campagna internazionale per la difesa della vita del prof abimael guzman reynoso

CAMPANHA EM DEFESA DA SAÚDE E DA VIDA DO PROF. ABIMAEL GUZMÁN REYNOSO – CEBRASPO

 

EM DEFESA DA VIDA DO PROF. ABIMAEL GUZMÁN REYNOSO SERIAMENTE AMEAÇADA PELO ESTADO PERUANO

O Centro Brasileiro de Solidariedade aos Povos – CEBRASPO vem denunciar que a vida do Prof. Abimael Guzmán Reynoso, o presidente Gonzalo, prisioneiro de guerra do Estado Peruano, se encontra seriamente ameaçada.

O prof. Abimael, presidente do Partido Comunista do Peru – PCP até o momento de sua prisão em 1992, encontra-se encarcerado em isolamento completo há 29 anos na prisão naval de Callao em uma cela abaixo do nível do mar. Condenado à prisão perpétua pelos tribunais do Estado peruano através de um processo fraudulento, com base nas leis penais inválidas da constituição fascista de Fujimori. As condições em que está preso violam acordos internacionais como a Convenção de Genebra e todas as regulamentações gerais que disciplinam os Direitos Fundamentais da Pessoa Humana e o direito dos presos, nesse caso em particular dos presos políticos.

Idoso de 86 anos e portador de uma série de doenças crônicas, foi noticiado pela imprensa monopolista estar internado desde 20 de julho num hospital próximo ao Centro de Reclusão de Máxima Segurança da Base Naval de Callao (Cerec). Tudo leva a crer que o completo descuido com as suas condições de vida no cárcere foi motivo do agravamento de sua saúde pois os jornais atribuíram a internação a um câncer de pele maltratado, derivando em metástase. Câncer este, na grande maioria dos casos, tratável precocemente e de fácil diagnóstico

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A forma como o Estado peruano trata o Prof. Abimael é completamente destoante do tratamento que deu em 2020 ao genocida Fujimori que foi indultado por ser igualmente idoso e pelos riscos de adquirir COVID-19 na prisão. No caso de Abimael Guzmán, o Estado se recusou até a colocá-lo em prisão domiciliar, onde sua saúde pudesse ser convenientemente cuidada. No ano passado, nós do CEBRASPO, fomos apoiadores de solicitação de medida cautelar impetrada por seus advogados de defesa junto a Corte Latino Americana de Direitos Humanos, que, infelizmente, compactuou com a posição do Estado peruano de que ele estava sendo convenientemente cuidado. Os fatos atuais bem provam o contrário.

Na época dizíamos: “Há uma intenção clara de que o Dr. Guzmán seja infectado e morra para assim tentar livrar o governo peruano da clara discriminação contra os presos políticos do Peru. Pois, até o genocida Fujimori que estava condenado a 25 anos de prisão, na prática, perpétua pela idade avançada, entregue pelo governo chileno ao Peru, obteve um indulto por razões humanitárias”. O fascista Fujimori, que governou o Peru de 1990 a 2000 em regime ditatorial, esteve preso por corrupção e massacres. Acabou com a vida de 52 presos políticos, muitos deles indefesos, já que se encontravam completamente desarmados. Promoveu massacres contra populações civis e responde pelo crime de mais de 272 mil mulheres e 21 mil homens esterilizados à força. Está muito claro como a Justiça e o Governo peruano tratam a questão dos direitos à vida e à saúde com dois pesos e duas medidas

Pesa sobre o prof. Abimael acusações de consciência, numa guerra que se travou entre uma imensa maioria de população pobre e secularmente oprimida lideradas pelo Partido Comunista do Peru de um lado, e uma poderosa oligarquia que mantem o poder no país. O violento isolamento imposto no cárcere e o cerceamento dos direitos mais elementares do prof. Abimael Guzmán apenas mostram o temor do Estado para que suas posições políticas não venham à tona, pois podem ser uma ameaça à velha ordem.

