NO alla repressione degli antimperialisti a Taranto – NO armi da Taranto/Puglia che alimentano la guerra in Ucraina

Mentre continuano le esercitazioni per la guerra nei nostri mari e la preparazione di invio di armi, cacciabombardieri, soldati in Ucraina; mentre il governo aumenta in maniera mai come prima le spese militari, impedendo anche al parlamento di esprimersi, e lo fa raccattando soldi da ogni dove, dai fondi sociali, dal lavoro, dalla sanita’, dalla scuola, dai sussidi per i poveri e disoccupati, anche dai fondi gia’ miseri degli altri profughi/immigrati (di pelle nera) con un evidente razzismo, mentre solo elemosine vengono stanziate per il carovita e bollette,

l’unica “attenzione” verso i tanti lavoratori, giovani, donne che si oppongono a questa maledetta guerra interimperialista è la REPRESSIONE!

A Taranto e in Puglia vogliono denunciare giovani, compagni e compagne antimperialisti che giustamente hanno protestato e continueranno a protestare, perchè TARANTO NON E’ CITTA’ DI GUERRA – LAVORO NON SPESE MILITARI!

Guerra e repressione per questo Stato imperialista vanno insieme (come in Russia, come in Ucraina).

Ma più sollevano vento e più risponderemo con la lotta, giusta, per fermare questa guerra

La denuncia portata anche alla manifestazione di Firenze
(contenuta nel foglio speciale di proletari comunisti)

31 attivisti rinviati a processo per avere manifestato contro il 41 bis

Da Contropiano

Alla fine sono iniziate ad arrivare le notifiche dal Tribunale de L’Aquila, a firma della Giudice Guendalina Buccella, i rinvii a giudizio a 31 attivisti politici di varie associazioni e gruppi di diverse parti d’Italia che, il 24 novembre 2017, avevano con numerosi altri solidali manifestato con fermezza contro la tortura del 41 bis.

In particolare contro le ulteriori vessazioni che la prigioniera politica Nadia Lioce, in regime di isolamento speciale dal 2003, subiva da parte della direzione del carcere speciale aquilano.

Quel giorno della manifestazione la detenuta Lioce doveva presenziare in video conferenza, alla terza udienza di un processo penale perché avrebbe, attraverso una “battitura” (unico mezzo possibile per richiamare un minimo di attenzione in una condizione di detenzione durissima) “disturbato la quiete ed il riposo delle persone”.

La denuncia giudiziaria alla prigioniera era partita naturalmente dai suoi carcerieri. La protesta sacrosanta della detenuta risaliva al 2014, allorquando una circolare del DAP e la pronuncia della Cassazione, avevano stabilito l’impossibilità, per chi è recluso in regime di 41 bis, ovvero seppellito vivo dal mondo (sono diverse centinaia in Italia i detenuti a 41 bis), di detenere libri o riviste in cella o di riceverne dall’esterno. Se questa non è tortura…

Va ricordato che già diversi Tribunali e Corti sovranazionali hanno richiamato i governi italiani a dismettere questa atroce misura detentiva. Invece, i governi del Bel Paese – di destra e “di sinistra” – che anche su questo non si differenziano, hanno proseguito in questi ultimi decenni a mantenere questo regime carcerario che viola platealmente i diritti basilari umani. Ulteriori informazioni le troviamo su questo stesso giornale.

Le denunce contro i solidali erano scattate il giorno stesso della manifestazione, perché l’allora questore de L’Aquila, Antonio Maiorano, aveva disposto in modo del tutto immotivato un divieto di manifestare per ragioni di ordine pubblico.

Una decisione a dir poco bislacca visto che non c’erano state da nessuna parte minacce di fare di quella giornata di denuncia e solidarietà, un momento di azioni eclatanti tali da mettere in pericolo la sicurezza pubblica.

La decisione di vietare il diritto democratico di esercitare la libertà di espressione, di manifestazione del dissenso contro il 41 bis in quanto tortura, in realtà era semplicemente un modo per tenere silenziata una vicenda che era a dir poco vergognosa per uno “stato di diritto”.

Per questa ragione, tutto sommato rispettosa del dettame costituzionale, fu deciso dai promotori di quella giornata di lotta di non rinunciare a manifestare la solidarietà alla prigioniera Lioce sotto processo per avere rivendicato un suo diritto.

Fu così, dopo un anno da quell’evento, che i 31 denunciati ricevettero una condanna pecuniaria di 500 euro. Ma per le stesse ragioni legittime di non rinunciare al diritto di manifestare, questa condanna pecuniaria priva di fondamento fu da molti destinatari impugnata legalmente.

