Gli interventi all’Assemblea proletaria anticapitalista del 17/9 – Soccorso rosso internazionale e Avv. Gianluca Vitale Torino

INTERVENTO DI SOCCORSO ROSSO INTERNAZIONALE 

Soccorso rosso internazionale che al di là del titolo è una realtà ben modesta, però da molti anni noi ci siamo aggregati alla fine degli anni ‘90 su un punto importante alla fine degli anni 90 proprio all’apice della deriva di resa che c’era nel movimento rivoluzionario italiano – parlo delle organizzazioni armate fra gli anni 70 e gli anni 80 che hanno lasciato purtroppo uno strascico anche negativo. Una parte di compagni che abbiamo rifiutato quella deriva e con altri in Europa sugli stessi presupposti abbiamo formato questa realtà che poi si è messa anche in relazione organica con Turchia e Kurdistan, con un confronto con rivoluzionari molto vivi.

La repressione sappiamo che dilaga, anzi ultimamente abbiamo assistito a delle condanne pazzesche sia ad alcuni anarchici che verso alcune lotte di massa. E la tendenza in tutti i paesi è di aumento della

repressione. Di fronte a questo spesso l’atteggiamento dei movimenti e soprattutto dei gruppi politici non solo di difensivo ma è di arretramento. Ma si deve porre la questione della repressione in un aspetto di scontro, che deve comunque crescere, se noi ne siamo capaci, è trasformarlo via via in guerra di classe. Noi abbiamo visto in Italia in altre realtà che la lotta di classe può trasformarsi in guerra di classe. Nonostante le condizioni oggi sono difficili, c’è disgregazione, ma io credo che il proletariato e le forze progressiste della società hanno solo quello sbocco lì, non è che ce ne sono tanti. C’è la via istituzionale parlamentare elettorale su cui vediamo quante delle frazioni di classe purtroppo seguono, e c’è invece la via della rottura netta chiara, in cui le nostre parole di condanna totale del capitalismo e l’imperialismo devono portare a schierarsi su quel campo che comincia a costruire i termini della guerra di classe, che comincia innanzitutto a trasformare ogni lotta anche minima in elementi di autonomia di classe, quindi quantomeno sganciarsi da tutto il controllo politico sindacale; dall’altro via via sviluppare il dibattito e la crescita organizzativa. Più cresce la nostra rabbia, la nostra disponibilità nella lotta, più bisogna trasformarla in elementi reali concreti che vanno verso quell’orizzonte, se no non andiamo da nessuna parte soprattutto su questo aspetto. In questi anni è stato difficile, ci siamo agganciati idealmente e anche in parte organizzativamente alla realtà del cosiddetto “tri continente”, a partire dalla Turchia/Kurdistan in particolare e non solo, perché lì la corrispondenza fra dire e fare c’è, si vede, si sente. E questo è fondamentale.

Su come si affronta la repressione si possono far crescere dei livelli di coscienza. Noi abbiamo tutta un’esperienza dei carcerati, di quelli che hanno fatto o che ancora adesso fanno parte delle Brigate Rosse che stanno in carcere da quarant’anni – ora sono una ventina; questi compagni sono stati quasi tutti arrestati dall’82,  tra l’altro a cavallo di operazioni come quella del sequestro del generale Dozier a capo della NATO al massimo livello – quella vicenda richiama che cos’è la NATO cioè un’organizzazione terroristica e guerrafondaia che oggi la vediamo all’opera dall’Ucraina al Medio Oriente, ecc. e all’epoca fu affrontata con quella capacità del movimento di classe a un altissimo livello. Lo Stato anche rispose con un altissimo livello di repressione, con la tortura scientifica, all’argentina, alla statunitense. Alcuni compagni resistettero e ci onoriamo di avere un compagno come Cesare di Lenardo che fu esemplare in questa resistenza con tre giorni di tortura e che ancora oggi in carcere difende la linea. Noi dobbiamo apprezzare e valutare quello che il movimento di classe ha prodotto di più maturo e rispetto a questo anche imparare.