Exigimos que o Prof. Abimael Guzmán tenha total acesso aos cuidados necessários para com sua saúde e que seus direitos de preso político e prisioneiro de guerra sejam respeitados nos marcos dos tratados internacionais e conclamamos a todos os democratas e progressistas que denunciem e se posicionem contra esta clara ameaça a vida do Prof. Abimael Guzmán Reynoso.

 

Rio de Janeiro, 15 de agosto de 2021

 

Posted by maoistroad at 2:18 AM

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Le detenute di Torino lanciano lo “sciopero del carrello”: «Troppi diritti negati in carcere».

Protestano «contro l’immobilismo e il silenzio che gravano sugli istituti penitenziari italiani». Le detenute rifiuteranno i pasti fino al 21 agosto

Le detenute della sezione femminile del carcere di Torino Lorusso-Cutugno lanciano lo “sciopero del carrello”: fino al 21 agosto rifiuteranno il vitto fornito dall’amministrazione penitenziaria come forma di protesta pacifica «contro l’immobilismo e il silenzio che gravano» su tutte le carceri italiane.

A darne notizia è il Manifesto, che ha raccolto le motivazioni delle detenute contenute in una lettera: «Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti – scrivono – senza violenza e con rispetto, in primis per noi stessi, che oltre ad essere stati soggetti devianti siamo sempre cittadini, aventi diritti e doveri come coloro che vivono in libertà». All’iniziativa hanno aderito anche i detenuti di altre sezioni dell’istituto, con l’appoggio del Partito radicale e dei garanti dei detenuti. È Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino, a raccontare al Manifesto come nasce l’iniziativa: «Ne parlano da tempo e ne abbiamo anche discusso insieme. La pandemia ha acuito i problemi e ha innescato una riflessione più consapevole tra le detenute. L’obiettivo è riportare il carcere a uno stato di diritto e si rivolgono al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La questione è nazionale. Hanno messo in luce diverse problematiche. Dal sovraffollamento, chiedendo anche una riforma della legge sui giorni di libertà anticipata affinché da 45 diventino 65 (retroattivi dal 2015), alle opportunità di studio e lavorative, ridotte anche in conseguenza del Covid. Sono, inoltre, aumentati i problemi psichiatrici. Le detenute lamentano l’assenza di mediatori culturali e la mancanza totale di un’attenzione alle questioni di genere, troppo spesso ignorate».

Rapporto Antigone – i dati

Secondo i dati aggiornati al 31 luglio, sono 1.332 i detenuti presenti nella casa circondariale di Torino, di cui 608 stranieri, su una capienza di 1.098. Le donne sono 113 per una capienza di circa 80. Un problema, quello del sovraffollamento, che riguarda tutti gli istituti italiani, come denunciato a più riprese sia nell’ultimo rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone, sia dall’Istat.  Il tasso di affollamento reale nelle carceri – secondo Antigone – è del 113,1%, il 36% dei detenuti deve scontare meno di tre anni, mentre uno su sei è in attesa del primo giudizio.  Al 30 giugno scorso, il numero dei detenuti si attesta a 53.637, di cui 2.228 donne (4,2%) e 17.019 stranieri (32,4%), per 50.779 posti ufficialmente disponibili e un tasso di affollamento ufficiale del 105,6% e reale del 113,1%. Fra gli istituti penitenziari italiani, sono evidenti alcune importanti differenze sulle presenze. Se ne contano 117 su 189 con un tasso di affollamento superiore al 100%. In particolare, 54 carceri hanno un affollamento fra il 100% e il 120%, 52 tra il 120% e il 150% e infine 11 istituti hanno un affollamento superiore al 150%. I cinque peggiori sono Brescia (378 detenuti, 200%), Grosseto (27, 180%), Brindisi (194, 170,2%), Crotone (148, 168,2%), Bergamo (529, 168%). Con i dati aggiornati a fine giugno, sono 7.147 le persone detenute in Italia a cui è stata inflitta una pena inferiore ai 3 anni (per 1.238 inferiore all’anno, per 2.180 compresa tra 1 e 2 anni e per 3.729 tra i 2 e i 3 anni). Ancora, 8.236 reclusi hanno una pena inflitta compresa tra i 3 e i 5 anni, 11.008 tra i 5 e i 10 anni, 6.546 tra i 10 e i 20 anni e a 2.470 superiore ai 20 anni. Gli ergastolani ammontano a 1.806 (erano 1.784 a fine 2020, 1.224 nel 2005).

