Violenze e torture in carcere: tutte le denunce da Torino a Santa Maria Capua Vetere

Da Osservatorio repressione

Torture, abusi, omissioni e pestaggi non sono opera solo della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Indagini per violenze in carcere sono aperte un po’ in tutta Italia: da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando per Pavia, Voghera, Modena, Ferrara, Firenze, Viterbo e Lucera. Ecco una mappa di quel che sta succedendo

Non solo Santa Maria Capua Vetere e la mattanza nel carcere casertano, il carcere dell’ultimo scandalo. Torture e abusi e omissioni sono stati denunciati da persone detenute in altri istituti distribuiti in mezza Italia, prima e dopo le rivolte di marzo e aprile 2020.

Da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando per FerraraFirenzeViterboLuceraMorti anomale, rubricate come suicidi, overdose, decessi per cause naturali. Pestaggi di massa, come nella casa circondariale ora diventata un simbolo. O punizioni individuali, mirate.

In alcune procure le indagini marciano a ritmo serrato e scandagliano in profondità, approdate alle prime condanne (appellabili e dunque non definitive) e anche per tortura. In altre procure gli accertamenti restano in superficie, avviati verso l’archiviazione.

Detenuti poco credibili? Il potere delle immagini

La differenza, nell’accertamento della verità, sembrano farla le immagini. I detenuti che raccontano di botte e manganellate vengono creduti quando i video immortalano aggressioni e scene pulp. Dove le telecamere non ci sono oppure risultano disattivate, o le se riprese vengono cancellate per scelta o per prassi, le speranze di ricostruire i fatti (e le responsabilità) si assottigliano. E rischiano di azzerarsi quando la (presunta) vittima di vessazioni e violenze è un detenuto con atteggiamenti aggressivi o ribelli.

La sola associazione Antigone in una manciata di anni ha promosso o contribuito a promuovere 17 inchieste e le sta seguendo come “persona offesa”. Questo ruolo non le è stato riconosciuto dal giudice di Modena che si è occupato di 8 dei 13 decessi contati nei giorni delle sommosse e dei trasferimenti di massa. Anche il Garante nazionale dei detenuti è stato estromesso dal procedimento emiliano, nel silenzio generale.

Milano-Opera e le denunce di violenza dei parenti

Madri, sorelle, compagne di detenuti rinchiusi a Opera, 8 persone, dopo le violente azioni di protesta dell’8 marzo 2020 si rivolsero ad Antigone per raccontare quello che avevano saputo da familiari e congiunti. I parenti parlavano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche carcerati anziani e malati di cancro e che avrebbero portato a mascelle, setti nasali e braccia rotte. Antigone inviò un esposto alla magistratura.

La denuncia cumulativa, lo spiega ad Osservatorio Diritti il procuratore aggiunto milanese Alberto Nobili, «non ha avuto seguito, perché non sono stati trovati riscontri alle dichiarazioni riportate e alle presunte lesioni indicate». Si è invece conclusa l’inchiesta sui reati commessi dai rivoltosi, 17 dei quali condannati a febbraio.

Polizia penitenziaria e violenze: «Indagini da riaprire»

Gaspare G., anche lui detenuto ad Opera, una denuncia l’ha scritta di suo pugno e l’ha presentata attraverso l’avvocato di fiducia, Eugenio Losco. Un paio di settimane dopo la rivolta di marzo 2020, alla quale ha preso parte, in reparto ha litigato con alcuni poliziotti penitenziari per questioni legate all’acquisto del vitto allo spaccio interno. Quattro o cinque agenti poi lo avrebbero raggiunto in cella, insultato e malmenato.

Secondo il personale, invece, sarebbe stato lui ad avventarsi contro gli operatori in divisa. Il medico che lo ha visitato ha riscontrato un arrossamento della cute sulla fronte e gli ha dato zero giorni di prognosi.

Il pm Giovanni Polizzi, ricostruiti il curriculum e i procedimenti disciplinari collezionati, ha ritenuto le dichiarazioni del denunciante contraddittorie e insufficienti a sostenere l’accusa contro i poliziotti. Così ha chiesto al gip di archiviare tutto.

L’avvocato Losco si è opposto e ha rilanciato, chiedendo di fare quello che la procura ha omesso: interrogare il detenuto e sentire tutti i possibili testimoni oculari, i compagni di cella e di raggio. Nella sezione le videocamere di sorveglianza ci sono e c’erano. Ma le immagini del bisticcio sono state sovrascritte da altre immagini, come succede ogni 7 giorni e tutela della privacy, come almeno scrive il pm. Il giudice deciderà a settembre.

Violenze in carcere: Melfi come Santa Maria Capua Vetere?