Penso alla gente del Notav, dei facchini, di altri movimenti, degli studenti, a cui bisogna trasmettere il fatto che la repressione è inevitabile non è un fatalismo, anzi cresce, e ci sono due modi di affrontarla, o arretrare implorando amnistie determinate riforme legislative, cioè affidandosi allo Stato, ai partiti dominanti. Tutto questo significa prima di tutto arrendersi perché lo Stato semmai ci sarà una briciola ce la da quando ci si inginocchia e si cedono le armi in alcuni casi, oppure anche solo le armi ideologiche.

Quindi sulla repressione si gioca una partita importante e noi in Italia abbiamo una cosa che ha un valore enorme che sono sempre questi compagni e le compagne che sono al 41bis, resistono da 17 anni. Il 41bis è una cosa tremenda, è una tortura pura, ma loro resistono.

Non si può fare i descrittivi, i lamentosi. Noi dobbiamo imparare a resistere, ad avanzare nella difficoltà delle lotte. E’ quello che ci insegnano i movimenti in Turchia, nel mondo arabo, in America Latina dove subiscono delle pressioni tremende ma sono capaci di resistere, subiscono delle sconfitte ma si riprendono e vanno avanti.

Come soccorso rosso internazionale è questo quindi il nostro modestamente apporto che cerchiamo di dare; cioè mettere questo elemento di forza in prospettiva

Anche stamattina siamo andati in piazza con i compagni e le compagne per l’India e lì il taglio era giusto, anche se si eccedeva secondo me nella descrizione delle torture e stupri ai prigionieri politici, ma soprattutto si è detto che lì c’è una guerra rivoluzionaria in atto. Noi difendiamo questo. Purtroppo ha prevalso soprattutto in Italia l’aspetto di denuncia di tutte le le malefatte dello Stato e però c’è l’ha resa per lottare per un cambiamento, E lì bisogna scegliere, bisogna fare la scelta di vita da che parte si sta e che cosa si vuole. Se noi vogliamo davvero la rivoluzione giustamente difendiamo i prigionieri ma difendiamo i prigionieri per difendere il valore delle lotte, difendiamo la rivoluzione.

INTERVENTO DELL’AVV. GIANLUCA VITALE – TORINO

L’assemblea del 17 settembre guarda al cuore di quello che potrebbe essere un nuovo autunno caldo. I temi sono tanti, tanti i motivi per scendere in piazza e lottare, per agire il conflitto sociale: dalla crisi (anche, ma assolutamente non solo e neppure prevalentemente, post pandemia) alle delocalizzazioni, dall’attacco ai diritti dei lavoratori e alle loro tutele al sacco privato alla sanità,  dalla partecipazione di fatto alla guerra in Ucraina alle criminali politiche di chiusura dell’Unione Europea e agli accordi anti-migranti con stati dittatoriali e/o autoritari ed antidemocratici, dall’abbandono della scuola pubblica alla creazione sempre più di un sistema di trasporti che privilegia le lunghe tratte costose e impattanti sull’ambiente, abbandonando al degrado le linee pendolari, dalle devastazioni ambientali e dagli attentati alla salute dei cittadini alle condizioni nelle carceri e nei luoghi di detenzione come i CPR, a tanti e tanti altri.

Occorre, però, essere onesti: non si è da anni palesato un grande movimento di massa che sappia cogliere ed unire queste lotte; lotte che in alcuni casi hanno dimostrato una estrema forza e capacità di tenuta, che sono state da esempio per tutte e tutti (da “torinese” non posso non richiamare come esempio la lotta del popolo No Tav; ma tanti sono gli esempi positivi), ma che non sono riuscite a raggiungere quelle dimensioni e trasversalità che qualche decennio fa sembravano acquisite.