Per quanto riguarda invece il residuo pena, al 30 giugno a 2.238 detenuti (di cui 1.806 ergastolani) restano da scontare più di 20 anni; a 2.427 tra i 10 e i 20 anni, a 5.986 tra i 10 e i 5 anni, a 7.281 tra i 5 e i 3 anni e infine a ben 19.271 reclusi, il 36% del totale, meno di 3 anni (a 5.609 tra i 2 e 3 anni, a 6.705 tra 1 e 2 anni e a 6.957 meno di un anno). «Questi ultimi, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto», sottolinea il rapporto dell’associazione Antigone. E non solo. Ogni anno vengono spesi i circa 3 miliardi per il funzionamento delle carceri per adulti e i 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e alle misure alternative alla detenzione. Dei 3 miliardi complessivi, il 68% è impiegato per la polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente con oltre 32.500 agenti. Il divario con l’organico previsto dalla legge (37.181 unità) si attesta a circa 12,5%.

Ancora, sono 29 i bambini con meno di 3 anni che vivono insieme alle loro madri detenute all’interno di carceri ordinarie o degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) lungo lo Stivale. I suicidi in cella, fino al 15 luglio scorso, sono stati 18, di cui 4 commessi da stranieri e i restanti da italiani. Il più giovane aveva 24 anni e il più anziano 56. Nel 2020, i suicidi sono stati 62 e il numero di suicidi ogni 10.000 detenuti è stato il più alto degli ultimi anni, raggiungendo gli 11. Secondo Antigone, insomma, quella della violenza, con «le immagini della mattanza avvenuta nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere», non è l’unica emergenza che tocca il sistema penitenziario italiano.

Mele marce o albero fracido?? 4 agenti picchiano un detenuto su una barella nel carcere di Monza

Un detenuto è stato picchiato da 4 agenti mentre era steso sulla barella. La vicenda è stata resa nota grazie ad un video del Tg1. Il detenuto era stato sottoposto ad visita all’infermeria del carcere di Monza. All’uscita l’uomo ha provato a divincolarsi ma 3 agenti della polizia penitenziaria lo immobilizzavano per le braccia.

Inoltre un altro agente inizia a schiaffeggiarlo in testa, dopodiché, il detenuto viene scaricato in cella. Quello che avviene dietro alla porta non è visibile: pochi momenti prima la telecamera del corridoio filma una mano spuntare dalle sbarre e battere a terra. Dopodiché l’uomo viene trascinato nuovamente dentro la cella. Per questo episodio 4 agenti e un’ispettrice del carcere di Monza, a luglio, sono stati rinviati a giudizio per l’episodio risalente a due anni fa. I reati contestati sono abuso d’ufficio, lesioni aggravate, falso.

Era il 6 agosto 2019 quando il fratello di quell’uomo chiamò il numero telefonico dell’ufficio di Antigone. La cognata colloquiò con il marito trovandolo tumefatto. A seguito del pestaggio l’uomo subì un procedimento disciplinare ed era stato posto in isolamento.

