Agente penitenziario condannato per tortura a seguito delle violenze su un detenuto avvenute nel carcere di Ferrara.

E’ il primo funzionario pubblico condannato in Italia per questo reato.

Il comunicato dell’associazione Antigone:

carceri“Quella di oggi per i fatti relativi alle violenze avvenute nei confronti di un detenuto nel carcere di Ferrara è la prima condanna di un funzionario pubblico per il delitto di tortura, introdotto nel codice penale italiano nel 2017.

Non si gioisce mai per una condanna e non gioiamo neanche in questo caso, ma affermiamo comunque che la decisione di oggi ha un sapore storico. La tortura è un crimine orrendo, inaccettabile in un Paese democratico. La condanna, seppur in primo grado, mostra come la giustizia italiana sia rispettosa dei più indifesi. Si tratta di una sentenza che segnala come nessuno è superiore davanti alla legge. La legge vale per tutti, cittadini con o senza la divisa. E’ questo un principio delle democrazie contemporanee.

Fortunatamete ora esiste una legge che proibisce la tortura. In passato fatti del genere cadevano nell’oblio. E’ importante che tutti gli agenti di Polizia penitenziaria si sentano protetti da una decisione del genere, che colpisce solo coloro che non rispettano la legge.

Antigone ha a lungo combattuto per avere questa legge, con l’ultima campagna “Chiamiamola tortura” avevamo raccolto oltre 55.000 firme a sostegno di questa richiesta. Ora possiamo dirlo, la tortura in Italia esiste, purtroppo viene praticata, ma ora viene anche punita”.  Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Albenga, morto in cella, un altro detenuto rivela ai pm: “Ho sentito Emanuel che urlava ‘aiuto, basta’”

Una delle foto del corpo di Emanuel Scalabrin depositata nel fascicolo d’indagine della procura di Savona 
Il tragico decesso di Emanuel Scalabrin avvenuto a dicembre nella caserma dei carabinieri. In esclusiva il referto medico di una visita al pronto soccorso durata appena tre minuti. Possibili a breve i primi avvisi di garanzia. L’ipotesi dell’omissione di soccorso

Con la testimonianza di un altro detenuto, il caso della morte del 33 enne Emanuel Scalabrin, avvenuta in circostanze ancora misteriose in una cella della caserma dei carabinieri di Albenga, imbocca, almeno per ora, la strada più scabrosa.
Perché se fino ad oggi le domande e i dubbi sul decesso di Scalabrin ruotavano attorno a una serie di situazioni  che qualcuno poteva anche spingersi a definire una sfortunata concatenazione di eventi,  dopo le due ore di interrogatorio di Paolo Pelusi, l’inchiesta avviata dalla procura di Savona si apre a nuovi scenari. E se il fascicolo d’indagine inizialmente procedeva nei confronti di ignoti, ora potrebbe presto far registrare l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni dei militari che si sono avvicendati nei turni di guardia  nelle ore della detenzione e del decesso di Scalabrin.

“Scalabrin urlava “aiuto”
Pelusi, che ha 57 anni e una vita segnata dallo spaccio e dal consumo di droga, ha raccontato che nel pomeriggio del 4 dicembre, mentre era stato fatto uscire dalla cella e portato in una stanza sotto sorveglianza di due militari, aveva sentito le grida di Scalabrin. «Urlava “aiuto, aiuto, basta”, non ho visto cosa gli succedeva ma lui chiedeva aiuto». Pelusi ha aggiunto di essere stato picchiato dentro la caserma della compagnia da un carabiniere che lo avrebbe colpito anche con un bastone sui fianchi.
Pelusi, che è assistito dall’avvocato Andrea Cechini non ha sporto denuncia ma ora spetterà ai pm savonesi Chiara Venturi ed Elisa Milocco stabilire se nei suoi confronti siano state commesse violenze o abusi da parte dei carabinieri.

La vicenda è evidentemente tanto scottante quanto scivolosa. Pelusi è un testimone “facile” da smontare in un eventuale contenzioso: tossicodipendente, pluripregiudicato, per di più era stato arrestato con Scalabrin nell’ambito della stessa indagine: insomma, inaffidabile.
Ma proprio il suo curriculum di lunga convivenza nel milieu criminale lo rende un soggetto attento alle dinamiche e ai rapporti con le forze dell’ordine. Insomma, Pelusi, a meno che non venga ritenuto incapace di intendere e di volere, è certamente consapevole che una calunnia nei confronti dei carabinieri potrebbe diventare un marchio a vita. Inoltre, a quanto risulta, non avrebbe chiesto contropartite o benefici per le sue dichiarazioni rilasciate al termine dell’interrogatorio cui è stato sottoposto nel carcere di Imperia dalle due pm. Esiste naturalmente una terza opzione:  quella di un equivoco su quanto sentito.