Antigone, sempre dopo le sommosse del 2020, è stata contattata anche dai familiari di persone rinchiuse nel carcere di Melfi.  La notte del 17 marzo 2020, riferiscono i parenti in prima linea, sarebbe scattata una ritorsione per la sommossa scoppiata il giorno 9. Un “prequel”, un antefatto, di Santa Maria Capua Vetere.

Una squadra di agenti sarebbe entrata nelle celle dell’alta sicurezza e avrebbe umiliato e vessato una settantina di detenuti, fatti inginocchiare, denudati, picchiati a mani nude e con manganelli, presi a sputi e insulti e poi messi in isolamento o trasferiti altrove.

Non solo. I poliziotti del penitenziario potentino avrebbero fatto firmare false dichiarazioni alle persone ferite, costringendole a sostenere di essersi procurate le lesioni cadendo accidentalmente.

Scene da macelleria messicana raccontate dalle vittime

I racconti dei carcerati di Melfi sono finiti agli atti.

«Gli agenti ci hanno legato i polsi con fascette da elettricista, lungo il tragitto che ci portava al pullman ci urlavano di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con calci nel sedere e in altre parti del corpo». «C’erano agenti incappucciati e altri col passamontagna». «Sono entrati nella cella e hanno pestato mio zio, che è cardiopatico e ha due stent».

Il 3 maggio 2021 la procura ha chiesto al gip l’archiviazione, contro cui il 3 giugno ha presentato opposizione Antigone. Continue reading

Riesame, rigettato il ricorso di Paolo Persichetti: La storia di un pezzo di storia sotto sequestro

Polizia, procure e dietrologia, la santa alleanza contro la ricerca indipendente sugli anni 70