“Le immagini delle violenze su un detenuto, avvenute nel carcere di Monza e mandate in onda dal Tg1 (questo un estratto del servizio), testimoniano della violenza che venne che venne denunciata ad Antigone il 6 agosto 2019, quando il fratello dell’uomo che ha subito quelle violenze compose il numero telefonico del nostro ufficio per raccontare l’accaduto. A seguito di quella telefonata e dei successivi colloqui dei nostri avvocati con il parente che ci aveva contattato, avevamo presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Monza che nelle ultime settimane ha deciso il rinvio a giudizio per 5 poliziotti penitenziari. Lo scorso maggio siamo stati anche ammessi parte civile nel procedimento”, scrive l’Associazione Antigone.

Come raccontato dagli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto contenuto il detenuto dopo che ha opposto resistenza, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo messa in atto dal detenuto

 

Proiettili di gomma, divieto di manifestare: come i sindacati di polizia vogliono chiudere la bocca ai no tav

Dopo la “caporetto” delle truppe a difesa del cantiere del 31 luglio scorso si è scatenata la gara tra i sindacati di polizia a chi la spara più grossa. In questi giorni abbiamo assistito a una serie di proposte surreali fatte a mezzo stampa da tutori dell’ordine evidentemente con poco familiarità del diritto di manifestare oltre che del territorio della Val Susa.

La prima invocazione di questi rambo un po’ frustrati è quella di poter sparare proiettili di gomma sui no tav. Parliamo di armi non convenzionali, criticate da ogni parte per la loro letalità (basti pensare che in Francia 17 persone hanno perso un occhio durante il movimento dei gilet gialli) e di cui Amnesty international chiede da tempo il divieto. Invece loro chiedono licenza di mutilare?

L’altra proposta è quella di sgomberare i presidi no tav. Insomma, da una parte si afferma che protestare “pacificamente” contro il tav è legittimo (vivaddio!), dall’altra si chiede di demolire i luoghi in cui i comitati della val Susa organizzano discussioni, presentazioni di libri e pranzi condivisi per opporsi all’opera. Tra l’altro i presidi sorgono tutti su terreni regolarmente detenuti da privati o messi a disposizione dalle amministrazioni comunali che possono disporne come meglio credono quindi non si capisce quindi bene a quale titolo si potrebbe procedere allo sgombero ma tant’è.

L’ultima proposta è quella di impedire manifestazioni “in un raggio di 20 km dal cantiere”. Per farsi un’idea si tratta di un’area che andrebbe da Beaulard a Rosta e Rivera compresi le valli di Viù la Val Sangone con Giaveno Trana e Coazze e praticamente quasi tutta la Val Chisone e Germanasca. Se poi si dovesse immaginare anche il cantiere di Salbertrand e di Caprie, allora i divieti arriverebbero dal Sestriere e Bardonecchia fino alle porte di Torino. Achtung Banditen!

da notav.info

Spagna: Pablo Hasél, la tortura e la continuità con il vecchio regime

A circa sei mesi dai fatti, la detenzione di Pablo Hasél suggerisce una più ampia riflessione sulle caratteristiche degli apparati repressivi e del nucleo duro del potere dello stato spagnolo, non foss’altro perché sono queste le strutture che, all’ombra e con il beneplacito dei differenti governi, si occupano della repressione dei movimenti di emancipazione nazionale e di classe al fine di mantenere inalterati gli equilibri del cosiddetto regime del ’78 (unità dello stato, difesa degli interessi dell’Ibex 35 e rispetto dei dettami della UE).

Una breve panoramica su alcuni significativi episodi degli ultimi due anni sarà sufficiente per dimostrare quanto sia forte ancora oggi nel ventre profondo dello stato la tentazione di indossare la camicia nera.

Tra le differenti condanne la cui somma ha portato all’ingresso in carcere del rapper di Lleida, merita soffermarsi su quella comminata dall’Audiencia Nacional nel marzo 2018: due anni di prigione e una multa di circa 24.000 euro per apologia del terrorismo e ingiurie alla corona.

