L’agente la stupra in carcere e il caso è archiviato. Il pm: «colto in momento di debolezza».

Ivrea, detenuta trans accusa agente di stupro. Il pm archivia: «colto in momento di debolezza»

A pochi giorni dello sconvolgente video che immortala le guardie penitenziarie del carcere di Santa Maria Capua Vetere umiliare e prendere a manganellate decine di detenuti, un altra accusa di abuso da parte di un agente arriva dalla Casa Circondariale di Ivrea, dove una detenuta trans lo ha querelato per una presunta violenza sessuale.

La donna sostiene di essere stata costretta a praticare dei rapporti orali in diverse occasioni: «Mi diceva che se non l’avessi fatto mi avrebbe rovinato, che mi avrebbe fatto perdere il lavoro o avrebbe fatto trasferire il mio compagno (ora ex, ndr)». A prova dell’avvenuto rapporto, la detenuta ha portato un pezzo di carta igienica, sul quale la Scientifica della Questura ha trovato una corrispondenza genetica con la guardia.

«Ho avuto un momento di debolezza – sostiene l’uomo – mi ha fatto delle avances e io ho ceduto facendomi masturbare in un’occasione. Voleva ottenere piccole agevolazioni in carcere». Agevolazioni che l’indagato non avrebbe poi concesso nonostante il rapporto sessuale.

Nonostante la prova del DNA, tuttavia, il pm ha chiesto l’archiviazione del processo, prendendo per buona la versione dell’agente. «Non vi è prova che lo sperma acquisito dalla parte offesa sia frutto di violenza sessuale ai suoi danni, perpetrata anche solo mediante abuso di autorità – si legge nella richiesta accolta dal gip – quanto invece che possa pervenire da quel rapporto sessuale che il querelante avrebbe praticato all’indagato cogliendolo di sorpresa in un momento di debolezza».

A incidere sull’inattendibilità della donna ci sarebbero altre quattro denunce per molestie presentate dalla stessa, la versione dell’ex che non credendo agli abusi l’ha lasciata, e le annotazioni di servizio che la descrivono come un «soggetto difficile». Il caso si chiude senza ulteriori approfondimenti.

E’ iniziato questa mattina il processo per evasione a carico di Nicoletta Dosio, alla quale esprimiamo tutta la nostra vicinanza

Tante e tanti No Tav si sono dat* appuntamento di fronte al Tribunale di Torino per portarle la solidarietà del Movimento e per non lasciarla sola di fronte all’ulteriore episodio di accanimento giudiziario nei suoi confronti.
Per l’ennesima volta ci troviamo di fronte all’operato criminale di procura e magistratura che tentano di processare le idee e le convinzioni che muovono il Movimento No Tav da ormai 30 anni.
La libertà di dissenso e di espressione non si possono processare!
Forza Nicoletta!

Morti nel carcere di Modena, “Picchiati a sangue, spostati come bestie”, e poi gli assassini in divisa si sentono minacciati da 2 striscioni!