Non è un caso che sul 41 bis si preferisca censurare. D’altra parte sul tema del carcere e delle condizioni generali di migliaia di detenuti rinchiusi in stato di sovraffollamento, di scarsa igiene, di carenza di servizi sanitari, di mancanza di presidi atti ad un vero recupero riabilitativo sociale e culturale, la tendenza in voga nello Stato è quella di tacere, di mettere la sordina a fatti e comportamenti gravi che avvengono dentro gli istituti di pena, ma non solo.

Sappiamo che sempre più le carceri sono delle vere discariche sociali, specie in questi ultimi decenni caratterizzati dalla crisi generale economica e sociale di un sistema in decadenza. In questi ultimi due anni di pandemia le contraddizioni si sono acutizzate.

Come sappiamo, le rivolte carcerarie che sono state sedate con una dura e brutale repressione che ha causato decine di detenuti torturati e pestati. E parecchi uccisi.

I fatti del 2020, nel carcere S. Anna di Modena e in quello di Santa Maria Capua Vetere, sotto amministrazione dell’allora governo “Conte 1” e con Bonafede ministro della giustizia, stanno lì a testimoniare le responsabilità della politica.

Il processo contro i 31 manifestanti de L’Aquila del 24 novembre 2017, si baserà sulla violazione dell’articolo 18 comma V de RD del 18 giugno 1931, e si terrà il 18 maggio prossimo.

Questo processo potrà  diventare occasione per riprendere la parola e la critica contro un sistema politico che fa della repressione poliziesca e della barbarie del carcere, allo stesso tempo “duro” e fatiscente, gli strumenti principali per il controllo sociale.

Torino – carcere tortura/carcere assassino. Intensificare denuncia e mobilitazione

Torino – carcere tortura/carcere assassino

Torino, torture in carcere. Il pm: «Tra gli agenti c’era un clima di omertà»

Chiesto il rinvio a giudizio per 22 imputati

Tra gli agenti in servizio nel carcere di Torino c’era un clima di «omertà» come quello che si respira in un «contesto criminale». Ha usato questo paragone il pm Francesco Pelosi per descrivere la reticenza degli uomini della polizia penitenziaria coinvolti nell’inchiesta sulle presunte torture e umiliazioni a cui venivano sottoposti i detenuti. Un trattamento riservato soprattutto a coloro che stavano scontando pene per reati a sfondo sessuale. Il magistrato ha chiesto il rinvio a giudizio per 22 dei 25 imputati. In tre hanno scelto il rito abbreviato: l’ex direttore del Lorusso e Cutugno Domenico Minervini, l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza (entrambi avrebbero ignorato le segnalazioni sui maltrattamenti) e un agente. Le loro posizioni verranno discusse il 31 maggio.

Gli episodi raccontati negli atti dell’inchiesta sarebbero avvenuti tra il 2017 e il 2019. Secondo la Procura, alcuni detenuti avrebbero subito «trattamenti degradanti» e «brutali vessazioni» da parte di una «squadretta» di agenti. Nella discussione, il pm ha rimarcato: «Tranne un paio di agenti, tutti gli altri imputati hanno detto di non aver mai visto né sentito di violenze sui detenuti. È chiaro che mentono». Poi ha aggiunto: «Anche coloro che hanno rotto il silenzio e hanno ammesso di essere a conoscenza di alcuni fatti, hanno spiegato di avere paura». Adesso sarà il gup Maria Francesca Abenavoli a decidere se disporre il giudizio.

A processo per aver contestato Salvini, solidarietà ai compagni di Genova

contestare Salvini è sempre giusto e necessario – difenderlo con la polizia invece non lo e’

Contestarono un comizio di Salvini a Genova nel 2015, a processo dopo 7 anni

Il corteo dei centri sociali era arrivato fino accanto al Carlo Felice. Da lì un gruppo aveva cercato di avvicinarsi al palco tra lanci di oggetti, fumogeni e cariche di alleggerimento della polizia

Genova. Dieci manifestanti considerati responsabili degli scontri con la polizia in occasione di un comizio elettorale del leader della Carroccio Matteo Salvini che si tenne in Largo Pertini a Genova il 26 maggio 2015 saranno processati a distanza di sette anni dai fatti. L’udienza preliminare che si è tenuta nei giorni scorsi, ha infatti fissato l’inizio del processo per il prossimo 8 giugno.

I reati ipotizzati sono a vario titolo resistenza aggravata, imbrattamento, getto di cose pericolose e travisamento. E se gli ultimi tre reati saranno sicuramente prescritti prima della fine del processo, la resistenza ha una prescrizione molto lunga, ben 15 anni, e pene molto pesanti, teoricamente fino a 15 anni di reclusione.

