltà di un paese si vede dalle sue carceri» diceva Voltaire; in quelle italiane in questo momento è come se vigesse la pena di morte senza processo.
Se nel caso delle carceri almeno c’è stata, grazie alle rivolte dei detenutǝ e alle iniziative di famigliari e solidali, la possibilità di avere informazioni, per quanto marginali su quello che sta accadendo, non è così per gli otto Cpr italiani in cui sono detenute, in situazioni disumane e illegali, centinaia di persone a cui non sono garantiti i più elementari diritti.
Per questo facciamo appello a tutta la cittadinanza per costruire, sabato 30 gennaio 2021, dei presidi fuori dalle carceri per far sentire la nostra solidarietà a chi è recluso e per chiedere:
– indulto subito per tuttǝ
– istituzione del garante dei diritti dellǝ detenutǝ in tutte le città
– misure preventive non carcerarie per i reati minori
– priorità all’accesso ai vaccini a tutta la popolazione carceraria.
post — 28 Gennaio 2021 at 11:51

DAI NOTAV AI NODAL MOLIN un filo rosso ci unisce: contro soprusi ed ingiustizie oltre il COVID, oltre le SBARRE.

Sabato 30 gennaio, h. 11.30, abbiamo organizzato un presidio di solidarietà con Dana e le altre detenute in lotta al carcere delle Vallette.
In fondo all’appello trovate anche il link per firmarlo.

Le lotte contro le grandi opere segnano, in Italia, una nuova stagione di consapevolezza diffusa: la terra non è e non deve essere merce di scambio nelle mani di chi ha soldi e potere.
Per noi NOdalMolin i NOTAV sono stati, per noi, fonte di ispirazione e coraggio. Dana l’abbiamo conosciuta al Presidio. Non ricordiamo più quale, se quello di Venaus, o di Caldogno, o in una delle migliaia di manifestazioni che abbiamo condiviso. Abbiamo portato avanti un orizzonte di senso, un’utopia: difendere i beni comuni. Oggi, alla luce del COVID, sappiamo che la strada tracciata è stata quella giusta. Ne usciremo solo se continueremo a difendere i nostri territori. Dallo smantellamento della sanità pubblica, dallo scaffale polveroso in cui sembra sia stato archivjato il diritto all’istruzione, dai disastri ambientali, dai cambiamenti climatici.
Dana da alcuni mesi è in carcere. Subisce la stessa sorte di altre e altri che hanno osato mettere in discussione sfruttamento e malaffare. A livello repressivo la procura di Torino non è seconda a nessuno e il movimento NOTAV è stato fortemente criminalizzato. Così come altri compagni e compagne prima di lei, che hanno subito detenzioni ingiuste, dure, spropositate ai fatti imputati, Dana deve scontare due anni, per aver bloccato un casello autostradale e usato un megafono, durante una protesta NOTAV.