Come è morto Emanuel?
Emanuel Scalabrin viene  arrestato alle 12.55 del 4 dicembre assieme ad altre persone fra le quali la sua compagna Giulia, madre del loro bambino, e appunto Pelusi. Scalabrin viene fermato nella sua abitazione perché trovato in possesso di cocaina e hashish. Nel verbale i carabinieri spiegano che ha opposto resistenza, si è ribellato e che il suo arresto è stato complicato. La sua compagna lo racconta da un’altra visuale: quello di un uomo a lungo bloccato sul letto, ammanettato e immobilizzato al punto di essersi defecato e urinato addosso.
Poi l’ingresso nella caserma dalla quale uscirà cadavere il mattino seguente. Verso le 21 Scalabrin  accusa un malessere e i carabinieri fanno intervenire la guardia medica. La dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta. Consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. I carabinieri seguono le indicazioni della Guardia Medica e accompagnano Scalabrin al pronto soccorso di Pietra Ligure. La permanenza nell’ospedale è uno degli elementi oggetto di approfondimento dell’inchiesta del pm Chiara Venturi. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In soli tre minuti, riferisce il referto,  gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone – che la madre di Scalabrin aveva consegnato ai carabinieri – e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”.

Tre minuti. Il referto dell’ospedale Santa Corona. Scalabrin viene sottoposto a visita nel pronto soccorso e gli viene somministrato il metadone, tutto in soli 3 minuti. 

Pelusi varca la soglia della cella alle 17.30 e pochi minuti dopo i carabinieri entrano per farsi consegnare involucri di droga che si sono accorti aveva nascosto in bocca. Attorno alle 18 a causa di una ferita sulla schiena legata ad un suo recente intervento chiede e ottiene di essere visitato. Una squadra del 118 lo medica una mezz’ora dopo. Nel turno notturno il carabiniere di servizio spiega nel verbale di aver notato come Pelusi fosse in stato di agitazione “dovuto probabilmente all’astinenza dell’assunzione di stupefacenti”. Alle 3 arrivava una dottoressa della guardia medica che somministrava a Pelusi un farmaco contro l’ipertensione. Durante queste fasi il militare riferisce di aver notato come Scalabrin dormisse nella sua cella russando “in maniera molto rumorosa”. L’ultima riscontro di Scalabrin in vita è, a stare al verbale, alle 4 quando viene svegliato con Pelusi per andare in bagno.
Solo alle 10.30 del mattino il carabinieri entrato in servizio si accorge che Scalabrin è morto. Il militare entra nella cella per farlo andare al colloquio con il suo avvocato ma non ottiene risposta. Alle 11.20 il medico certifica il decesso. Sul referto la possibile causa di morte viene indicata in “abuso di sostanze, accertamenti da esperire”.

L’impianto video della caserma non aveva hard disk
I famigliari di Emanuele vogliono capire se Emanuele possa essere morto per eventuali lesioni riportate durante l’arresto o se comunque non abbia ricevuto in cella l’assistenza adeguata. I loro sospetti sono basati su alcuni punti. Il primo è l’assenza dei video della notte. L’impianto di video sorveglianza funzionava ma non registrava, perché non era presente un hard disk, come scopre un perito incaricato dalla procura. Gli inquirenti vogliono capire se fosse una caratteristica dell’impianto e, in caso, se questa sia una una situazione regolare.
La famiglia di Emanuele, che è assistita dagli avvocati Lucrezia Novaro e Giovanni Sanna dello studio di Gabriella Branca (e hanno come consulente il medico legale Marco Salvi) attende nei prossimi giorni i risultati dell’autopsia. La presenza di macchie ipostatiche su alcune parti del corpo non sono di per sé indicative di traumi bensì sono gli indicatori di una compressione del corpo. Servono però a definire il possibile orario ella morte, che è stato stimato nelle tre ore precedenti. I familiari si chiedono come sia stato possibile che una persona che già era stata sottoposta a visita e a un trattamento poche prima, non sia stata sorvegliata con maggiore attenzione e la sua morte sia stata scoperta solo per caso ben tre ore dopo.