Uno degli alti magistrati che hanno redatto la sentenza in questione è Nicolás Proveda Peñas, un ex-militante della Falange, un partito fascista per il quale il giudice si presentò come candidato al Senato spagnolo alle elezioni del 1979. Precedentemente Proveda Peñas era stato anche membro dell’organizzazione studentesca dell’ultra-destra Frente de Estudiantes Sindicalistas (FES), attiva negli anni ’60.

Dietro l’anonima toga del magistrato si cela dunque un antico sostenitore del regime, il cui curriculum è arricchito da alcuni processi contro la sinistra abertzale saliti alle cronache per il discutibile atteggiamento di disprezzo del giudice. Ma che democrazia è quella che consente a un ex falangista di presiedere uno dei più alti tribunali dello stato?

Il fatto è che nella costituzione materiale della Spagna odierna, così plasmata dal processo di autoriforma del fascismo, pratiche e soggetti precostituzionali hanno continuato a godere di piena legittimità politica.

La cronaca degli ultimi mesi ne fornisce varie prove, a cominciare dalla recente e definitiva archiviazione del caso di Carlos Rey, l’ex-giudice militare che nel 1974 ordinò la condanna a morte del giovane anarchico Salvador Puig Antich, giustiziato con il metodo della garrota.

La parabola di Rey è esemplare. In seguito alla morte di Franco, il militare e boia del regime si ricicla come avvocato penalista e torna alla ribalta della cronaca nel 2013 quando assume la difesa della leader del Partido Popular catalano dell’epoca, Alicia Sanchez Camacho, implicata in uno scandalo di spionaggio.

Intervistato sul proprio passato e riferendosi all’esecuzione di Puig Antich, Rey aveva dichiarato: “è un tema superato, un caso che non mi ha segnato più di altri. Non mi pento di niente perché tutto quello che ho fatto è stato applicare la legge vigente. Probabilmente 40 anni fa tutto ciò era giusto, un’altra cosa è se lo guardiamo nella prospettiva attuale. Io ho fatto il mio dovere e né il Tribunale Costituzionale né il Tribunale Supremo hanno trovato niente da ridire“.

Una vera e propria rivendicazione del passato fascista, di cui nessuna delle istituzioni democratiche gli ha mai chiesto conto. Al contrario, l’ex-militare ha fatto carriera e ha insegnato all’Università Internazionale della Catalunya (una istituzione legata all’Opus Dei) come si trattasse di un normale penalista.

Indignate dalle dichiarazioni dell’ex-funzionario del regime, le sorelle di Puig Antich (affiancate dal Comune di Barcellona) l’avevano denunciato nel 2018, accusandolo di violazione dei diritti umani. Ma con la sentenza dello scorso agosto i giudici dell’Audiencia di Barcellona hanno disposto l’archiviazione della causa.

Non solo il boia di Puig Antich non ha pagato per i suoi crimini ma è stato ancora una volta legittimato dalle istituzioni. Un esito possibile grazie alla legge d’amnistia del 1977 che, se da un lato benefició gli antifascisti (a patto di non essersi macchiati di reati di sangue) dall’altro azzerò le responsabilità dei funzionari del regime riguardo ai crimini commessi (torture comprese), traducendosi in un vero e proprio scudo protettivo per i protagonisti dei lunghi decenni della dittatura. Uno scudo che gli apparati repressivi dello stato non accennano a deporre.

Quello di Carlos Rey non è infatti un caso isolato: nel maggio scorso è morto nel suo letto (falciato dal coronavirus) il commissario della famigerata brigata politico-sociale Juan Antonio González Pacheco, detto Billy el Niño, una carriera costellata dalle torture e protetta da una assoluta impunità.

Eppure abbondano le testimonianze che lo inchiodano alle proprie responsabilità, a cominciare da quella rilasciata da José Serrano (antifranchista della Liga Comunista Revolucionaria) al giudice argentino Maria Servini, che nel 2013 aveva richiesto l’estradizione di Billy el Niño accusandolo di crimini contro l’umanità.