Da La Stampa, di Giuseppe Salvaggiulo
Per Procura e gip i nove decessi dopo la rivolta sono stati causati da overdose di farmaci. “Le ferite? Lievi e irrilevanti”. Ma ora sei detenuti raccontano di “pestaggi di massa e commando di agenti”. E una perizia denuncia: indagini carenti.
Due esposti che denunciano pestaggi, testimonianze su violenze e mancati soccorsi, una consulenza scientifica sulle autopsie riaprono il caso Modena, facendo ipotizzare che in quel carcere, nel marzo 2020, dopo una “grave rivolta” sia accaduto qualcosa di più rispetto alla “semplice” morte di nove detenuti causata da “overdose di metadone e di sostanze psicotrope”, come finora ricostruito nella prima inchiesta recentemente archiviata dal gip su richiesta della Procura.
Una seconda inchiesta della Procura di Modena è aperta sui pestaggi. Alcuni detenuti sono stati interrogati. I fatti, così come ricostruiti dalla Procura, risalgono all’8 marzo. La mattina viene ufficializzato il primo caso di positività al Covid. Alle 13 comincia la rivolta: saccheggi, incendi, tentativi di evasione. Alle 16 viene assaltata l’infermeria, i detenuti “riempiono forsennatamente sacchi per l’immondizia con quantitativi ingenti di farmaci che poi riportano in sezione”. Le infermiere si rifugiano sotto un letto.
Seguono “colluttazioni e risse” tra detenuti per accaparrarsi compresse di psicofarmaci distribuite “come caramelle” e flaconi di metadone bevuti “a canna”. Alcuni vengono portati fuori “in stato di apparente coma”, rianimati o ricoverati in ospedale in una situazione da “emergenziale assimilabile alla medicina da campo da guerra”. In serata, a rivolta non ancora sedata, su 546 detenuti ne vengono trasferiti 417. Nove muoiono: cinque a Modena (tre la stessa sera, due il 10 marzo); gli altri nelle ore successive al trasferimento: a Verona, Alessandria, Parma, Ascoli. Sei tunisini, un marocchino, un moldavo, un italiano. Procura e gip riconducono le morti alla “massiccia, incongrua e fatale assunzione di metadone”.
Ininfluenti escoriazioni ed ecchimosi su schiena, braccia, gambe, labbra e occhi, in quanto “superficiali, di limitate dimensioni e comunque compatibili con contusioni” nelle risse tra rivoltosi. Incolpevoli agenti e medici. Messa così, pare “una storia semplice”. Però parenti delle vittime, associazione Antigone e Garante dei detenuti si oppongono, per ora invano, all’archiviazione. Rilevano “gravi lacune, carenze e incongruenze investigative”, contestano la “apodittica” ricostruzione della Procura, denunciano la mancanza dei referti medici. Di più. Per conto del Garante, l’anatomopatologa Cristina Cattaneo (già impegnata nei casi Yara e Cucchi, tra gli altri) evidenzia “diverse carenze documentali”.
Contesta che sul cadavere di Ghazi Hadidi “non è stata erroneamente compiuta l’autopsia”, a dispetto di “un trauma contusivo al volto di non scarsa entità” con perdita di due denti. Che per la Procura dipende da una malattia gengivale; per la Cattaneo no, perché c’era sangue fresco in bocca. Si chiede dunque “se non vi fosse stato anche un trauma encefalico”, domanda “senza risposta in assenza di autopsia”. E su Arthur Iuzi scrive che “l’apparente modestia delle lesioni cutanee lascia spazio al dubbio che vi sia stata una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”.
Ma “anche in questo caso il dubbio non può essere fugato” senza autopsia. Mancano anche i video delle telecamere interne, perché durante la rivolta fu staccata la luce. Dunque di quanto accaduto a sera e nella notte nulla si sa. Fino a quando sei detenuti trasferiti da Modena non inviano in Procura due esposti.
Cinque detenuti italiani raccontano di aver “assistito ai metodi coercitivi” degli agenti di polizia penitenziaria: “ripetuti spari ad altezza uomo, cariche a colpi di manganelli di detenuti palesemente alterati” e in overdose. “Noi stessi dopo esserci consegnati spontaneamente senza aver opposto resistenza siamo stati privati delle scarpe, picchiati selvaggiamente e ripetutamente e fatti oggetto di sputi, minacce, insulti e manganellate. Un vero pestaggio di massa” proseguito “sui furgoni a colpi di manganelli durante il viaggio verso Ascoli” e poi il giorno dopo in cella “con calci pugni e manganellate ad opera di un commando”.
Nell’altro esposto, un detenuto marocchino ora a Forlì racconta che la sera della rivolta, nel carcere di Modena, chi si consegnava doveva passare tra due file di agenti della polizia penitenziaria. “Io volevo solo andarmene perché avevo paura. Sono uscito con le mani in alto. Nonostante ciò, alcuni agenti mi hanno bloccato. Poi mi hanno portato in sorveglianza, sdraiato e picchiato violentemente con calci pugni e manganelli”, al pari di un detenuto tunisino, “nonostante fosse ammanettato e fermo.
Ho provato a protestare per lui, ma gli agenti mi dicevano “stai zitto e abbassa la testa” e per aver parlato venivo nuovamente picchiato. A un certo punto il tunisino mi cadeva addosso. Non rispondeva. Gli agenti cominciavano a prenderlo a botte per farlo svegliare”, prima di portarlo via “come un animale, trascinandolo fuori. Ricordo il corpo che strisciava a terra. Non so dove sia stato portato”. All’esposto sono allegati i referti della visita medica successiva al trasferimento a Forlì, con “vistoso ematoma frontale e mani tumefatte, lussazioni e fratture”.
La Procura dovrà riscontrare la fondatezza di questi racconti. Destinati a non rimanere isolati. Segnalazioni arrivano ancora a Garante, associazioni e avvocati. “Siamo stati massacrati, tutte le piastrelle erano piene di sangue”, ha raccontato al TgR Rai dell’Emilia Romagna un detenuto sotto garanzia di anonimato, confermando i pestaggi prima dei trasferimenti, nel momento in cui si doveva passare “in un corridoio di quindici metri” con i poliziotti incappucciati sui due lati “che mi hanno dato tante di quelle botte che ho pensato di morire”.