Sulla morte di Emanuele ha annunciato la presentazione di un’interrogazione parlamentare  il portavoce nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni mentre la Comunità di San Benedetto è stata la prima a chiedere verità sul caso Scalabrin.

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Palermo, striscione davanti al carcere, dove si è sviluppato un focolaio con 31 detenuti positivi

Srtiscione davanti al carcere Pagliarelli di Palermo.

“Garantire distanziamento e rispetto della vita nelle carceri”. Uno striscione davanti il Pagliarelli firmato Antudo. È di ieri la notizia del focolaio all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo. Sono attualmente 31 i detenuti risultati positivi al Covid-19 e questa mattina davanti la casa circondariale è apparso lo striscione.

“L’esplosione di un focolaio all’interno delle carceri era stato oggetto di dure proteste da parte dei detenuti nei mesi precedenti. “Nonostante fosse prevedibile la diffusione incontrollata del Covid-19 all’interno delle carceri – sostiene Antudo -, non si è fatto il necessario per scongiurare questa eventualità. È soprattutto il sovraffollamento e la scarsa igiene a non consentire misure di prevenzione adottate all’esterno come il distanziamento sociale”. “Anche ai detenuti va garantito il diritto alla vita e alla salute. Per questo e per tanti altri motivi bisogna emettere subito provvedimenti straordinari come l’Amnistia e l’indulto”.

Il tampone ieri ha confermato il sospetto. “Ci sono 31 detenuti positivi – affermava Francesca Vazzana direttrice del carcere Lorusso di Pagliarelli – ma di più non posso dire”. Pare che il focolaio sia partito tra i detenuti comuni che hanno continuato ad avere i colloqui con le famiglie. Nonostante le raccomandazioni e gli inviti a mantenere le distanze, qualcuno si sarebbe avvicinato alla moglie e ai figli e da qui il passaggio del virus che ha contagiato diversi reclusi. in questo momento ci sarebbe una zona rossa all’interno della struttura detentiva nel Reparto Pianeti. Si stanno effettuando i tamponi a tutti i carcerati per cercare di limitare il focolaio.

Proprio in questi giorni il garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti Giovanni Fiandaca aveva scritto al presidente della Regione Nello Musumeci e all’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza per chiedere di inserire i detenuti e gli agenti penitenziari e il personale che lavora negli istituti nella campagna vaccinale.

Svuotate le carceri! Un video per il 15 gennaio che sollecita un’azione di massa

15 gennaio – Una “Giornata di azione” con al centro la piattaforma delle donne/lavoratrici, in cui sono formalizzate ed espresse anche le istanze delle detenute e delle familiari di proletar* prigionier*. La giornata di azione del 15 gennaio deve servire a dar spazio, voce e visibilità anche alle richieste delle detenute, a quelle mamme che ancora oggi sono costrette a vivere in carcere con i loro bambini, a tutte quelle donne che vivono nel ricatto di rappresaglie sui loro cari in galera se provano ad alzare la testa e a quelle che, nonostante i ricatti, continuano a battersi perché il diritto alla salute sia garantito anche alle detenute e ai detenuti. Proponiamo di di attraversare ogni zona rossa/gialla/arancione che sia, con foto di cartelli o striscioni che riportino, con la dicitura “15 gennaio” le richieste delle e dei detenut*, i loro bisogni e quelle delle loro familiari e solidali. E sarebbe bello che questi cartelli li tenessero in mano tutt*, dalle donne, dalle lavoratrici alle ragazze, alle immigrate, alle libere soggettività, alle familiari dei detenuti e delle detenute. Potremmo ad esempio farci un album, non solo da pubblicare fuori come testimonianza di partecipazione alla giornata di azione e come segnale di lotta unitaria per future scadenze di mobilitazioni nazionali (29 gennaio ad esempio, che è sciopero generale), ma anche da inviare dentro le carceri come forma di solidarietà e/o affetto, per rompere l’isolamento.

La Musica del video è tratta da “Pensaci”, il videoclip ideato e girato all’interno del carcere di Milano Bollate, con la collaborazione della Cooperativa Sociale articolo 3 nell’ambito del progetto Ritorno al futuro. Voci, testo e musica sono di giovani detenuti.

musiche e testi: Marco Carboni

testi e voci:

Joaquin Castillo, Pedro Gomes, Luis Lara, Idalberto Mantilla, Remi NDyaje, Stefano Ormas, Valentin Raduti, Majid Rabali, Achraf Taib

voce femminile: Giulia Fiori