Il carcere è il peggio che ci si possa augurare. Lo è in condizioni normali. In periodo COVID non è nemmeno lontanamente tollerabile. Già dal primo lockdown detenuti e detenute, in tutta Italia, si sono visti togliere i pochi diritti concessi, con la scusa della pandemia, mentre il problema del sovraffollamento non è stato neanche lontanamente preso in considerazione. Stiamo parlando di annullamento delle visite, delle attività ricreative, educative e lavorative. Stiamo parlando di igiene, di contatti sociali tra detenuti, di un piano di vaccinazione per garantire sicurezza a chi è dietro le sbarre, visto che vive sotto la responsabilità dello Stato. Dopo quasi un anno di pandemia ancora non si è intervenuti come hanno fatto altri paesi: amnistie, indulti e sconti di pena per ridurre l’affollamento, se non in una misura insignificante.
Per questo, Dana ed altre detenute hanno messo in piedi uno sciopero della fame che è durato sei giorni ed ha costretto la direzione del carcere Le Vallette di Torino a parlare pubblicamente dei problemi della prigione in Italia.
Abbiamo deciso di unirci al movimento NOTAV nell’appello alla solidarietà oltre le sbarre, nonché alla campagna DANA LIBERA TUTTI, e convocare un presidio al carcere di Vicenza per le 11.30 si sabato 30 gennaio.
A Dana, alle sue compagne, ai NOTAV vogliamo dire: grazie. Ancora una volta ci indicate un percorso. Così come abbiamo fatto per le strade di montagna, per difendere la valle, o attorno al cantiere del DAL Molin per denunciarne la prepotenza invasiva, non possiamo che camminare fianco a fianco.
Ai detenuti e alle detenute di tutte le carceri, in particolare qui a Vicenza, vogliamo dire: non siete soli. Doveva andare tutto bene, dovevamo uscirne migliori. Invece, oggi parlare di diritti dei detenuti equivale ad affrontare un discorso scivoloso e impopolare. Non ci interessa. Grazie alla lotta di queste detenute, all’associazione Antigone, al Movimento NOTAV, oggi chi non ha voce torna ad averla.
Chiediamo che vengano garantiti i diritti ai colloqui e all’affettività di detenuti e detenute.
Chiediamo indulto subito.
Chiediamo un piano di vaccinazioni prioritario per chi è detenuto, l’ istituzione del garante dei diritti dei detenuti in tutte le città, misure preventive non carcerarie per i reati minori.
Chiediamo a chi legge, a chi ha lottato con noi contro le grandi opere, a chi oggi si batte per sanità e scuola gratuite, pubbliche e sicure, di sottoscrivere questo appello e di venire sotto il carcere con noi.
Una parte di noi ha dato vita ad un progetto, il Caracol Olol Jackson, che guarda in questa direzione: ambulatori popolari pubblici e gratuiti, sportello di consulenza sanitaria, caf e sindacato. Alla popolazione carceraria e ai loro familiari vogliamo dire che siamo a disposizione con i servizi che offriamo e che vogliono essere un bene comune. La solidarietà è un’arma e noi vogliamo continuare ad utilizzarla, oltre il covid, oltre le sbarre.
Avanti Dana
Avanti NOTAV
Libertà per tutte e tutti