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Pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, trasferiti circa 30 detenuti vittime di violenze

Invece di allontanare subito i torturatori, allontanano i torturati, che così avranno ancora più difficoltà a intrattenere i colloqui con i loro familiari.

Secondo Saviano “a non essere pestato sono stati i detenuti camorristi e i colletti bianchi della camorra e della politica” e poi aggiunge: “Ma chiediamoci quale sia il risultato di quel pestaggio. Questo: ogni detenuto sa che deve essere protetto, ogni detenuto da domani cercherà di affiliarsi, si metterà in fila per entrare in un’organizzazione criminale. Da domani borseggiatori diventeranno killer, piccoli spacciatori soldati al servizio dei cartelli, da domani chi entra in carcere sa che non lo difenderà il diritto,”

La realtà è ben diversa, non per mettere in dubbio la prima affermazione di Saviano, ma la domanda e la risposta che ad essa offre. Perché da tempo i proletari detenuti sanno che non li difenderà il diritto borghese, che aggiunge tortura (i pestaggi) a tortura (i trasferimenti); perché ora l’infame carcere di Santa Maria Capua Vetere è ancora nell’occhio del ciclone, mentre invece la dispersione dei detenuti in altre carceri, ancor di più infami non può che togliere forza ai detenuti (Modena insegna); perché basta la prima affermazione a togliere ogni dubbio sulla regia del pestaggio e degli odierni trasferimenti. Chi aveva interesse a pestare i proletari prigionieri ha oggi interesse ad allontanarli e non per timore che si affilino alla mafia o alla camorra, che tanto è protetta dallo stato, ma per smorzarne sempre di più la voce, una voce che non ha ceduto prima ai ricatti “illegali” del potere mafioso e potrebbe cedere adesso a quello “legale” dello stato. Quindi si domandi Saviano il perché di tali trasferimenti, si interroghi sulla differenza che passa tra 77 mele marce, solo a Caserta, e il meleto marcio in tutta Italia. Quale sarebbe lo “Stato di diritto” sig. Saviano? Quale la differenza tra questo e la mafia?

Ieri comunque si è tenuto intanto un presidio davanti al carcere, dove è detenuta anche la compagna anarchica Natascia Savio, ed altri striscioni sono stati appesi contro la violenza del sistema carcerario. Di seguito un report su radio onda rossa:

Pestaggio nel carcere, trasferiti circa 30 detenuti vittime di violenze

Circa 30 detenuti del Reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere ( Caserta), dove il 6 aprile 2020 avvennero violenti pestaggi di reclusi da parte della Polizia Penitenziaria, sono stati trasferiti in altre carceri campane come Carinola ( Caserta) e Ariano Irpino (Avellino) e in istituti di altre regioni, come quelli di Modena, Civitavecchia, Perugia. La decisione è stata presa dal Dap d’intesa con la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere; si tratta di detenuti vittime delle violenze ma non tutti hanno però denunciato.

«Ci chiesero di ritirare le denunce»

I detenuti che si atteggiano a moralisti. Dove si era mai visto prima? Il massacro nel reparto «Nilo» nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei reclusi doveva restare segreto. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Continue reading

E parlano di Stato di diritto e di costituzione: a Cuneo il diritto a manifestare si compra

Da due mesi a Cuneo le manifestazioni “politiche” sono diventate a pagamento e le procedure per chiedere un’autorizzazione al Comune sono ancora più complesse.

