Gli interventi all’Assemblea proletaria anticapitalista del 17/9 – Soccorso rosso internazionale e Avv. Gianluca Vitale Torino

INTERVENTO DI SOCCORSO ROSSO INTERNAZIONALE 

Soccorso rosso internazionale che al di là del titolo è una realtà ben modesta, però da molti anni noi ci siamo aggregati alla fine degli anni ‘90 su un punto importante alla fine degli anni 90 proprio all’apice della deriva di resa che c’era nel movimento rivoluzionario italiano – parlo delle organizzazioni armate fra gli anni 70 e gli anni 80 che hanno lasciato purtroppo uno strascico anche negativo. Una parte di compagni che abbiamo rifiutato quella deriva e con altri in Europa sugli stessi presupposti abbiamo formato questa realtà che poi si è messa anche in relazione organica con Turchia e Kurdistan, con un confronto con rivoluzionari molto vivi.

La repressione sappiamo che dilaga, anzi ultimamente abbiamo assistito a delle condanne pazzesche sia ad alcuni anarchici che verso alcune lotte di massa. E la tendenza in tutti i paesi è di aumento della

repressione. Di fronte a questo spesso l’atteggiamento dei movimenti e soprattutto dei gruppi politici non solo di difensivo ma è di arretramento. Ma si deve porre la questione della repressione in un aspetto di scontro, che deve comunque crescere, se noi ne siamo capaci, è trasformarlo via via in guerra di classe. Noi abbiamo visto in Italia in altre realtà che la lotta di classe può trasformarsi in guerra di classe. Nonostante le condizioni oggi sono difficili, c’è disgregazione, ma io credo che il proletariato e le forze progressiste della società hanno solo quello sbocco lì, non è che ce ne sono tanti. C’è la via istituzionale parlamentare elettorale su cui vediamo quante delle frazioni di classe purtroppo seguono, e c’è invece la via della rottura netta chiara, in cui le nostre parole di condanna totale del capitalismo e l’imperialismo devono portare a schierarsi su quel campo che comincia a costruire i termini della guerra di classe, che comincia innanzitutto a trasformare ogni lotta anche minima in elementi di autonomia di classe, quindi quantomeno sganciarsi da tutto il controllo politico sindacale; dall’altro via via sviluppare il dibattito e la crescita organizzativa. Più cresce la nostra rabbia, la nostra disponibilità nella lotta, più bisogna trasformarla in elementi reali concreti che vanno verso quell’orizzonte, se no non andiamo da nessuna parte soprattutto su questo aspetto. In questi anni è stato difficile, ci siamo agganciati idealmente e anche in parte organizzativamente alla realtà del cosiddetto “tri continente”, a partire dalla Turchia/Kurdistan in particolare e non solo, perché lì la corrispondenza fra dire e fare c’è, si vede, si sente. E questo è fondamentale.

Su come si affronta la repressione si possono far crescere dei livelli di coscienza. Noi abbiamo tutta un’esperienza dei carcerati, di quelli che hanno fatto o che ancora adesso fanno parte delle Brigate Rosse che stanno in carcere da quarant’anni – ora sono una ventina; questi compagni sono stati quasi tutti arrestati dall’82,  tra l’altro a cavallo di operazioni come quella del sequestro del generale Dozier a capo della NATO al massimo livello – quella vicenda richiama che cos’è la NATO cioè un’organizzazione terroristica e guerrafondaia che oggi la vediamo all’opera dall’Ucraina al Medio Oriente, ecc. e all’epoca fu affrontata con quella capacità del movimento di classe a un altissimo livello. Lo Stato anche rispose con un altissimo livello di repressione, con la tortura scientifica, all’argentina, alla statunitense. Alcuni compagni resistettero e ci onoriamo di avere un compagno come Cesare di Lenardo che fu esemplare in questa resistenza con tre giorni di tortura e che ancora oggi in carcere difende la linea. Noi dobbiamo apprezzare e valutare quello che il movimento di classe ha prodotto di più maturo e rispetto a questo anche imparare.

Penso alla gente del Notav, dei facchini, di altri movimenti, degli studenti, a cui bisogna trasmettere il fatto che la repressione è inevitabile non è un fatalismo, anzi cresce, e ci sono due modi di affrontarla, o arretrare implorando amnistie determinate riforme legislative, cioè affidandosi allo Stato, ai partiti dominanti. Tutto questo significa prima di tutto arrendersi perché lo Stato semmai ci sarà una briciola ce la da quando ci si inginocchia e si cedono le armi in alcuni casi, oppure anche solo le armi ideologiche.

Quindi sulla repressione si gioca una partita importante e noi in Italia abbiamo una cosa che ha un valore enorme che sono sempre questi compagni e le compagne che sono al 41bis, resistono da 17 anni. Il 41bis è una cosa tremenda, è una tortura pura, ma loro resistono.

Non si può fare i descrittivi, i lamentosi. Noi dobbiamo imparare a resistere, ad avanzare nella difficoltà delle lotte. E’ quello che ci insegnano i movimenti in Turchia, nel mondo arabo, in America Latina dove subiscono delle pressioni tremende ma sono capaci di resistere, subiscono delle sconfitte ma si riprendono e vanno avanti.

Come soccorso rosso internazionale è questo quindi il nostro modestamente apporto che cerchiamo di dare; cioè mettere questo elemento di forza in prospettiva

Anche stamattina siamo andati in piazza con i compagni e le compagne per l’India e lì il taglio era giusto, anche se si eccedeva secondo me nella descrizione delle torture e stupri ai prigionieri politici, ma soprattutto si è detto che lì c’è una guerra rivoluzionaria in atto. Noi difendiamo questo. Purtroppo ha prevalso soprattutto in Italia l’aspetto di denuncia di tutte le le malefatte dello Stato e però c’è l’ha resa per lottare per un cambiamento, E lì bisogna scegliere, bisogna fare la scelta di vita da che parte si sta e che cosa si vuole. Se noi vogliamo davvero la rivoluzione giustamente difendiamo i prigionieri ma difendiamo i prigionieri per difendere il valore delle lotte, difendiamo la rivoluzione.