Per sottoscrivere l’appello: https://forms.gle/oTDJTtafoMRKgQW29

Ma la solidarietà arriva anche dai paesi baschi, con un’azione di solidarietà alla lotta No Tav presso il consolato italiano di Pamplona

Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso e della sua repressione: non lasciamo solo chi lotta per la libertà

Forse ricorderete le rivolte che hanno attraversato un centro d’accoglienza a Treviso tra giugno ed agosto e i 4 arresti che ne sono seguiti. Ad oggi uno di loro non c’è più , Chaka, due sono ancora in carcere (a Treviso e Vicenza) e per un’altra persona è stata trovata un’abitazione a Treviso per i domiciliari. Il primo aprile comincia il processo.
Come Campagne in lotta siamo sempre in contatto con tutti e tre e da qualche giorno, anche in seguito al confronto con loro, abbiamo fatto partire una campagna di solidarietà, che vi incollo qui.

Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso e della sua repressione: non lasciamo solo chi lotta per la libertà

Il 19 agosto Mohammed, Amadou, Abdourahmane e Chaka vengono arrestati per devastazione, saccheggio e sequestro di persona e portati nel carcere di Treviso. Il 7 novembre Chaka, 23 anni, viene trovato morto nel carcere di Verona.
Secondo le accuse, sono colpevoli di aver “capeggiato” le proteste che tra giugno e luglio hanno travolto il Cas ex caserma Serena di Treviso.
In un periodo in cui per molti il lockdown sembrava finito, le persone costrette a vivere dentro i luoghi di reclusione continuavano a restare ammassate, senza che venisse presa nessuna misura di tutela della loro salute.
Questo è il caso dell’ex caserma Serena di Treviso, adibita a Cas e gestita dalla cooperativa Nova Facility, dove ancora a giugno, più di 300 persone continuavano a vivere in spazi sovraffollati, senza che venisse loro fornita alcuna informazione sui contagi né alcuna protezione come mascherina e disinfettante. Molti di loro lavorano sfruttati in diversi settori della zona, dalla logistica all’agricoltura. Già da ben prima dell’emergenza Covid chi era costretto a vivere in quel luogo aveva denunciato le terribili condizioni di vita all’interno della struttura: le condizioni igieniche degradanti, le cure mediche assenti, le camere-dormitorio, la rigidissima disciplina con cui sono applicate le regole dell’accoglienza, la collaborazione tra operatori e polizia, il lavoro volontario all’interno del centro. Un luogo perfetto per la diffusione del Covid.
L’ex caserma Serena, infatti, nel giro di 2 mesi diventa un focolaio,e i contagiati passano da 1 a 244. E’ proprio per questo che prima a giugno, poi a fine luglio e infine ad agosto si susseguono proteste da parte degli ospiti della struttura. Le ragioni sono molto chiare, nonostante le notizie sui giornali e le inchieste giudiziarie vogliano storpiarle in tutti i modi possibili: si protesta perché non viene fornita nessuna informazione sugli aspetti sanitari, né alcuna misura di tutela della salute, perché da un giorno all’altro viene comunicato a tutti l’isolamento, ma senza che venga data alcuna spiegazione. Solo dopo due giorni di vero e proprio sequestro degli ospiti si scopre che la ragione è il contagio di un operatore. Si protesta perché molti perdono il lavoro senza poter nemmeno comunicare coi propri padroni; perché vengono fatti a tutti i tamponi, ma poi positivi e negativi vengono rinchiusi insieme e quindi l’isolamento si rinnova continuamente. Si protesta perché chi lavora lì continua ad entrare e uscire, mentre i contagiati all’interno aumentano di giorno in giorno, ad alcuni vengono fatti anche 4 o 5 tamponi ma nessuno, tra operatori, personale sanitario e polizia, si interessa di fornire informazioni a chi dentro la caserma ci vive e di virus si sta ammalando. Ad alcuni è anche impedito di vedere l’esito del proprio tampone. Si protesta anche perché gli ospiti chiedono di parlare coi giornalisti per raccontare le loro condizioni, e polizia e operatori glielo impediscono.
Nel frattempo, già dopo le prime manifestazioni di giugno, la prefettura preannuncia 3 espulsioni e almeno una ventina di denunce pronte per quando finirà l’isolamento. L’annunciata repressione si avvera il 19 agosto, quando quattro persone che vivono dentro l’ex caserma vengono arrestate. Altre 8 risultano indagate. Le accuse sono pesanti, ed è molto chiaro che l’intento è punire Abdourahmane, Mohammed, Amadou e Chaka in modo esemplare, per dare un segnale a tutti gli altri. Per trovare dei colpevoli, dei capi, degli untori, per spostare la responsabilità dal Ministero dell’Interno, dalla Prefettura, dalla cooperativa e dal comune agli immigrati. Tutti e 4 vengono portati nel carcere di Treviso. Mohammed viene ricoverato in urgenza allo stomaco proprio per l’assenza di cure, Amadou si ammala di Covid in carcere.
Dopo un mese circa – per ordine del Ministero dell’Interno- vengono trasferiti in 4 carceri diverse e messi in regime di 14bis (sorveglianza particolare). Il 7 novembre il più giovane di loro, Chaka, viene trovato morto nel carcere di Verona. Su di lui viene spesa qualche parola in qualche articolo di giornale, si parla di suicidio e poi, come per tantissime altre morti, cala il silenzio.