Da maggio eventi che in passato sono sempre stati gratuiti ora prevedono il pagamento di 32 euro (in marche da bollo, per la domanda e l’autorizzazione), oltre a una richiesta fatta almeno 15 giorni prima esclusivamente con posta elettronica certificata e Spid, l’identità digitale. Inoltre il nuovo regolamento comunale impedisce esplicitamente l’utilizzo di «impianti di amplificazione», come megafoni e casse.

Sul tema aveva presentato un’interrogazione nell’ultimo Consiglio comunale Nello Fierro, consigliere di Cuneo Beni Comuni: «Sembra un modo per limitare la partecipazione e l’azione democratica, per ridurre le richieste da parte di movimenti e partiti politici al di fuori del periodo elettorale». Nel dibattito erano stati critici anche i consiglieri Beppe Lauria per la minoranza («Con queste scelte giustificate le barzellette su Cuneo») e Carmelo Noto per la maggioranza («Anche a Trento, Padova o Milano hanno adottato lo stesso provvedimento, ma faccio fatica a comprenderlo»).

In Consiglio aveva risposto l’assessore alle attività produttive Luca Serale: «Abbiamo solo aggiornato il regolamento comunale recependo una norma del 2018 che prevede quali eventi possono essere esentati o meno dal pagamento. Il divieto di usare megafoni e amplificatori? C’è sempre stato, l’abbiamo semplicemente ribadito».
I Radicali non sono presenti in Consiglio comunale e oggi protesteranno con in sit-in. Il segretario Filippo Blengino: «A Cuneo l’iter per ottenere il suolo pubblico per manifestazioni politiche è divenuto complessissimo, come per una pratica edilizia. Ma la digitalizzazione della pubblica amministrazione dovrebbe semplificare le procedure, non renderle più complesse. Sono idee che possono venire in mente solo a chi è abituato a fare politica nel palazzo».

Contro le violenze poliziesche, siamo con la rete antifascista di Pavia

La Rete Antifascista di Pavia ha protestato “in ginocchio contro le violenze razziste della Polizia”. 

Davanti alla Questura, dalle 10.30, il presidio di FdI con lo striscione con la scritta “Le forze dell’ordine dalla violenza ci difendono“. Paola Chiesa, segretario del partito a Pavia, ha bollato come “un gesto inaccettabile” la protesta organizzata per il pomeriggio, nella centralissima piazza della Vittoria, dalla Rete Antifascista.
Appuntamento poi alle 18.30 per l’iniziativa “in solidarietà ai ragazzi aggrediti dalla polizia in piazza Sant’Eustorgio a Milano – come spiegano gli organizzatori – in quello che non esitiamo a definire un esempio di razzismo di Stato e di abuso poliziesco“. In una piazza neppure troppo affollata con la complicità del meteo incerto, una quindicina di militanti antifascisti, un po’ snobbati dai pavesi ai tavolini in piazza per l’aperitivo, hanno voluto simbolicamente rivendicare che “le violenze delle forze dell’ordine, a vent’anni dal G8 di Genova, sono una costante anche in Italia. Abbiamo visto tutti i video impressionanti delle torture al carcere di Santa Maria Capua Vetere, che hanno condotto all’arresto di ben 52 guardie riprese mentre violavano sfacciatamente i diritti dei detenuti”.

Non si tratta di 52 mele marce, il pestaggio è di stato… che al solito segue la pista anarchica e rimuove un ironico striscione con il simbolo dei centri sociali occupati

Dalla stampa

Violenze in carcere: gip, ‘si tentò alterazione video’

Minacce agli agenti con uno striscione su un cavalcavia a Roma, preoccupazione tra gli agenti della penitenziaria

Tra gli episodi di depistaggio emersi nell’indagine sulle violenze nei confronti dei detenuti commesse dagli agenti della Penitenziaria al carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), secondo l’accusa ci fu anche il tentativo di modificare i video delle telecamere interne per falsare la rappresentazione della realtà del 6 aprile 2020, giorno dei violenti pestaggi.

E su un cavalcavia a Roma è stato trovato uno striscione, “52 mele marce? Abbattiamo l’albero!”, con il simbolo di un movimento anarchico. Lo striscione, secondo quanto si è appreso, è stato poi successivamente rimosso.

La frase, minacciosa, ha destato forte preoccupazione in agenti della Polizia Penitenziaria che hanno riferito del fatto. Lo striscione fa riferimento ai 52 poliziotti penitenziari destinatari di misure cautelari emesse per i pestaggi dei detenuti avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta).