Nella petizione del giudice si legge che dopo l’arresto, avvenuto a Madrid nel 1971, “lo sottomettono a brutali pestaggi nel corso dei quali perde conoscenza diverse volte…; che tra le varie torture ricorda di essere stato appeso, legato per i polsi, per servire (come dicevano i suoi aguzzini) da sacco per i loro allenamenti di karate; che lo sottoposero alla bañera, una pratica che consisteva nel mettergli la testa in un secchio d’acqua putrida fino quasi ad affogarlo, permettergli di respirare un momento e ripetere l’operazione e così di seguito finché perdeva conoscenza; che patì anche la barra (ammanettato lo appesero a una sbarra in modo che le natiche, i genitali e le piante dei piedi rimanessero scoperte per essere colpite, la tortura che più di tutte le altre richiese una lunga convalescenza dato che per mesi orinò sangue e coaguli e che da allora non poté più correre né muoversi come prima…; che in questa pratica ricorda per la sua particolare ferocia Juan Antonio González Pacheco, alias Billy el Niño“.

Per i servizi resi, Billy viene decorato dal ministro Rodolfo Martín Villa e successivamente amnistiato nel 1977. Grazie alle decorazioni assegnategli, il commissario continua a riscuotere fino alla morte una pensione statale maggiorata da un cospicuo bonus, mai messo in discussione dai vari governi, sia socialisti che popolari, succedutisi nei decenni successivi alla morte del caudillo.

Non solo: nell’aprile 2014 l’Audiencia Nacional si rifiuta di concederne l’estradizione. Una protezione a tutto tondo, che gli ha consentito di non dover mai rendere conto a nessuno del proprio operato.

La pervicacia con la quale le cosiddette istituzioni democratiche assicurano ancora oggi l’impunità dei fascisti è testimoniata anche dalla sorprendente lettera con la quale nel settembre scorso quattro ex presidenti del consiglio spagnolo hanno preso le difese di Rodolfo Martín Villa, autorevole rappresentante del regime e ministro della transizione, indagato dalla giudice Maria Servini per la strage di Vitoria del 3 marzo 1976 (quando la polizia uccise cinque giovani operai e ne ferí diverse decine durante uno sciopero) e per altri crimini commessi durante la dittatura.

Accanto ai popolari Mariano Rajoy e José Maria Aznar, anche i socialisti Felipe Gonzalez e José Luís Rodríguez Zapatero hanno chiesto al magistrato di riconsiderare la propria indagine, sottolineando la supposta statura politica dell’ex gerarca.

Zapatero ha sostenuto addirittura che Martin Villa sarà ricordato per l’impronta nella storia della Spagna lasciata durante la transizione, ossia per il suo contributo alla riforma del franchismo (e non per i crimini commessi).

La lettera bipartisan rappresenta alla perfezione il regime del ’78: le sinistre dello Stato rinunciano alla trasformazione della società e accettano la riforma che il regime si cuce su misura; le elites franchiste ottengono la garanzia dell’impunità perpetua e il mantenimento dei propri privilegi economici. La lettera dimostra che questo patto, benedetto dalla monarchia, dall’esercito e dall’apparato repressivo statale, è ancora pienamente in vigore.

Il regime di impunità previsto per I funzionari del vecchio regime si estende anche ai fascisti protagonisti dell’attualità: i giudici della Giunta Elettorale madrilena hanno permesso a Manuel Andrino Lobo e a Jesús Fernando Fernández-Gil, entrambi militanti della Falange Spagnola, di partecipare alle recenti elezioni della Comunità Autonoma di Madrid nonostante fossero già stati condannati per disordini e incitamento all’odio dal Tribunale Supremo.