Le ragioni di questa protesta, la repressione che ne è seguita e la morte di Chaka sono un’espressione molto chiara di quanto è accaduto nell’ultimo anno e dell’ordine assassino a cui vogliono sottoporci. Se abbiamo conoscenza di questa storia è soltanto grazie al fatto che delle persone continuano a lottare. E per questo ora stanno pagando, rischiando di rimanere isolate e sole.
Dall’inizio della pandemia nei centri di accoglienza di tutta Italia si sono susseguite proteste scatenate da ragioni del tutto simili a quelle di Treviso: la mancanza di informazioni chiare, l’ammassare positivi e negativi insieme in una tendopoli, in un centro o su una nave, le quarantene continuamente rinnovate, la mancata tutela della salute. Le proteste, le fughe, gli scioperi della fame non si sono mai interrotti, contro uno Stato che nei mesi ha noleggiato 5 navi-prigione, ha inviato militari a presidiare i centri di accoglienza, ha stretto accordi di rimpatrio con la Tunisia, ha denunciato ed espulso centinaia di persone, avallato da fascisti e rappresentanti locali che gridavano all’untore, all’espulsione, agli sgomberi.
A marzo, in seguito alle lotte per i documenti che le persone immigrate soprattutto nelle campagne portano avanti con coraggio, lo stesso governo ha varato una sanatoria che ha coinvolto solo poche persone, lasciandone tantissime altre in condizione di irregolarità o semi-irregolarità. Eppure di questa sanatoria le istituzioni si sono fatte vanto, così come della modifica dei decreti sicurezza di Salvini (in realtà questi prevedono ancora misure per favorire la repressione dei reati commessi dentro i cpr, mentre è stata lasciata completamente intatta tutta la parte relativa alla criminalizzazione delle lotte in generale).
Così nelle carceri, dove dopo le rivolte di marzo e le morti, si è cercato di imporre in tutti i modi un muro di silenzio. Mentre le prigioni continuano ad essere focolai, i contagiati raddoppiano (come ad esempio il carcere di Vicenza dove tuttora è rinchiuso Amadou), e aumentano i morti di Covid tra i detenuti, sulle rivolte di marzo e sui 14 detenuti morti nelle galere di Modena, Bologna e Rieti si cerca in tutti i modi di far calare il silenzio; levando di torno le persone e mettendo a tacere in qualsiasi modo la voce dei detenuti e dei testimoni delle violenze e torture che si sono consumate in questi mesi nelle galere. Non a caso proprio le persone straniere che hanno partecipato alle rivolte di Modena sono state espulse.
Ma per quanto si voglia liquidare tutte queste morti, da quella di Salvatore Piscitelli a quella di Chaka Outtara, come dovute a overdose o suicidi, sono proprio le denunce, i racconti e le lotte di questi mesi ad aver permesso di non farne dei casi singoli. Per quanto si voglia dividere e isolare chi ha lottato nei campi, nei centri di accoglienza, nei cpr, sulle navi, nelle carceri con enorme coraggio in tutti questi mesi, i legami di solidarietà e di lotta non smettono di intrecciarsi.
La morte di Chaka, come quella di tanti altri, non deve essere dimenticata, perché quello di Chaka è un omicidio e gli assassini sono l’accoglienza, le leggi razziste che governano la vita delle persone immigrate, lo sfruttamento, il carcere.

Attualmente Mohammed e Amadou sono nelle carceri di Treviso e Vicenza, mentre Abdourahmane è agli arresti domiciliari. Invitiamo a scrivere loro e a far sentire la nostra vicinanza in tutti i modi possibili, perché continuare a lottare significa anche non lasciare solo nessun davanti alla repressione, e non lasciare che la morte di Chaka si aggiunga solo ad una lista ormai troppo lunga.

Per Chaka
Mohammed, Amadou e Abdou liberi! Tutti e tutte libere!

Sanatoria per tutti, repressione per nessuno!

Per scrivere loro:
Mohammed Traore
Via S. Bona Nuova 5/b
31100 Treviso (TV)

Amadou Toure
Via B. Dalla Scola 150
36100 Vicenza (VI)

Torture nel carcere di San Gimignano, il video agli atti del processo

In aula il 27 gennaio viene mostrato un video che ritrae solo in parte il pestaggio brutale ad opera di numerosi agenti su una persona di origine tunisina di 30 anni, seminuda e trascinata di peso. Le immagini del video risalgono all’11 ottobre 2018, ma sono state rese pubbliche solo 2 giorni fa.

Sono cinque gli agenti a processo in uno dei primi casi giudiziari in cui pubblici ufficiali vengono accusati di tortura, lesioni aggravate, falsi ideologici, minacce aggravate e abuso di potere. A processo, la cui prima udienza è fissata per il maggio di quest’anno, ci sono un ispettore superiore, due ispettori capo, due assistenti capo coordinatori. Altri 10 agenti hanno chiesto il rito abbreviato, così come il Il medico del carcere, che è stato condannato a 4 mesi di reclusione con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio, per non aver visitato il ragazzo vittima del pestaggio.