A fronte di ciò, o forse anche in ragione di questo momento di parziale debolezza del movimento popolare, ciò che stupisce (ma non troppo) è la risposta che viene data al disagio e al conflitto. Conflitto, è bene precisare e ricordare, che è contrapposizione tra opinioni diverse, non necessariamente e solo violenza; il conflitto, che è dialettica anche dura, è un connotato che identifica una società democratica, e negargli cittadinanza significa negare l’essenza stessa della democrazia, ridurla a mera democrazia elettorale o meglio plebiscitaria, nella quale solo l’urna è legittimata a regolare la vita democratica; elezioni, peraltro, governate da meccanismi e regole che ormai ne hanno snaturato anche questa funzione pseudo democratica, riducendo anch’esse ad un vuoto simulacro. Negare il conflitto significa, allora che il cittadino può e deve limitarsi ad applaudire, non essendogli neppure consentito di protestare o contestare l’oratore di turno.

La risposta al conflitto, allora, è a vari livelli (come tenterò di argomentare) di tipo prettamente repressivo; a fronte di movimenti di lotta che propongono alternative realmente radicali (ma anche a fronte di “vite”, e/o di scelte di vita, ritenute inadeguate) il ”sistema” non sa far altro che agire la repressione, utilizzando come risposta principale il manganello e il carcere.

Come dicevo, questa modalità di rispondere (che è in fondo “a-politica”, perchè rifiuta ogni possibile confronto con l’”avversario”, ma si limita ad imporre la propria visione con la forza; non accetta il confronto politico e non riconosce dignità politica a chi lo contesta o si pone al di fuori delle regole, ma si limita a combatterlo “militarmente” e giudizialmente) si attua a vari livelli, che di fatto corrispondono ai tre poteri “classici” dello stato liberale.

Il primo è proprio il livello normativo: il Parlamento è sempre meno uno specchio della composizione politica e sociale (e sempre più rappresentazione unicamente delle maggioranze dei votanti, con lo svilimento o meglio l’annullamento della rappresentanza non solo delle minoranze ma anche delle classi subalterne economicamente) ed è comunque esautorato anche dalle sue funzioni (chiamato com’è, ormai, a svolgere di fatto la mera funzione di organo di ratifica delle scelte dell’esecutivo); le decisioni vengono prese dall’esecutivo, dal Governo, con lo strumento della decretazione d’urgenza; con il richiamo ad artificiose situazioni di urgenza ed eccezionalità si legittimano i sempre più frequenti decreti sicurezza e le norme che altro non fanno che inasprire la repressione in particolare delle lotte popolari (aumento di pene per determinati reati, introduzione di ostatività ai benefici penitenziari, carcere duro, reintroduzione di reati tipicamente destinati a reprimere il conflitto, come il blocco stradale). Questi strumenti normativi, inoltre, rispondono alle situazioni di marginalità determinate dal liberalismo con una ulteriore marginalizzazione (si pensi alle misure a tutela del decoro del decreto Minniti, o alle misure criminali e criminogene contro i migranti). Così il sistema liberale prima determina le condizioni perchè si sviluppi il conflitto (impoverendo il proletariato, emarginando ampie fette della popolazione, riducendo le tutele del lavoro, tentando di costruire muri armati contro i movimenti delle persone migranti, devastando l’ambiente ed attentando alla sopravvivenza della stessa specie umana), e poi non ha altro modo per rispondere a quel conflitto che con la costruzione di meccanismi di repressione.

Il secondo livello è quello esecutivo: livello che nella sua estrinsecazione di vertice aspira ad assorbire di fatto il primo (esecutivo/governo bulimico che si sostituisce voracemente e di fatto esautora delle sue funzioni il legislativo/parlamento), e nel suo sviluppo e nei suoi organi periferici (dal Ministero dell’Interno alle Questure), gestisce e mette in pratica i progetti antidemocratici e repressivi. La gestione delle piazze (così come, a ben riflettere, la gestione quotidiana dell’ordine e della sicurezza pubblica) è, dunque, coerente con il progressivo deterioramento ed impoverimento delle garanzie dei lavoratori e con il continuo richiamo ad allarmi sulla sicurezza dei cittadini. E si creano i “nemici pubblici”, con costruzioni  che sono da un lato figlie degli allarmi mediatici artificialmente generati e dall’altro sorelle delle norme emergenziali securitarie (nemici che sono il migrante o lo zingaro, ma anche l’anarchico o l’antagonista o il sindacalista di base).