La legge esclude la possibilità di presentarsi ad una elezione per coloro che abbiano riportato una condanna non ancora scontata. Proprio in una situazione simile si era trovato l’ex presidente della Generalitat Quim Torra, interdetto dai pubblici uffici e costretto a rinunciare a partecipare alle ultime elezioni per il rinnovo della camera catalana.

Ma nel caso dei due esponenti della Falange Spagnola, una controversa interpretazione della norma ha portato a un esito opposto.

A capo del Ministero dell’Interno, il governo del PSOE e Unidas Podemos ha piazzato Fernando Grande-Marlaska, un altro garante dei patti non scritti della transizione: alla fine di aprile il ministro si è rifiutato di accettare la proposta di trasformare la prefettura della Policia Nacional della Via Laietana di Barcellona (tristemente nota per essere stata uno dei più temuti luoghi di tortura durante il franchismo) in uno spazio dI ricostruzione della memoria storica.

La giustificazione di Grande-Marlaska, che ha dichiarato “non vediamo motivi operativi per trasferirla“, ha suscitato un certo sconcerto dato che l’edificio è praticamente vuoto da anni e gli uffici operativi sono situati in un altro quartiere.

Ancora più sconcertante la reazione del sindacato di polizia, che ha interpretato la richiesta della trasformazione d’uso dell’edificio come un attacco diretto all’arma.

Il presidente della Commissione per la Dignità, Pep Cruanyes, impegnato nella conservazione della memoria storica, ha osservato che “quando reagiscono così, la prima cosa che viene in mente è che si sentono eredi dell’antica polizia. Se sono un giudice tedesco e criticano un giudice nazista non mi sento tirato in causa. Se il sindacato della polizia si sente tirato in causa è perché si considera successore del vecchio regime e gli dispiace che si parli di ciò che faceva quella gente“.

La denuncia della tortura è invece più che mai necessaria, anche perché non riguarda solo I decenni della dittatura, ma si allarga anche al periodo della transizione e a quello della supposta democrazia.

Naia Zuriarrain fa parte di un gruppo di avvocati che hanno difeso alcuni militanti di ETA. Attualmente si trova sotto processo insieme ai suoi colleghi, accusata dai giudici dell’Audiencia Nacional di appartenere all’organizzazione armata basca.

La sua testimonianza, risuonata in aula il mese scorso, si riferisce a fatti accaduti nel 2010, all’epoca della sua detenzione, quando al commissariato gli agenti cominciarono con lo spogliarla: “mi toccavano il seno e tutto il corpo, un guardia civil appoggiava i suoi genitali sul mio didietro… facevano commenti di natura sessuale tutto il tempo, umiliandomi e insultandomi“.

Dopodiché gli avvolsero tutto il corpo, tranne la testa, in un rotolo di gommapiuma stretto con del nastro adesivo e continuarono l’”interrogatorio”: “cominciarono a tirarmi acqua fredda in capo, mi misero delle borse di plastica che me lo coprivano completamente così che non potevo respirare…, cercavo di mordere la plastica per respirare. Sentivo che stavo morendo, che soffocavo. Non so quante volte mi misero la borsa. Cercavo di divincolarmi ma non potevo…, non so in che momento caddi o mi buttarono in terra, mi tolsero la borsa e cominciarono a tirarmi in faccia un getto d’acqua che mi entrava nel naso e mi soffocava. Mi dicevano continuamente – Parlerai? Parlerai? Parlerai? – e a un certo punto mentre ero in terra gli dissi di si, che avrei parlato“.

L’avvocata prosegue spiegando che gli fecero imparare a memoria tutto quello che doveva dire: “mi minacciarono di sottopormi un’altra volta allo stesso trattamento se non rispondevo come volevano… Mi misero contro una parete e cominciarono a farmi domande e a farmi imparare quello che dovevo dire nella mia dichiarazione“.