INTERVENTO DELL’AVV. GIANLUCA VITALE – TORINO

L’assemblea del 17 settembre guarda al cuore di quello che potrebbe essere un nuovo autunno caldo. I temi sono tanti, tanti i motivi per scendere in piazza e lottare, per agire il conflitto sociale: dalla crisi (anche, ma assolutamente non solo e neppure prevalentemente, post pandemia) alle delocalizzazioni, dall’attacco ai diritti dei lavoratori e alle loro tutele al sacco privato alla sanità,  dalla partecipazione di fatto alla guerra in Ucraina alle criminali politiche di chiusura dell’Unione Europea e agli accordi anti-migranti con stati dittatoriali e/o autoritari ed antidemocratici, dall’abbandono della scuola pubblica alla creazione sempre più di un sistema di trasporti che privilegia le lunghe tratte costose e impattanti sull’ambiente, abbandonando al degrado le linee pendolari, dalle devastazioni ambientali e dagli attentati alla salute dei cittadini alle condizioni nelle carceri e nei luoghi di detenzione come i CPR, a tanti e tanti altri.

Occorre, però, essere onesti: non si è da anni palesato un grande movimento di massa che sappia cogliere ed unire queste lotte; lotte che in alcuni casi hanno dimostrato una estrema forza e capacità di tenuta, che sono state da esempio per tutte e tutti (da “torinese” non posso non richiamare come esempio la lotta del popolo No Tav; ma tanti sono gli esempi positivi), ma che non sono riuscite a raggiungere quelle dimensioni e trasversalità che qualche decennio fa sembravano acquisite.

A fronte di ciò, o forse anche in ragione di questo momento di parziale debolezza del movimento popolare, ciò che stupisce (ma non troppo) è la risposta che viene data al disagio e al conflitto. Conflitto, è bene precisare e ricordare, che è contrapposizione tra opinioni diverse, non necessariamente e solo violenza; il conflitto, che è dialettica anche dura, è un connotato che identifica una società democratica, e negargli cittadinanza significa negare l’essenza stessa della democrazia, ridurla a mera democrazia elettorale o meglio plebiscitaria, nella quale solo l’urna è legittimata a regolare la vita democratica; elezioni, peraltro, governate da meccanismi e regole che ormai ne hanno snaturato anche questa funzione pseudo democratica, riducendo anch’esse ad un vuoto simulacro. Negare il conflitto significa, allora che il cittadino può e deve limitarsi ad applaudire, non essendogli neppure consentito di protestare o contestare l’oratore di turno.

La risposta al conflitto, allora, è a vari livelli (come tenterò di argomentare) di tipo prettamente repressivo; a fronte di movimenti di lotta che propongono alternative realmente radicali (ma anche a fronte di “vite”, e/o di scelte di vita, ritenute inadeguate) il ”sistema” non sa far altro che agire la repressione, utilizzando come risposta principale il manganello e il carcere.

Come dicevo, questa modalità di rispondere (che è in fondo “a-politica”, perchè rifiuta ogni possibile confronto con l’”avversario”, ma si limita ad imporre la propria visione con la forza; non accetta il confronto politico e non riconosce dignità politica a chi lo contesta o si pone al di fuori delle regole, ma si limita a combatterlo “militarmente” e giudizialmente) si attua a vari livelli, che di fatto corrispondono ai tre poteri “classici” dello stato liberale.

Il primo è proprio il livello normativo: il Parlamento è sempre meno uno specchio della composizione politica e sociale (e sempre più rappresentazione unicamente delle maggioranze dei votanti, con lo svilimento o meglio l’annullamento della rappresentanza non solo delle minoranze ma anche delle classi subalterne economicamente) ed è comunque esautorato anche dalle sue funzioni (chiamato com’è, ormai, a svolgere di fatto la mera funzione di organo di ratifica delle scelte dell’esecutivo); le decisioni vengono prese dall’esecutivo, dal Governo, con lo strumento della decretazione d’urgenza; con il richiamo ad artificiose situazioni di urgenza ed eccezionalità si legittimano i sempre più frequenti decreti sicurezza e le norme che altro non fanno che inasprire la repressione in particolare delle lotte popolari (aumento di pene per determinati reati, introduzione di ostatività ai benefici penitenziari, carcere duro, reintroduzione di reati tipicamente destinati a reprimere il conflitto, come il blocco stradale). Questi strumenti normativi, inoltre, rispondono alle situazioni di marginalità determinate dal liberalismo con una ulteriore marginalizzazione (si pensi alle misure a tutela del decoro del decreto Minniti, o alle misure criminali e criminogene contro i migranti). Così il sistema liberale prima determina le condizioni perchè si sviluppi il conflitto (impoverendo il proletariato, emarginando ampie fette della popolazione, riducendo le tutele del lavoro, tentando di costruire muri armati contro i movimenti delle persone migranti, devastando l’ambiente ed attentando alla sopravvivenza della stessa specie umana), e poi non ha altro modo per rispondere a quel conflitto che con la costruzione di meccanismi di repressione.

Il secondo livello è quello esecutivo: livello che nella sua estrinsecazione di vertice aspira ad assorbire di fatto il primo (esecutivo/governo bulimico che si sostituisce voracemente e di fatto esautora delle sue funzioni il legislativo/parlamento), e nel suo sviluppo e nei suoi organi periferici (dal Ministero dell’Interno alle Questure), gestisce e mette in pratica i progetti antidemocratici e repressivi. La gestione delle piazze (così come, a ben riflettere, la gestione quotidiana dell’ordine e della sicurezza pubblica) è, dunque, coerente con il progressivo deterioramento ed impoverimento delle garanzie dei lavoratori e con il continuo richiamo ad allarmi sulla sicurezza dei cittadini. E si creano i “nemici pubblici”, con costruzioni  che sono da un lato figlie degli allarmi mediatici artificialmente generati e dall’altro sorelle delle norme emergenziali securitarie (nemici che sono il migrante o lo zingaro, ma anche l’anarchico o l’antagonista o il sindacalista di base).