Gli scontri di quel lontano maggio, in cui Salvini venne a Genova a chiudere la prima campagna elettorale dell’attuale governatore Giovanni Toti, nacquero dopo che dal corteo dei centri sociali, che si era avvicinato fino allo sbarramento delle forze dell’ordine nei pressi del teatro Carlo Felice, un folto gruppo di manifestanti aveva cercato di avvicinarsi al palco dove parlava il leader della Lega dopo aver lanciato petardi e uova all’indirizzo delle forze dell’ordine.

Rigettata la richiesta di sorveglianza speciale per i due attivisti cosentini Jessica e Simone

Da Osservatorio repressione

Il tribunale di Catanzaro ha rigettato la richiesta di sorveglianza speciale avanzata nei confronti di Jessica e Simone, ritenendole assolutamente infondate. Ancor prima della sentenza, finanche la PM aveva richiesto in sede di udienza il rigetto della richiesta. Una decisione chiara che sbugiarda clamorosamente i vertici della questura di Cosenza.

L’attacco si conferma essere stato mosso da una chiara volontà politica di fermare le battaglie sociali presenti nel nostro territorio e coloro che le animano. Silenziare il dissenso, infatti, rappresenta a tutti gli effetti una priorità per la questura di Cosenza e una necessità per tutti quei potentati politico-affartistici che, operando con la connivenza della locale Procura, in Calabria detengono il potere grazie allo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, alla attenta distruzione del servizio sanitario pubblico e di tutto il welfare regionale.

Il teorema partorito dalla Questora  Petrocca e dal Capo della DIGOS De Marco è semplice: nulla in questa terra deve cambiare e gli interessi criminali dei soliti noti vanno tutelati a costo di soffocare le libertà democratiche di chi denuncia le terribili condizioni in cui siamo costretti a vivere.

Questa vicenda ci costringe a porci alcune domande urgenti:

E’ accettabile tollerare che il denaro pubblico venga così utilizzato da chi teoricamente dovrebbe fare gli interessi della collettività, mentre di fatto si adopera per architettare questi assurdi procedimenti giudiziari?

Possiamo sopportare che questi pseudo funzionari rimangano indisturbati a capo di una questura della Repubblica? Le conclusioni non possono che essere le dimissioni del Capo della DIGOS De Marco e della Questora Petrocca, reazionari e nemici della democrazia.

Se c’è qualcuno di socialmente pericoloso, dopo questa storia i cosentini e le cosentine sanno dove trovarli: in alcune stanze di via Palatucci 8.

Negli ultimi mesi, la città non ha esitato a sollevarsi schierandosi con convinzione dalla parte delle lotte sociali, dalla parte di chi si impegna ogni giorno per costruire un reale cambiamento, di cui questo territorio ha vitale bisogno. I pochi che, invece, non hanno preso posizione, sperando in un esito differente, al netto dei proclami, si sono confermati essere parte del sistema di cui dobbiamo urgentemente liberarci.

Contro la nuova inquisizione, Cosenza ha risposto in maniera chiara e inequivocabile, svelando il suo volto migliore e questo nessuno potrà dimenticarlo.

Questa vittoria, ci indica la necessità di continuare nella costruzione collettiva di una città più giusta con chi in questi mesi è stato al nostro fianco, perché si restituisca a tutti e a tutte diritti e dignità.

Questa vittoria, ci indica la necessità di continuare nella costruzione collettiva di una città più giusta con chi in questi mesi è stato al nostro fianco, perché si restituisca a tutti e a tutte diritti e dignità.” A Radio Onda d’Urto  Simone di Prendocasa Cosenza. Ascolta o Scarica

Speciale Sorveglianza

Prigionieri palestinesi in sciopero della fame dal 25 marzo chiedono di sostenere la loro protesta

Il Comitato Superiore di Emergenza per i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane ha invitato il popolo palestinese a sostenere le iniziative di protesta che dovrebbero iniziare il 25 marzo.  sciopero della fame a partire dal 25 marzo per protesta contro le misure punitive israeliane.

Il comitato ha inoltre invitato il popolo palestinese a ribellarsi a sostegno della giusta battaglia dei prigionieri contro l’oppressione israeliana.

Il National Captive Movement aveva precedentemente dichiarato che si stava preparando per uno sciopero della fame di massa in tutte le carceri israeliane, sottolineando che la lotta dei prigionieri palestinesi sarebbe continuata fino a quando non avessero ripristinato pienamente i loro diritti.

“La rivolta delle carceri ha iniziato a far fronte alle misure repressive che il servizio carcerario israeliano ha perseguito contro i prigionieri”, ha affermato il Captive Movement.

4.500 prigionieri palestinesi attualmente languiscono nelle carceri israeliane, tra cui 34 donne, 180 minori e circa 500 detenuti amministrativi.