Ben si spiega, allora, una gestione delle piazze e un approccio al conflitto unicamente in chiave repressiva, in una continua ricorsa alla criminalizzazione e al contrasto manu militari delle manifestazioni di protesta. Sempre di più vittime di ciò sono anche i movimenti sindacali di base, proprio in quanto “pericolosi” per l’ordine costituito perchè indisponibili a meccanismi narcotizzanti di concertazione e portatori di istanze radicali di difesa dei diritti dei lavoratori. Significativo è che a volte manifestazioni, picchetti o occupazioni di lavoratori e sindacati subiscono veri e propri assaltati da parte di squadracce padronali, nel completo disinteresse delle forze di polizia, che così disvelano il reale significato (e le finalità “di classe”) della loro presenza.

Così come vittime di queste repressioni sono i movimenti per la difesa del territorio e dell’ambiente, sia locali (come i NoTav o i NoTap, sempre ammesso che questi movimenti possano definirsi locali, ciò che in realtà non è corretto) sia slegati dalle singole situazioni (si pensi alla parabola di movimenti come Extinction Rebellion, che da movimento quasi “coccolato” dai media come un cucciolo di panda, presentato come un simpatico gruppo di giovani ingenui ed idealisti, ha iniziato a subire la repressione sia con gli interventi in piazza delle forze dell’ordine sia con l’adozione contro i suoi militanti di misure di prevenzione come i fogli di via) o i movimenti studenteschi (il movimento contro l’alternanza scuola-lavoro dello scorso inverno-primavera, nato dopo le tragiche morti di alcuni studenti, è stato brutalmente e immotivatamente represso nelle piazze a colpi di manganello).

Agli strumenti di repressione fisici il livello esecutivo/di polizia aggiunge quelli giuridico-amministrativi, come i fogli di via obbligatori (adottati a centinaia in tutta Italia contro i militanti dei vari movimenti) o le proposte di sorveglianza speciale (misure di prevenzione, tutte, che non necessitano di prove, essendo sufficiente il mero sospetto per giustificare l’adozione della misura).

Ma è il successivo “livello”, la risposta al conflitto da parte della magistratura, a meritare un ulteriore approfondimento: l’autorità afferente al potere esecutivo (le forze dell’ordine o le autorità amministrative quali la prefettura) gestiscono l’ordine pubblico e successivamente conducono (di loro iniziativa) le indagini, ma è poi la magistratura (prima inquirente e poi giudicante) a darvi corso e soluzione giudiziaria.

Cinghia di trasmissione tra la polizia giudiziaria e il processo è la magistratura inquirente, le Procure. Ma le procure, soprattutto quando si trovano a condurre indagini relative al conflitto sociale o a questo o quel movimento o area politica “radicale”, sempre più spesso e sistematicamente si limitano a recepire quanto propostogli dalla polizia giudiziaria (spesso impersonata dai funzionari DIGOS), senza operare uno sforzo teso a comprendere il contesto in cui quella specifica lotta, o quel movimento, o quell’azione, si collocano, e senza verificare la linearità, correttezza, integralità dell’attività di indagine che ha inizialmente condotto l’autorità di polizia. Si giunge così a procedimenti penali in cui è evidente che ad essere entrati nel mirino delle indagini sono solo i “militanti”, scelti accuratamente tra i molti soggetti che hanno tenuto condotte magari analoghe (un recente esempio è il processo per l’occupazione, nel 2015, di una pineta vicino agli scogli a Ventimiglia dove si era installato una sorta di campeggio/comune autogestita di migranti e solidali: ad essere processati, e poi in parte condannati, sono stati unicamente i militanti antirazzisti ritenuti riconducibili ad aree anarchiche o antagoniste, a fronte di centinaia di persone – tra cui anche personaggi della cultura, della politica, dello spettacolo – che avevano dato solidarietà attiva all’occupazione); o, ancora, a investigazioni che mostrano assoluta miopia nei confronti delle condotte criminose eventualmente tenute dalle forze dell’ordine o dalle già citate squadracce padronali (questo è ciò che – sistematicamente? – accade nei processi per scontri di piazza, nei quali la polizia giudiziaria ma anche i pubblici ministeri non vedono pestaggi, cariche ingiustificate, lanci di lacrimogeni ad altezza d’uomo, e altre condotte che meriterebbero queste sì di essere portate a processo).