Ben si spiega, allora, una gestione delle piazze e un approccio al conflitto unicamente in chiave repressiva, in una continua ricorsa alla criminalizzazione e al contrasto manu militari delle manifestazioni di protesta. Sempre di più vittime di ciò sono anche i movimenti sindacali di base, proprio in quanto “pericolosi” per l’ordine costituito perchè indisponibili a meccanismi narcotizzanti di concertazione e portatori di istanze radicali di difesa dei diritti dei lavoratori. Significativo è che a volte manifestazioni, picchetti o occupazioni di lavoratori e sindacati subiscono veri e propri assaltati da parte di squadracce padronali, nel completo disinteresse delle forze di polizia, che così disvelano il reale significato (e le finalità “di classe”) della loro presenza.

Così come vittime di queste repressioni sono i movimenti per la difesa del territorio e dell’ambiente, sia locali (come i NoTav o i NoTap, sempre ammesso che questi movimenti possano definirsi locali, ciò che in realtà non è corretto) sia slegati dalle singole situazioni (si pensi alla parabola di movimenti come Extinction Rebellion, che da movimento quasi “coccolato” dai media come un cucciolo di panda, presentato come un simpatico gruppo di giovani ingenui ed idealisti, ha iniziato a subire la repressione sia con gli interventi in piazza delle forze dell’ordine sia con l’adozione contro i suoi militanti di misure di prevenzione come i fogli di via) o i movimenti studenteschi (il movimento contro l’alternanza scuola-lavoro dello scorso inverno-primavera, nato dopo le tragiche morti di alcuni studenti, è stato brutalmente e immotivatamente represso nelle piazze a colpi di manganello).

Agli strumenti di repressione fisici il livello esecutivo/di polizia aggiunge quelli giuridico-amministrativi, come i fogli di via obbligatori (adottati a centinaia in tutta Italia contro i militanti dei vari movimenti) o le proposte di sorveglianza speciale (misure di prevenzione, tutte, che non necessitano di prove, essendo sufficiente il mero sospetto per giustificare l’adozione della misura).

Ma è il successivo “livello”, la risposta al conflitto da parte della magistratura, a meritare un ulteriore approfondimento: l’autorità afferente al potere esecutivo (le forze dell’ordine o le autorità amministrative quali la prefettura) gestiscono l’ordine pubblico e successivamente conducono (di loro iniziativa) le indagini, ma è poi la magistratura (prima inquirente e poi giudicante) a darvi corso e soluzione giudiziaria.

Cinghia di trasmissione tra la polizia giudiziaria e il processo è la magistratura inquirente, le Procure. Ma le procure, soprattutto quando si trovano a condurre indagini relative al conflitto sociale o a questo o quel movimento o area politica “radicale”, sempre più spesso e sistematicamente si limitano a recepire quanto propostogli dalla polizia giudiziaria (spesso impersonata dai funzionari DIGOS), senza operare uno sforzo teso a comprendere il contesto in cui quella specifica lotta, o quel movimento, o quell’azione, si collocano, e senza verificare la linearità, correttezza, integralità dell’attività di indagine che ha inizialmente condotto l’autorità di polizia. Si giunge così a procedimenti penali in cui è evidente che ad essere entrati nel mirino delle indagini sono solo i “militanti”, scelti accuratamente tra i molti soggetti che hanno tenuto condotte magari analoghe (un recente esempio è il processo per l’occupazione, nel 2015, di una pineta vicino agli scogli a Ventimiglia dove si era installato una sorta di campeggio/comune autogestita di migranti e solidali: ad essere processati, e poi in parte condannati, sono stati unicamente i militanti antirazzisti ritenuti riconducibili ad aree anarchiche o antagoniste, a fronte di centinaia di persone – tra cui anche personaggi della cultura, della politica, dello spettacolo – che avevano dato solidarietà attiva all’occupazione); o, ancora, a investigazioni che mostrano assoluta miopia nei confronti delle condotte criminose eventualmente tenute dalle forze dell’ordine o dalle già citate squadracce padronali (questo è ciò che – sistematicamente? – accade nei processi per scontri di piazza, nei quali la polizia giudiziaria ma anche i pubblici ministeri non vedono pestaggi, cariche ingiustificate, lanci di lacrimogeni ad altezza d’uomo, e altre condotte che meriterebbero queste sì di essere portate a processo).

Primo sbocco di queste indagini è, spesso, l’adozione di misure cautelari, sovente la custodia in carcere: uno strumento che dovrebbe essere utilizzato come estrema ratio (il carcere prima del processo) e che, invece, sembra quasi essere un corollario necessario di molti di questi procedimenti. Misure consentite proprio da quella continua opera di inasprimento delle pene per i reati legati al conflitto sociale cui abbiamo da anni assistito ed assistiamo.

A questa opera di investigazione selettiva, poi, si accompagna talvolta (e di recente ne abbiamo avuto clamorosi esempi, anche nella repressione dei movimenti sindacali) l’opera che definirei teoretica: la costruzione di teoremi, la contestazioni del reato di associazione (da quella semplice, a delinquere, a quella eversiva o terroristica), che consente di colpire anche coloro ai quali non si sia riuscito ad attribuire un reato particolare, di utilizzare massicciamente le intercettazioni, di chiedere misure cautelari molto rigide e pene esorbitanti, e di “costruire” pubblicamente dei “nemici”. Questi procedimenti fondati su teoremi si basano, molto spesso sulla visione di ogni attività dei soggetti indagati sotto la luce deformante del pregiudizio su cui si fonda il teorema; così ogni incontro, ogni frase detta (e intercettata), ogni viaggio, deve necessariamente diventare un incontro, una frase, un viaggio fatti nell’ambito del progetto delinquenziale o terroristico dell’associazione (una passeggiata in città non può che essere un sopralluogo o una ricerca di obiettivi da colpire; un viaggio non può che essere finalizzato a una riunione dell’associazione; la più banale delle frasi diventa un messaggio in codice;…).

