La “Giornata di azione” del 15 gennaio è importante anche per la solidarietà con le lotte per il diritto alla salute delle persone detenute

Da osservatorio repressione:

La “Giornata di azione” del 15 gennaio, decisa dalle assemblee delle donne/lavoratrici, è importante anche per la solidarietà con le lotte per il diritto alla salute delle persone detenute

Nel ricco dibattito che ha animato le 2 assemblee nazionali del 17 settembre e 19 novembre abbiamo denunciato, nel quadro dell’attuale crisi economico-pandemica, la condizione che vivono le donne e altre soggettività rinchiuse all’interno delle carceri e dei CPR – luoghi emblematici di questo sistema capitalista-razzista-patriarcale.

Ma abbiamo anche parlato delle loro lotte e del protagonismo, nelle proteste in solidarietà alle detenute e ai detenuti, delle tante donne – madri, sorelle, figlie, compagne, solidali – che anche dopo le rivolte nelle carceri continuano da fuori a chiedere che le/i loro familiari siano trattati/e come tutte le altre persone, stando a casa nel periodo dell’emergenza.

Abbiamo quindi promosso una “Giornata di azione” per il 15 gennaio, con al centro la piattaforma delle donne/lavoratrici, in cui sono formalizzate ed espresse anche le istanze delle detenute e delle familiari di proletar* prigionier*.

La giornata di azione del 15 gennaio deve servire a dar spazio, voce e visibilità anche alle richieste delle detenute, a quelle mamme che ancora oggi sono costrette a vivere in carcere con i loro bambini, a tutte quelle donne che vivono nel ricatto di rappresaglie sui loro cari in galera se provano ad alzare la testa e a quelle che, nonostante i ricatti, continuano a battersi perché il diritto alla salute sia garantito anche alle detenute e ai detenuti.

Chiaramente la giornata va costruita e articolata secondo la situazione concreta e le lotte in corso, ma anche nelle situazioni in cui ci troviamo isolate e sembra che nulla si muova,  possiamo dare ognuna un contributo, anche in maniera creativa.

Ci è piaciuta ad esempio l’idea di attraversare ogni zona rossa/gialla/arancione che sia, con foto di cartelli o striscioni che riportino, con la dicitura “15 gennaio Giornata di azione:” le richieste delle e dei detenut*, i loro bisogni e quelle delle loro familiari e solidali. E sarebbe bello che questi cartelli li tenessero in mano tutt*, dalle donne, dalle lavoratrici alle ragazze, alle immigrate, alle libere soggettività, alle familiari dei detenuti e delle detenute. Potremmo ad esempio farci un album, non solo da pubblicare fuori come testimonianza di partecipazione alla giornata di azione e come segnale di lotta unitaria per future scadenze di mobilitazioni nazionali (29 gennaio ad esempio, che è sciopero generale), ma anche da inviare dentro le carceri come forma di solidarietà e/o affetto, per rompere l’isolamento, per dare una speranza a chi non ne ha.

Chiediamo quindi a tutte le donne solidali, alle libere soggettività, alle familiari delle detenute e dei detenuti, di metterci di nuovo la faccia, il cuore e la voce in questa giornata del 15 gennaio, perché sia davvero una giornata di azione nazionale unitaria che guardi a 360° a tutti gli aspetti della nostra vita.

Perché sia ancora una giornata di sole che illumini con le parole, le voci, i volti della solidarietà e dell’umanità il freddo silenzio di questo inverno/inferno di stato

No al carcere tortura/assassino! – Il 15 dicembre: Svuotate le carceri!

 

Sollicciano, il carcere delle torture: ”Botte dagli agenti e l’ispettrice rideva”

Il segnale lo dava l’ispettrice, nel suo ufficio trasformato in camera della tortura. Un cenno con la testa, «dall’alto al basso», sufficiente a scatenare la squadra di agenti. Calci, pugni sul volto, ginocchia premute sulla schiena fino a spezzare le costole. «Lei vedeva che mi picchiavano e rideva», racconta un detenuto. Succedeva anche questo, secondo l’accusa, tra le mura del carcere fiorentino di Sollicciano. Nove guardie penitenziarie sono state raggiunte da misure cautelari con le accuse di tortura e per una serie di falsi commessi per coprire gli abusi. Agli arresti domiciliari sono finiti in tre, l’ispettrice Elena Viligiardi, considerata «l’istigatrice del reato di tortura», l’assistente capo Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo.
Per altre sei persone sono scattati l’obbligo di dimora nel Comune di residenza e l’interdizione per un anno dai pubblici uffici, mentre un decimo agente risulta indagato a piede libero.
Al centro delle indagini della pm Christine Von Borries e del nucleo investigativo della penitenziaria i pestaggi subiti da un detenuto marocchino e da uno italiano: il primo costretto a farsi visitare in ospedale per la frattura di due costole, l’altro per un timpano perforato. Tutto sarebbe avvenuto nell’ufficio dell’ispettrice, su sua espressa indicazione, come punizione per intemperanze di poco conto.
Decisive le immagini delle telecamere di sorveglianza del carcere, ma anche le intercettazioni ambientali: «Gli hanno dato delle mazzate talmente forti che gli hanno rotto due costole», diceva un agente riguardo l’aggressione al detenuto nordafricano. «Quello era secco come un tavolo – commentava un collega – può essere che quando gli stai sopra con le ginocchia… ci sta che gliele sfondi due costole».
Drammatiche anche le testimonianze dei due detenuti. L’italiano, un cinquantenne, sarebbe stato picchiato dopo aver chiesto in modo insistente «di restare ancora un’ora all’aria libera»«Dopo pochissimi minuti – racconta nelle carte dell’inchiesta – sono stato chiamato dall’assistente e sono entrato nell’ufficio del capo posto e dentro era presente l’ispettrice (…) ho notato la Viligiardi che faceva un cenno con la testa facendo un cenno di assenso dall’alto al basso alle persone che erano dietro di me. A quel punto sono stato bloccato, il capo posto, grosso, pelato, alto, mi ha preso da dietro il collo e ha stretto impedendomi di muovermi e stringendo forte al punto che non riuscivo bene a parlare e respirare». E ancora: «Altri uomini, forse tre o quattro che in quel momento non vedevo, mi hanno preso i polsi dietro di me e mi tenevano per le gambe. Il capo posto mi ha sferrato un pugno tra la tempia e la mascella sinistra».
Stessa sorte per detenuto marocchino, minacciato («Ti facciamo il c…, ti massacriamo»), pestato a sangue e poi, in un secondo momento, prima della visita in infermeria, costretto a spogliarsi e a restare nudo per diversi minuti. «Ecco la fine di chi vuole fare il duro», gli avrebbe detto un agente.
Nell’inchiesta, infine, sono finite anche le presunte manovre dell’ispettrice per sviare le indagini, organizzando un fronte comune con i colleghi, e il tentativo – non riuscito – di trovare «appoggi esterni per stabilire un contatto qualificato con il nucleo investigativo centrale, da cui dipende l’articolazione regionale che svolgeva le indagini, utile a rallentare- smorzare l’attività in corso».