Da Lotta Continua

Il pestaggio di Stato

“Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle condizioni delle sue carceri” scrivevano Voltaire e Dostoevskij, un aforisma quanto mai valido nel tempo attuale quando le barbarie carcerarie si mostrano come una parte rivelatrice di quelle sociali.

Quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, come rivelato dai video pubblicati dal quotidiano Domani, non può essere derubricato come una situazione sfuggita di mano. Si tratta di un pestaggio di Stato. Le vittime della violenza sono detenuti per reati comuni, alcuni dei quali con problemi mentali e di tossicodipendenza. Nessun recluso della cosiddetta “alta sicurezza”, legata al crimine organizzato, è stato fatto oggetto del pestaggio.

Queste immagini ci riportano esattamente a 20 anni fa, nei giorni del G8 di Genova, nelle giornate della macelleria messicana. Ci riportano anche più indietro nei giorni delle sevizie e nelle torture contro i detenuti politici fra gli anni 70 e 80.

I video del carcere di Santa Maria Capua Vetere non ammettono amnesie o giravolte. L’uso indiscriminato di una violenza del tutto gratuita sta nelle immagini bestiali degli agenti che urlano di voler abbattere i detenuti come dei vitelli, di voler domare il “bestiame”, che calano sui detenuti chiavi e picconi. Quanto si vede nei filmati non sono supposizioni o denunce di parte di quei pochi organismi che si fanno carico di denunciare le condizioni della carcerazione nel nostro Paese. I detenuti sono stati fatti uscire dalle celle uno alla volta e sono stati pestati all’interno e all’esterno dei corridoi, un pestaggio premeditato durato alcune ore, coperto da chi avrebbe dovuto vigilare e intervenire. Ancora una volta la struttura carceraria ha prodotto la barbarie contro i “dannati della Terra”.

Questo è quanto si evince anche dalle carte della magistratura che ha disposto 52 misure cautelari tra arresti e interdizioni, misure che colpiscono non solo gli agenti, ma anche i dirigenti. Fra questi il Provveditore regionale per le carceri della Campania. Il ministro della giustizia Bonafede non ha rimosso il Provveditore, l’attuale ministra Cartabia lo ha fatto solo quando si è mossa la magistratura con il provvedimento di interdizione.

Bonafede ha molte cose da spiegare ai detenuti e a tutta l’opinione pubblica, così il suo successore che pure oggi dichiara di volere un “rapporto completo” e di volersi attivare perché “i fatti non si ripetano”. Ma è tutta la rete di comando che ha responsabilità gravissime in quello che è accaduto. Non si tratta di “poche mele marce”: quali erano le mele sane nei fatti di Santa Maria Capua Vetere?

Le carceri italiane sono sovraffollate, i detenuti vivono in condizioni disumane in edifici spesso vecchi e fatiscenti, ma è il sistema della carcerazione che va messo sotto accusa.

Le forze politiche di destra sostengono senza dubbio alcuno gli agenti di polizia penitenziaria, Salvini ha portato di persona la sua solidarietà. Non è un caso che chiedano la cancellazione del reato di tortura. Ma se la destra copre le violenze dei secondini, la cosiddetta sinistra non ha meno responsabilità se consideriamo il suo disinteresse per i problemi carcerari, se pensiamo ai “decreti sicurezza” inaugurati da Minniti e su cui si è in seguito inserito Salvini.

Infine, è motivo di riflessione il comportamento dei sindacati della polizia penitenziaria. Dal SAP, di cui conosciamo le posizioni fin dai tempi di Aldrovandi, alla Uil, fino alla Funzione Pubblica della CGIL. Tutti hanno espresso solidarietà verso i poliziotti arrestati o si sono fermati alla leggenda delle “poche mele marce”. Da parte loro nemmeno il pudore di un’autocritica, neanche di fronte all’evidenza dei filmati.

I “dannati della Terra” sono vittime di violenze inaudite, forse non sarà sufficiente un nuovo regolamento di vita penitenziaria che sarebbe, come scrive l’associazione Antigone, un segnale di tangibile cambiamento che tuttavia non pare possibile in un mondo politico da anni silente e complice davanti alle violenze di Stato.