A volte la magistratura requirente ha smentito queste accuse e questi teoremi (molte sono ad esempio state le assoluzioni per i lavoratori accusati di vari reati – dalla violenza privata alla resistenza – durante manifestazioni  sindacali, o le assoluzioni relative a processi per occupazione); spesso ha invece accolto le richieste dei pubblici ministeri, comminando pene anche alte.

A ben vedere, dunque, anche il terzo dei poteri dello Stato liberale, quello giudiziario, è in qualche modo diretto dal potere esecutivo, quanto meno nel campo della repressione di cui ci stiamo occupando: le sue richieste prima (da parte delle procure) e le sue decisioni dopo dipendono, infatti, da ciò che l’esecutivo (sotto forma di polizia giudiziaria) ha deciso (che sia quale fatto denunciare e su quale fatto fare una annotazione, che sia chi denunciare e per che reato).

Di fronte a questo strapotere dell’apparato repressivo l’unica possibile risposta viene da un rafforzamento dei movimenti e delle lotte, e non certo dal loro indebolimento: tanto più i movimenti sono deboli tanto più sarà “facile” colpirli anche dal punto di vista giudiziario; tanto più essi saranno forti tanto più difficile sarà colpirli, far passare come normali determinate condanne.

Diversi rapporti di forza, in fondo, possono essere determinanti in ognuno dei “momenti” della repressione che abbiamo visto: di certo sono determinanti al momento della costruzione delle norme, dunque a livello legislativo (come insegnano ad esempio  tutte quelle lotte che hanno in passato consentito di introdurre mitigazioni nel regime penitenziario), ma nel momento giudiziario (il clima, anche quello dentro e fuori le aule di giustizia, non è ininfluente sugli esiti giudiziari) e, ovviamente, quello della gestione delle piazze (luogo principe in cui decisivo è il rapporto di forza).

Anche nel cuore dell’Europa “laica e democratica” la solidarietà internazionalista alla lotta delle donne e del popolo iraniano viene repressa

Anche lunedi 26 settembre, la folla è scesa in piazza nelle principali città dell’Iran, compresa la capitale Teheran, dopo la morte della 22enne Mahsa Amini .

Più di 1.200 manifestanti sono stati arrestati e, secondo la ONG Iran Human Rights, piu di 76 persone hanno perso la vita a causa della dura repressione delle proteste.

Amnesty International ha dichiarato che almeno quattro bambini sono stati uccisi dalle forze di Stato dall’inizio delle proteste.

Anche Gli iraniani che vivono a Istanbul si sono radunati davanti al Consolato iraniano, mentre prende piede l’iniziativa “Be our voice” (Sii la nostra voce) per ampliare le proteste all’estero contro la violenza della polizia e il blocco di internet .

Nel frattempo centinaia di manifestanti si sono scontrati con la polizia antisommossa a Parigi mentre cercavano di marciare verso l’ambasciata iraniana domenica 25 settembre. La polizia ha usato i gas lacrimogeni per respingere i manifestanti, indignati per la morte di Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per non aver rispettato le norme del paese in materia di hijab.

Scene di tensione anche all’esterno dell’ambasciata iraniana a Londra, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia. I manifestanti si sono inizialmente radunati davanti all’ambasciata prima di spostarsi a Marble Arch e al Centro islamico d’Inghilterra. Cinque agenti sono stati feriti e 12 persone sono state arrestate.

Amini, 22 anni, era stata arrestata a Teheran il 13 settembre dopo che la “polizia morale” iraniana l’aveva accusata di non aver rispettato le rigide norme del Paese in materia di hijab, secondo quanto riportato dai media statali. Le circostanze della sua morte, avvenuta il 16 settembre, rimangono un argomento molto controverso. La polizia sostiene che sia morta per un attacco cardiaco dopo essere stata portata in un centro di detenzione a Teheran per essere “rieducata” alla regola dell’hijab. La sua famiglia e testimoni oculari, tuttavia, hanno affermato che è stata picchiata nel furgone della polizia prima di essere portata al centro di detenzione, con segni di tortura e di abuso visibili sul suo corpo.

Per informazione solidale e dibattito pubblichiamo estratti di un comunicato dei compagni iraniani contro il regime islamico e l’imperialismo americano, tratti dal blog proletari comunisti

23 settembre 2022

L’hijab obbligatorio sta bruciando tra le fiamme della rabbia popolare in decine di città e villaggi, aprendo una via al rovesciamento della Repubblica islamica e alla sepoltura dell'”integrazione di religione e stato”. Nel 1979, il decreto obbligatorio sull’hijab di Khomeini fu l’inizio dell’istituzione di un regime fondamentalista islamico onnicomprensivo.  La sepoltura dell’hijab obbligatorio accelera il processo di rovesciamento di questo regime religioso fascista a passi da gigante. L’hijab obbligatorio e la legge della Sharia (l’integrazione di religione e governo) hanno spianato la strada alla Repubblica islamica per calpestare i più ampi diritti fondamentali del popolo in tutti gli aspetti della vita: repressione del dissenso; libertà di pensiero, espressione e stampa; libertà di associazione e partigianeria; repressione delle nazionalità oppresse; repressione di lavoratori, studenti e insegnanti, ecc. L’hijab obbligatorio è il collante della Repubblica islamica, come hanno sottolineato i suoi leader, “mantenerlo è ancora più importante dell’antiamericanismo”.