Questa denuncia era arrivata a suo tempo davanti al giudice istruttore, che non la ritenne degna di giustificare l’apertura di una indagine e la cestinò. Ebbene quel giudice era Fernando Grande-Marlaska, l’attuale ministro dell’interno del governo in carica, lo stesso governo che ama definirsi “il più a sinistra della storia di Spagna”.

Un ministro che vanta un sinistro primato: il Tribunale Europeo per i Diritti Umani ha condannato lo stato spagnolo per non aver indagato casi di supposta tortura in ben sette circostanze nelle quali il giudice istruttore era Grande-Marlaska.

Nonostante l’ultima testimonianza di Naia Zuriarrain situi la tortura ben oltre il noto periodo dei GAL (i sicari della guerra sporca dello stato contro ETA) e ne denunci la persistenza nella pratica della Guardia Civil addirittura nel 2010, tirando in ballo l’attuale ministro dell’interno, le reazioni della Spagna presuntamente democratica sono state pressoché inesistenti, a testimonianza del grado di condiscendenza di cui godono le strutture repressive dello stato quando si tratta di difenderne l’unità.

È perciò che le parole gridate da Pablo Hasél al momento della sua detenzione all’Università di Lleida, “morte allo stato fascista“, risuonano non tanto come un vecchio slogan quanto come un vero e proprio programma politico che invoca la fine della continuità del franchismo nelle strutture politiche, repressive e giudiziarie dello stato.

Parole che suggeriscono implicitamente anche un monito per le sinistre statali: rifiutare il sostegno all’indipendentismo catalano, basco o galiziano significa legare il proprio destino politico a uno stato le cui radici affondano ancora nel fascismo spagnolo.

Il video della testimonianza in aula di Naia Zurriarrain si trova alla pagina https://www.vilaweb.cat/noticies/tortures-advocada-basca-naia-zuriarrain-guardia-civil/

da Contropiano

Presidio No Tav per la visita della ministra: “Su di noi sperimentano la repressione di tutte le altre lotte”

TORINO. «No Tav fino all’ultima battaglia, No Tav fino all’ultima bottiglia» è scritto sullo striscione dei No Tav in centro oggi a Torino per contestare la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Il presidio, in via Viotti, mentre in Prefettura è in corso un Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica alla presenza della ministra e del capo della polizia Lamberto Giannini sulla situazione in Valle di Susa, al cantiere Tav, dopo i violenti scontri delle scorse settimane.

Dal presidio chiedono «di parlare con la ministra Lamorgese e il capo della polizia. È un’opera inutile».

Tra i manifestanti alcuni volti storici del Movimento No Tav come Nicoletta Dosio e Guido Fissore. «Quello che sperimentano da noi, lo sperimenteranno su tutte le lotte sociali del Paese» dicono in risposta alle richieste dei sindacati di polizia di interventi più incisivi e nuove strategie contro l’ala violenta del Movimento.

«Sulla statale 25 abbiamo un fortino, cosa dobbiamo fare se non difenderci da questa intrusione? La Tav non sarà un mero problema di ordine pubblico. Ministro faccia rimuovere la polizia da un cantiere che è vuoto» dichiara Loredana Bellone, ex sindaco di San Didero.

Poi parte il coro: «I popoli in rivolta riscrivono la storia, No Tav fino alla vittoria». I manifestanti hanno cartelli con le foto di alcuni attivisti raggiunti da misura cautelare a seguito degli scontri in Valle di Susa e di Giovanna Saraceno, 36 anni, esponente del centro sociale pisano “Newroz”, che ad aprile aveva denunciato di essere stata colpita al volto da un lacrimogeno sparato dalla polizia, mentre partecipava a un attacco al cantiere di San Didero bersagliato da pietre e bombe carta. Una consulenza medica della Procura ha escluso il lacrimogeno come causa delle lesioni.  Il consulente, il Dottor Testi, è consulente di fiducia del PM anti-notav Antonio Rinaudo.