Primo sbocco di queste indagini è, spesso, l’adozione di misure cautelari, sovente la custodia in carcere: uno strumento che dovrebbe essere utilizzato come estrema ratio (il carcere prima del processo) e che, invece, sembra quasi essere un corollario necessario di molti di questi procedimenti. Misure consentite proprio da quella continua opera di inasprimento delle pene per i reati legati al conflitto sociale cui abbiamo da anni assistito ed assistiamo.

A questa opera di investigazione selettiva, poi, si accompagna talvolta (e di recente ne abbiamo avuto clamorosi esempi, anche nella repressione dei movimenti sindacali) l’opera che definirei teoretica: la costruzione di teoremi, la contestazioni del reato di associazione (da quella semplice, a delinquere, a quella eversiva o terroristica), che consente di colpire anche coloro ai quali non si sia riuscito ad attribuire un reato particolare, di utilizzare massicciamente le intercettazioni, di chiedere misure cautelari molto rigide e pene esorbitanti, e di “costruire” pubblicamente dei “nemici”. Questi procedimenti fondati su teoremi si basano, molto spesso sulla visione di ogni attività dei soggetti indagati sotto la luce deformante del pregiudizio su cui si fonda il teorema; così ogni incontro, ogni frase detta (e intercettata), ogni viaggio, deve necessariamente diventare un incontro, una frase, un viaggio fatti nell’ambito del progetto delinquenziale o terroristico dell’associazione (una passeggiata in città non può che essere un sopralluogo o una ricerca di obiettivi da colpire; un viaggio non può che essere finalizzato a una riunione dell’associazione; la più banale delle frasi diventa un messaggio in codice;…).

A volte la magistratura requirente ha smentito queste accuse e questi teoremi (molte sono ad esempio state le assoluzioni per i lavoratori accusati di vari reati – dalla violenza privata alla resistenza – durante manifestazioni  sindacali, o le assoluzioni relative a processi per occupazione); spesso ha invece accolto le richieste dei pubblici ministeri, comminando pene anche alte.

A ben vedere, dunque, anche il terzo dei poteri dello Stato liberale, quello giudiziario, è in qualche modo diretto dal potere esecutivo, quanto meno nel campo della repressione di cui ci stiamo occupando: le sue richieste prima (da parte delle procure) e le sue decisioni dopo dipendono, infatti, da ciò che l’esecutivo (sotto forma di polizia giudiziaria) ha deciso (che sia quale fatto denunciare e su quale fatto fare una annotazione, che sia chi denunciare e per che reato).

Di fronte a questo strapotere dell’apparato repressivo l’unica possibile risposta viene da un rafforzamento dei movimenti e delle lotte, e non certo dal loro indebolimento: tanto più i movimenti sono deboli tanto più sarà “facile” colpirli anche dal punto di vista giudiziario; tanto più essi saranno forti tanto più difficile sarà colpirli, far passare come normali determinate condanne.

Diversi rapporti di forza, in fondo, possono essere determinanti in ognuno dei “momenti” della repressione che abbiamo visto: di certo sono determinanti al momento della costruzione delle norme, dunque a livello legislativo (come insegnano ad esempio  tutte quelle lotte che hanno in passato consentito di introdurre mitigazioni nel regime penitenziario), ma nel momento giudiziario (il clima, anche quello dentro e fuori le aule di giustizia, non è ininfluente sugli esiti giudiziari) e, ovviamente, quello della gestione delle piazze (luogo principe in cui decisivo è il rapporto di forza).