Non va mai dimenticato che il “contributo” degli imperialisti – specialmente degli imperialisti americani – in particolare al consolidamento e alla fortificazione del fondamentalismo islamico in Iran e in tutto il Medio Oriente è stato enorme. Nel 1979, gli Stati Uniti e altre potenze capitaliste imperialiste aprirono all’unanimità la strada ai fondamentalisti islamici per prendere il potere in Iran. A quel tempo, l’imperialismo americano governava la società americana e il mondo nel quadro della sua rivalità antisovietica e delle campagne anticomuniste, che rafforzavano le fondamenta del suo potere all’interno degli Stati Uniti contro gli effetti della rivolta rivoluzionaria degli anni ‘60 e ‘70 e rafforzavano la propria egemonia imperialista in Medio Oriente contro il suo rivale imperialista, l’Unione Sovietica, che indossava ancora la maschera del socialismo. All’interno dell’Iran, l’anticomunismo faceva parte del suo approccio politico contro il vero movimento comunista che stava crescendo in influenza, nonostante la sanguinosa repressione del regime dello Scià.

Sebbene lo stesso governo degli Stati Uniti si basi sulla “separazione tra chiesa e stato”, il governo degli Stati Uniti, sia le fazioni democratiche che repubblicane, ha trasformato questo principio in una questione molto relativa risalente al 1950 quando hanno aggiunto le parole “sotto dio” alla cerimonia di giuramento dei suoi presidenti. Questi cambiamenti politici hanno aumentato l’influenza dei fascisti cristiani fondamentalisti nelle sedi di governo americane, dove si sono ulteriormente trincerati, aprendo la porta al potere durante la presidenza Trump (2016-2020), quando la loro influenza è cresciuta a passi da gigante. Non va mai dimenticato che garantire la posizione della schiavitù delle donne nella famiglia e nella società è uno dei loro principi fondamentali per governare la società americana e il mondo.

Pertanto, qualsiasi illusione di sostegno imperialista americano alle donne iraniane, sia da parte dei democratici che dei repubblicani fascisti, è un grande tradimento di un movimento che ha iniziato a seppellire la misoginia in Iran. Dovremmo imparare dall’amara esperienza dell’Afghanistan che non solo gli Stati Uniti hanno scritto una costituzione per l’Afghanistan basata sull’Islam hanafita, ma ha anche aperto la strada al ritorno dei talebani.

Come abbiamo ripetutamente sottolineato, il fondamentalismo islamico e l’imperialismo sono due sistemi che devono essere rovesciati. Sebbene i fondamentalisti islamici al potere in Iran e altrove in Medio Oriente siano stati in contrasto con l’imperialismo, il loro obiettivo non è mai stato quello di rompere con l’imperialismo e la proprietà privata del capitalismo. Piuttosto, hanno perseguito i loro orizzonti e interessi sociali e politici all’interno di questo sistema capitalista-imperialista.

Le catene della prigionia religiosa devono essere spezzate

Tutte le religioni del mondo, e in particolare le religioni abramitiche (Islam, Cristianesimo ed Ebraismo), sono religioni patriarcali sature delle relazioni sociali di superiorità maschile sulle donne e trattano le donne come esseri meno che umani. Sottolineano apertamente e violentemente la necessità che le donne si sottomettano agli uomini, al dominio del padre e del marito, e di ogni maschio su chiunque del genere femminile nella famiglia, nella tribù e nella società. Legando questi principi arcaici alla macchina capitalista, è stato creato un terrore infinito e unico per le donne in Iran e nel mondo. Tutti i movimenti religiosi fondamentalisti del mondo, compresi quelli islamici, cristiani, ebrei, indù, ecc., hanno una comunanza epistemologica e politica molto importante: sono tutti anti-scienza e vedono la religiosità come un fattore importante per mantenere le società sotto il loro stretto controllo. Questo è vero per i fascisti cristiani in America che sono concentrati nel Partito Repubblicano oggi. L’abolizione del diritto all’aborto in America da parte dei giudici che sostengono questi fascisti ne è la prova.

Oggi, nel quadro del mondo in cui domina il capitalismo, ci saranno senza dubbio interessi di classe e sociali di forze sociali obsolete e reazionarie in ogni area dei rapporti economici, politici e sociali che aderiscono alla religione. Solo una repubblica socialista può garantire la “separazione della religione dallo Stato”. Questa separazione significa rimuovere la religione da tutte le sfere pubbliche della società e del governo; significa che lo Stato deve garantire che la religione sia limitata alla sfera privata dei cittadini, anche adottando una Costituzione e leggi in vari campi che lo impongano, tra cui l’istruzione primaria e superiore, l’assistenza sanitaria, l’economia e la proprietà, e in generale nell’ambito dei poteri e dei doveri dei tre rami esecutivo, legislativo e giudiziario.

Per far avanzare con successo la lotta che è iniziata e per eliminare tutte le forme di oppressione e sfruttamento, la superstizione religiosa in qualsiasi forma deve essere eliminata e le catene ideologiche del pensiero religioso devono essere spezzate e sostituite da una visione del mondo, un metodo e approccio alla realtà, scientifici.

Seppellire l’hijab obbligatorio!

Rovesciare la Repubblica Islamica!

Avanti verso l’istituzione di una nuova Repubblica socialista dell’Iran!

Partito Comunista d’Iran (marxista-leninista-maoista)

23 settembre 2022

Bologna: la questura denuncia chi si oppone all’odio fascista. Solidarietà agli antifascisti denunciati, fronte unito contro la repressione

SIAMO TUTTƏ ANTIFASCISTƏ!

In queste ore, la questura di Bologna sta procedendo con la notifica di alcune denunce contro quel moto di rifiuto dell’odio fascista che qualche mese fa, spontaneamente, aveva visto compatta la zona universitaria.

I fatti in questione (rispetto a cui avevamo già preso parola qui: https://cuabologna.it/2022/05/20/warning-fascist-fake-news/ ) risalgono alle ultime giornate di maggio caratterizzate dal rinnovo degli organi accademici dell’unibo e sfruttate da Azione Univeristaria per gironzolare con fare smargiasso intorno a Piazza Verdi. Durante tali giornate si erano andati a verificare e moltiplicare per tutta via Zamboni episodi di provocazione, molestie, minacce, scritte xenofobe e sessiste, svastiche sui muri e il tutto era culminato il 19/05 con una simpatica irruzione all’interno dell’auletta autogestita del 38 strappando i manifesti trovati al suo interno e pisciando sui muri.