Da https://insorgenze.net

Il tribunale del riesame ha rigettato il ricorso contro il sequestro del mio archivio, degli strumenti di lavoro e comunicazione, computer, smartphone, tablet e ogni altro supporto informatico, l’intero l’archivio fotografico di mia moglie, lo spazio cloud dove erano stoccati oltre al mio materiale storiografico anche le cartelle cliniche, amministrative e scolastiche dei miei figli (leggi qui).
All’udienza che doveva esaminare l’impugnazione presenta dal mio legale, tenutasi venerdì 2 luglio, era presente il pm titolare del decreto di sequestro. Una circostanza del tutto irrituale, non accade praticamente mai che i procuratori della repubblica vengano a difendere le proprie ragioni in udienze del genere. Il Pm probabilmente nutriva qualche timore sulla fondatezza delle sue decisioni ed è venuto in prima persona a cauzionarle. In aula, a dire il vero, non si è soffermato – come ci attendevamo e sarebbe stato logico – sulle ragioni che hanno giustificato la scelta dei capi d’imputazione. Nulla ha detto sul presunto favoreggiamento, ancora meno sul 270 bis. Eppure era stato appena chiamato in causa dall’avvocato Romeo che chiedeva quali fossero gli altri associati, le condotte censurate, il ruolo organizzativo presunto nell’associazione (semplice partecipante? Promotore? Organizzatore? Finanziatore?), i proclami, le azioni realizzate o programmate.
Anche sulla natura “riservata” dei documenti che avrei divulgato, il titolare delle indagini ha glissato velocemente, sostenendo che tutti i regolamenti inevitabilmente danno luogo ad interpretazioni soggettive e che dunque sarebbe servito a poco soffermarsi su una discussione del genere. Non si capisce però, se le cose stanno così, perché la sua interpretazione soggettiva dovrebbe essere prevalente. In ogni caso stando all’articolo 2 della “Deliberazione sul regime di divulgazione degli atti e dei documenti”, stabilito dalla stessa Commissione presieduta dal presidente Giuseppe Fioroni il 15 ottobre 2014, sono considerati documenti riservati «gli atti giudiziari, i documenti provenienti dalle autorità amministrative e di governo per i quali sia stato raccomandato l’uso riservato, documenti provenienti da soggetti privati per i quali sia stata richiesta la riservatezza, infine documenti che al momento dell’acquisizione siano stati classificati come tali». Insomma secondo le regole che si è data la Commissione Moro 2, le Relazioni di bilancio annuale e tantomeno le loro bozze, che in un altra nota non assumono alcuna fattispecie documentale ma al contrario vengono ritenute «inesistenti», non sono documenti riservati. E non potrebbe essere altrimenti trattandosi di documenti politici, risultato di una discussione, di emendamenti e di un voto finale.In un Paese normale la discussione si sarebbe conclusa qui. Ma in Italia il sistema Giustizia non funziona cosi e i Pm dettano legge così il responsabile dell’accusa ha preso la parola narrando i suoi impegni professionali, i numerosi filoni d’inchiesta aperti che ha ereditato dalle attività irrisolte della Commissione Fioroni e che in parte condivide con la procura generale. Ha tirato fuori dal cilindro una serie di argomenti che non erano indicati nel provvedimento di sequestro e nelle carte depositate, impedendo alla difesa così di sviluppare le proprie controdeduzioni.
Ha spiegato che potrebbero esserci in giro altre prigioni dove Moro sarebbe stato rinchiuso nei 55 giorni del sequestro e dunque che ci sarebbero in giro ancora degli ex brigatisti mai catturati, affittuari o titolari di quelle abitazioni (sembrava recitasse a memoria i libri di Flamigni o Cucchiarelli), ha poi tirato fuori il cartellino fotosegnaletico falso su Alessio Casimirri (leggi qui) finito tra le mani della Commissione Moro, chiedendosi se quel documento fosse la prova dell’arresto di Casimirri e della sua successiva liberazione e quindi delle coperture di cui si sarebbe giovato nelle istituzioni o se invece quel documento fosse un falso, messo lì da pezzi “deviati” degli apparati. Sono passati tre anni dalla chiusura dei lavori della Commissione e il fatto che il responsabile dell’inchiesta non sia stato in grado di accennare uno straccio di risposta sulla questione, partendo da un assunto che era già palese all’epoca, ovvero che quel cartellino era un falso, ma oggi pensi che la soluzione del mistero passi per il mio archivio e le cartelle cliniche di mio figlio, la dice lunga.
Infine, dulcis in fundo, come una serie americana, ha tirato fuori l’Fbi, l’indagine internazionale (probabilmente una semplice rogatoria) sulle caselle postali elettroniche di Alessio Casimirri, ormai cittadino nicaraguense. L’intercettazione del suo traffico mail avrebbe portato – ha spiegato il pm – alla scoperta di conversazioni con Alvaro Lojacono Baragiola, suo compagno nelle Br al momento del sequestro Moro, ed oggi cittadino svizzero, Paese dove ha scontato una lunga condanna per la sua appartenenza alle Brigate rosse. I due si sarebbero intrattenuti spesso sulle vicende di via Fani ricostruendone alcuni passaggi. Fatto grave, secondo il pm, era il fatto che Lojacono conversasse prima con Persichetti che poneva domande, sollevava questioni e poi ne parlasse con Casimirri. Non ho ancora avuto accesso a queste carte, e nemmeno i giudici del riesame che hanno deciso sulla parola del pm, posso solo ipotizzare che con tutta probabilità ciò avveniva negli anni in cui era in corso il lavoro preparatorio che ha portato al libro “Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera”.
Con tutta evidenza, in quegli scambi non ci sono nomi nuovi, altrimenti le autorità di polizia sarebbero già intervenute, ma ai loro occhi questa normale attività di interrogazione delle fonti testimoniali, proprie di un lavoro di ricerca storiografica, appare sospetta, degna di ulteriori accertamenti e sequestri. A più di quarant’anni dai fatti, la polizia vuole ficcare il naso nella ricerca storica, criminalizzando l’attività di studio e ascolto delle fonti.
Il pubblico ministero ha inviato un chiaro messaggio ai giudici del riesame: non intralciate le mie indagini, non cassate il mio sequestro esplorativo perché altrimenti bloccate la scoperta dei segreti di questo Paese che per forza di cose passano per casa Persichetti. Altro dato emerso nell’udienza di venerdì è la sovrapposizione tra indagini della procura, attività delle forze di polizia e narrazioni dietrologie. Un fronte comune schierato contro la ricerca indipendente. Le fonti testimoniali e chi va a scomodarle d’ora in poi dovranno saperlo: se provano a ricostruire quegli anni al di fuori dei circuiti istituzionali legittimi sono passibili di reato associativo e favoreggiamento. La storia è sotto sequestro, il rapimento Moro è recintato col filo spinato.

Di seguito potete leggere la dichiarazione che ho depositato davanti al riesame e che ricostruisce il lavoro preparatorio del libro e i rapporti intrattenuti con la commissione Fioroni nel 2015.

Dichiarazione di Paolo Persichetti ai giudici del tribunale del riesame presso il Tribunale di Roma – udienza del 2 luglio 2021 Continue reading

Detenuti allontanati dalla Campania dopo le denunce

L’indagine su Santa Maria Capua Vetere. La protesta dei garanti della regione: «Li portano via di notte eppure, dopo “la mattanza”, guardie e reclusi sono rimasti nello stesso penitenziario per oltre un anno»

Si è avvalso della facoltà di non rispondere il provveditore delle carceri campane (sospeso dal servizio) Antonio Fullone, durante l’interrogatorio di garanzia ieri con il gip Sergio Enea. L’indagine è quella sulla «orribile mattanza» ai danni dei detenuti del reparto Nilo il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fullone è indagato per depistaggio e favoreggiamento. Per la procura avrebbe autorizzato la «perquisizione straordinaria», ritenuta però arbitraria dai pm e dal gip, realizzata per rappresaglia dopo le proteste del 5, quando al Nilo si barricarono dopo aver avuto notizia della positività al Covid di un detenuto. «Le immagini viste sono solo una parte, quelle più raccapriccianti le ha solo la procura» hanno spiegato ieri i garanti dei detenuti provinciali e regionale, durante una conferenza stampa congiunta.