Quella stessa sera, per festeggiare una giornata piena di sane nefandezze, i prodi fascistelli andavano a zonzo innenneggiado alle camice nere e pensando di poter minacciare indisturbatamente chi gli si presentasse davanti, e fu allora che la risposta di studenti e studentesse, precari e precarie della zona uni si dimostrò compatta nel volerli via dalle proprie strade, via dai propri plessi universitari.

È quanto mai ironico come chi di giorno in giorno professa l’odio come propria fede, sia pronto ad andare a piagnucolare nelle comode aule dei tribunali non appena le proprie minacce vengono rimandate al mittente.

In un momento storico in cui tra fame, miseria, guerra e devastazione, le destre cavalcano il malcontento popolare, è bene ricordare ai Meloni, Salvini, e chi altro di turno, che la risposta dal basso sarà sempre un deciso “No”.

In un momento storico in cui l’antifascismo diventa uno slogan vuoto, diventa uno strumento da campagna elettorale, la zona universitaria continua a trasmettere come l’antifascismo vero debba essere pratica concreta e quotidiana, fuori dalle retoriche di partito e dalla stagionalità del voto.

Oggi come ieri, ZONA UNI ZONA ANTIFA!

CUA Bologna

La settimana di azione globale per la liberazione dei prigionieri politici indiani 13/19 settembre in Italia – Report

La settimana di azione globale lanciata dal Comitato internazionale di sostegno alla guerra popolare in India, su indicazione e in stretto legame con il Partito Comunista dell’India (Maoista), è stata in Italia un importante salto di qualità del sostegno proletario antimperialista e internazionalista nel nostro paese.

Tutte le attività sono state concentrate in una forte giornata a Roma.

Al mattino vi è stata la manifestazione all’ambasciata indiana. Lo Stato imperialista italiano e la questura di Roma avevano vietato la manifestazione sotto l’ambasciata e, prendendo a pretesto l’utilizzo delle piazze romane per la campagna elettorale, avevano negato anche le piazze vicine, concedendo solo una piazza abbastanza distante dall’ambasciata.

I rappresentanti  delle strutture operanti del Comitato hanno organizzato comunque l’iniziativa. Prima ci si è concentrati in piazza Della Repubblica e si è cominciata la manifestazione esponendo lo striscione “…” sostenuto dai rappresentanti delle diverse organizzazioni di massa. Intanto nell’aria risuonavano le note di “Bella ciao” di un Bar solidale.

Quindi i compagni senza bandiere e simboli si sono spostati compatti in direzione dell’ambasciata e l’hanno raggiunta contando sull’effetto “sorpresa”. Chiaramente le forze della repressione si aspettavano un blitz e all’apparire della forte delegazione si sono schierati davanti all’ambasciata.

I manifestanti non si sono fermati, hanno innalzato lo striscione davanti all’ingresso dell’ambasciata

La polizia non è intervenuta ma ha pressato perché l’azione avesse fine.

Come da piano, i manifestanti hanno riposto lo striscione e si sono recati alla piazza che era stata concessa e l’hanno occupata nel lato rivolto al passaggio delle persone.

La polizia è nuovamente intervenuta pretendendo che la manifestazione si svolgesse in forme ristrette e meno visibili per le masse. La ferma resistenza delle compagne, che erano comunque la maggioranza dei manifestanti, ha respinto questo tentativo; e una lunga seconda parte della manifestazione ha avuto luogo.

E’ stato fatto un massiccio volantinaggio di massa del comunicato del Comitato di sostegno, dell’appello del Partito Comunista dell’India (Maoista) e sono stati diffuso dossier e materiali del Movimento femminista proletario rivoluzionario sulle prigionieri politiche indiane.

Oltre gli striscioni per i prigionieri politici e contro i droni e i massacri delle popolazioni indiane, è stato posto un grande striscione a sostegno della guerra popolare e riproposta la mostra che sta circolando in tutt’Italia del Movimento femminista proletario rivoluzionario.

Tutti i rappresentanti degli organismi aderenti hanno preso la parola, con interventi forti e contundenti, apprezzati dai manifestanti e dalle masse che passavano, si fermavano, parlavano, chiedevano. Particolarmente ascoltata la voce degli operai dello Slai cobas, delle donne del Mfpr.

Alla manifestazione si è unito il Soccorso rosso internazionale, la principale organizzazione nel nostro paese a difesa dei prigionieri politici in Italia e parte integrante della rete internazionale presente in diversi paesi. Questi compagni avevano portato un grande pannello per i prigionieri politici di Turchia e del nord Kurdistan, e un militante ex prigioniero politico ha preso la parola nella piazza, ed era da tempo che questo non avveniva.

L’altro grosso aspetto di qualità è stata la presenza di sei rappresentanti delle diverse centinaia di operai indiani che lavorano nelle fabbriche e nei posti di lavoro nel nord Italia, che hanno sfidato ricatti e repressione – si tratta di operai che individuati davanti all’ambasciata e in piazza rischiavano licenziamenti ed espulsioni, tenendo conto delle forti pressioni dell’ambasciata indiana, ispirate dal Ministro degli Esteri del regime di Modi, nei confronti dei governi europei, e italiano in particolare, perché venga a cessare la prolungata e incisiva campagna.

Una campagna che ha visto anche in questa giornata la presentazione di un dossier inviato alla stampa nazionale e internazionale sulle condizioni di Saibaba e Varavara Rao e sulla lista dei prigionieri delle diverse associazioni operanti in India, fatta pervenire dai compagni indiani, e dei quali si rivendica la liberazione e la difesa delle condizioni di salute nelle prigioni.

Numerosi sono stati i passanti che si sono fermati nella piazza, tra cui alcuni cittadini di origine indiana e un folto gruppo di ragazze, alcune operanti in associazioni solidali, che si sono interessate alla campagna e hanno stretto legami in particolare con compagne del Mfpr.

Durante la manifestazione sono stati gridati slogan: “Per i prigionieri politici libertà!”, “Viva la guerra popolare!”, “Viva l’internazionalismo proletario!”, “La guerra imperialista si può fermare solo se avanza la guerra popolare!”.

E’ stata la prima e importante manifestazione a Roma, dove il Comitato non era presente e non aveva strutture solidali attive.

Ma la giornata non è finita.

Nel pomeriggio nell’importante struttura di Metropoliz, una fabbrica occupata e trasformata in un imponente Museo culturale e artistico da centinaia di migranti e rom che lo hanno occupato, guidati dal movimento di lotta per la casa – ‘Blocchi metropolitani’ – si è tenuta un’assemblea proletaria anticapitalista, organizzata essenzialmente da proletari comunisti, che ha visto la partecipazione di 70 rappresentanti di organismi sindacali, associazione di lotta, comitati contro la repressione, movimenti di varie città italiane, intellettuali marxisti impegnati nelle principali università italiane, sui temi della lotta alla guerra imperialista e la lotta sociale dei proletari, dei migranti e delle masse popolari.

In questa assemblea la voce di solidarietà ai prigionieri politici indiani, alla guerra popolare è stata presente  Tutti i partecipanti hanno ricevuto il materiale di informazione e denuncia, distribuito durante la giornata e alcuni dei partecipanti alla manifestazione per l’India hanno preso la parola nell’assemblea e in particolare il rappresentante dei lavoratori indiani di Bergamo.

Una giornata infinita, un punto di arrivo dell’azione prolungata del Comitato in Italia ma soprattutto un nuovo punto di partenza per lo sviluppo di un movimento reale di massa per la liberazione dei prigionieri politici e a sostegno della lotta e della guerra popolare delle masse indiane

Italia -ICSPWI

24 settembre 2022

Mobilitazione ieri a sostegno della protesta/sciopero della fame al CPR di Torino – Criminali gli accordi con la Tunisia del governo Draghi/Lamorgese

Da Pressenza

Il carcere Lorusso e Cutugno, in cui le detenute sono in sciopero della fame dal 24 agosto e i detenuti delle sezioni dall’1 all’8 del blocco B sono in “sciopero del carrello”, non è più l’unica struttura detentiva torinese ad avere persone detenute che rifiutano il cibo.

Si tratterebbe di 29 persone di origine tunisina, in età molto giovane, in arrivo da Lampedusa, “smistati” ad Agrigento, che avrebbero fatto richiesta di asilo in Italia. Qualcuno avrebbe significativi problemi di salute.

Questi ragazzi di origine tunisina sono arrivati recentissimamente, alcuni addirittura il 28 agosto, a Lampedusa. Al Cpr di Torino sono stati trasferiti per lo più direttamente dalla Sicilia, c’è qualche persona trasferita dalla provincia di Imperia.

I decreti di respingimento, nel caso di questi ragazzi, sono quindi stati disposti dalla Questura di Agrigento e dalla Questura d’Imperia, che ricordiamo, è quella che ha disposto il respingimento di Moussa Balde, di fatto non respingibile perché guineiano: la Guinea Conakry non accetta persone respinte. Moussa Balde si è tolto la vita proprio nel CPR di Torino il 25 maggio 2021.

La celerità con la quale sono stati disposti i respingimenti, che implicano il rimpatrio forzato e la detenzione nel CPR, è fonte di preoccupazione per l’Autorità di garanzia torinese e non solo. Il Testo Unico sull’Immigrazione (D.L. 286/98 e successive modificazioni) prevede degli strumenti di garanzia, un’eccessiva celerità di procedure può compromettere la corretta valutazione dello stato delle persone e quindi dell’effettiva idoneità ad ottenere la possibilità di vivere in Italia tramite gli strumenti di protezione internazionale previsti.

Si sta tornando quindi ai 2 voli charter settimanali per Tunisi, facilitati dagli accordi di

rimpatrio con la Tunisia. A quelle che vengono definite, con preoccupazione, “porte girevoli”.

 

Da notizie che ci giungono da fonte riservata risulta che queste persone non sono state informate sulla possibilità e modalità di accesso alla domanda di asilo. Garanzia primaria e ineludibile dell’Ordinamento italiano ed europeo, ma queste denunce, che lo Stato di fatto – le denunce non cessano – continua a lasciar cadere inascoltate, arrivano da tempo e da più parti. A tutti gli effetti una lesione dei diritti, oltre che un’inosservanza di leggi e norme da parte dello Stato stesso.

Le richieste di asilo sono state formalizzate a Torino e all’interno del CPR, questo implica che fino ad eventuale pronunciamento della Commissione Territoriale, organo deputato a decidere sull’idoneità della persona ad avere la protezione internazionale, la detenzione verrà prorogata e le persone, nonostante la richiesta di asilo, continueranno ad essere private della libertà personale nella struttura detentiva per stranieri da rimpatriare di Torino.

Cade anche la retorica diffusa da talune veline delle forze dell’ordine, le quali affermano che la maggior parte delle persone detenute nei centri per rimpatri sono persone colpevoli di aver commesso gravi reati sul territorio italiano. E’ di tutta evidenza che la vicenda di questi ragazzi, vicenda di natura tutt’altro che eccezionale, smentisce questa retorica.

Ivrea – “Gli agenti mi picchiavano in infermeria e intanto il medico sorseggiava il suo caffè”

 

Dagli atti dell’indagine sul carcere di Ivrea i primi dettagli sui pestaggi. Avvisi di garanzia a 24 uomini della polizia penitenziaria e un sanitario

Due agenti picchiavano Alì, calci e pugni, e “il medico di turno della casa circondariale, anziché impedire l’evento come sarebbe stato suo obbligo, continuava a sorseggiare il caffè al distributore automatico”. Ivrea, 7 novembre 2015. Questo episodio è il primo di una serie di contestazioni che la procura generale di Torino ha fatto a 25 indagati, 24 agenti di polizia penitenziaria e un medico, coinvolti a vario titolo in pestaggi e punizioni che avvenivano principalmente nell'”acquario”, come era soprannominata l’infermeria che dava sul corridoio.

È arrivata a una svolta l’inchiesta sui pestaggi al carcere di Ivrea, dove i muri dell’infermeria almeno per due anni hanno coperto percosse e umiliazioni compiuti dagli agenti nei confronti di diversi detenuti. Finora erano stati solo loro, con le testimonianze, a far uscire allo scoperto il trattamento che ricevevano, mentre i verbali falsificati provavano a sviare le indagini sostenendo che i detenuti fossero caduti “accidentalmente sul pavimento reso scivoloso dall’acqua degli idranti usati per spegnere i focolai appiccati in sezione”.

Ora la magistratura ha riconosciuto la fondatezza delle accuse individuando i possibili responsabili, che nei giorni scorsi hanno ricevuto l’avviso a comparire per essere interrogati, difesi dagli avvocati Celere Spaziante ed Enrico Calabrese. Alcuni agenti sono ancora in servizio nel carcere eporediese, altri nel frattempo sono stati trasferiti in altri penitenziari.Le carte dell’inchiesta dipingono un quadro inquietante di quello che accadeva dietro le sbarre. Detenuti malmenati anche con manganelli, umiliazioni come quelle di tenere i carcerati nudi, tutto con l’omertà di altri detenuti e di un sistema che fingeva di non vedere.Sono sette anni che si cerca di far luce su quello che accadeva nel carcere di Ivrea. Gli episodi contestati risalgono al 2015 e 2016. Da allora l’inchiesta aperta dalla procura di Ivrea ha subito parecchie traversie, tra richieste di archiviazioni e opposizioni fatte dall’associazione Antigone, fino a quando la procura generale non l’ha avocata.Sono stati i sostituti pg di Torino Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano, partendo dalle denunce, ad allargare le indagini ad altri episodi e a individuare i reati ipotizzati: lesioni e falsi aggravati. “Le contestazioni mosse dalla magistratura a 25 indagati sono la dimostrazione che il sistema giudiziario funziona e che quest’avocazione che aveva fatto tanto rumore è stata la strada giusta per fare giustizia – commenta Antigone – I fatti sono precedenti all’introduzione del reato di tortura, tuttavia dall’inchiesta emerge come quello di Ivrea fosse un carcere punitivo, come ce ne sono in Italia, e lontano dallo scopo rieducativo che gli istituti penitenziari dovrebbero perseguire”

 

LA STAMPA (TORINO)

 

Stanze per le punizioni e isolamenti: “Nel carcere di Ivrea condizioni disumane”

La relazione del Garante nazionale dei detenuti all’indomani della rivolta nel penitenziario avvenuta nel 2016

IVREA. «Condizioni strutturali e igieniche al di sotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano». Ecco il carcere di Ivrea nel 2016, visto con gli occhi dell’allora Garante nazionale dei detenuti. Una visita d’emergenza la sua, a novembre, dopo una rivolta repressa con violenza. Tanta. Botte, manganellate, sevizie che travalicano i limiti dell’ordine pubblico. E di quanto accettabile in uno stato democratico.

Alcuni reclusi denunciano violenze, ritorsioni. Sono perlopiù stranieri, con storie di povertà e di espedienti e raccontano di una stanza, «l’acquario», riservata alle punizioni più severe. E di un’altra ancora, la «stanza liscia», quella dell’isolamento. Le loro denunce vengono raccolte dall’ex garante di Ivrea e dall’associazione Antigone. Cadono nel vuoto, archiviate, sino a che la procura generale di Torino non decide di avocare il fascicolo. E ora gli agenti di custodia e i medici indagati sono venticinque.

Il carcere è cambiato nel frattempo. «Situazioni di violenza non ne vedo», assicura l’attuale garante Raffaele Orso Giacone. Parole ben diverse da quelle presenti nella relazione del 2016. Undici pagine che descrivono come fallisce un sistema penitenziario.

 

La sconfitta incomincia al piano terra, nella sezione isolamento. «Cinque stanze ordinarie più la numero 6, priva di arredo, chiamata “stanza liscia” dallo stesso personale della polizia penitenziaria», annotava il garante nazionale. Un solo letto, al centro, ancorato al pavimento, con un materasso «peraltro strappato e fuori termine di scadenza». Una finestra sigillata con una copertura di metallo, il termosifone spento. Il garante nazionale sintetizza: «Uno spazio indecoroso e degradante». Sempre al piano terra, c’è la sala d’attesa dell’infermeria. La definivano così, anche se «non ha alcun requisito strutturale e materiale» per una qualifica del genere. Larga tre metri per quattro «è completamente vuota»: non ci sono né sedie, né panche, né sgabelli. Non ci sono passaggi di circolazione d’aria. Toglie il respiro. «Lungo tutta la parete di destra c’è un vetro completamente oscurato con la vernice, tranne che per una striscia di 15 centimetri circa»: dall’esterno si può guardare dentro. I detenuti l’hanno soprannominata “acquario”. «In questa sala le persone vengono chiuse anche per ore e ne viene fatto uso come di una cella di contenimento», testimoniava l’allora referente sanitario.

Il garante nazionale ha appuntato anche questo. Come il racconto di un recluso che contro quel vetro, così gli avevano detto, ha sbattuto la testa più volte, sino a svenire e attendere diverse ore per essere soccorso. La relazione parla anche delle celle del quarto piano, quelle per chi è ammesso al regime di semilibertà o di lavoro esterno, da dove, la notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, era partita la rivolta. «Danni all’arredo, un tavolo divelto. Sulla parete della stanza, a fianco alla finestra, evidenti strisce di sangue, impronte di dita e mani».

CORRIERE DELLA SERA (TORINO)