«IL CARCERE SAMMARITANO – racconta Emanuela Belcuore, garante dell’area di Caserta – è stato costruito senza rete idrica, sono 25 anni che non c’è l’allaccio. L’acqua viene portata con le autobotti o bisogna ricorrere a quella in bottiglia. Esce dai rubinetti giallo marrone, con il Covid i detenuti si sono dovuti lavare con acqua che porta dermatiti e irritazioni. A pochi chilometri c’è una discarica a cielo aperto, d’estate si formano zanzare enormi. I reparti maschile e femminile di alta sicurezza sono sovraffollati e a regime chiuso. Con il Covid c’è stato il blocco dei volontari, pochissime le attività ricreative». Quando lunedì scorso è esplosa l’inchiesta nel carcere c’è stato un black out elettrico, i detenuti sono rimasti senza tv ma, denuncia Belcuore, non sono stati distribuiti neppure i quotidiani, che i detenuti pagano. «Mi hanno detto che alcuni agenti hanno imposto di strappare le pagine dei quotidiani con le foto degli indagati».

DOPO LE SOSPENSIONI degli indagati sono arrivati nuovi agenti: «Per oltre un anno maltrattati e maltrattanti sono stati nello stesso carcere – commenta Belcuore -. Quando gli agenti sono stati sospesi hanno iniziato a spostare i detenuti del Nilo, 32 finora, che avevano denunciato le percosse verso altri istituti, in Calabria, Sicilia, Umbria. Li prendono di notte e li portano via. Le famiglie non possono raggiungerli per i colloqui. I detenuti che hanno chiesto l’avvicinamento a casa sono ancora lì».

A METTERE IN MOTO le indagini è stata anche la denuncia del garante campano, Samuele Ciambriello: «Uno dei detenuti del Nilo va ai domiciliari, posta sui sociale le foto delle percosse. Queste e le registrazioni delle chiamate con i familiari, dove altri raccontano cos’era successo, sono la base del mio esposto dell’8 aprile 2020. Per dieci giorni mi hanno raccontato fatti raccapriccianti. Nella seconda lettera che mando in procura c’è l’elenco di 16 detenuti, nome, cognome e data di nascita, disponibili a essere ascoltati dai magistrati. Alcuni mi dicevano di pressioni subite per ritirare la denuncia. Non è solo Salvini che fa propaganda, a novembre il ministero ancora ripeteva “abbiamo ristabilito l’ordine”».

UN IMPULSO IMPORTANTE all’indagine si deve al magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Il 5 aprile le proteste pacifiche, il 6 Puglia arriva all’istituto per tranquillizzare i detenuti. Il comandante della penitenziaria, Gaetano Manganelli, non vorrebbe farlo parlare con quelli del Nilo perché «era prevista una perquisizione». Riesce a incontrarli e agli atti fa mettere: «I detenuti si comportarono in modo rispettoso e tennero a ribadirmi che la loro protesta era contenuta e pacifica». L’8 il post sui social, che racconta: «Non appena il dottor Puglia si è allontanato era stata eseguita la perquisizione durante la quale molti detenuti erano stati picchiati».

Il magistrato lo stesso giorno chiede di parlare con i reclusi del Nilo, nel frattempo spostati in punizione al Danubio, ma non ci riesce perché «mancava il personale che potesse accompagnarli in sala per la videoconferenza». Puglia al gip spiega: «Mi insospettii e il 9 disposi che mi portassero a colloquio con Teams proprio quei detenuti che non mi avevano portato il giorno prima. Emanuele Irollo mi raccontò che era stato picchiato. Mostrava tramite webcam le ecchimosi sulle spalle. Agenti sui lati dei corridoi gli avevano procurato le lesioni e avevano sputato su di lui».

LA SERA STESSA PUGLIA va a ispezionare il Danubio senza avvertire nessuno. Visita alti 7 detenuti, avevano ecchimosi, ematomi agli occhi, «nessuno era stato visitato in infermeria ma, al più, sottoposto a una rapita valutazione del medico di turno». Erano senza lenzuola, senza biancheria né sapone, «mi riferivano che era stato loro impedito di contattare i familiari». Qual era il clima lo racconta ancora Puglia: «Tutti si sorpresero della mia presenza alle 21.30 al Danubio. Rimasero basiti. In ogni mio spostamento fui seguito, come un’ombra, da 3 unità di polizia penitenziaria. Chiesi più volte carta e penna in modo che potessi annotare quello che vedevo. Quando finalmente riuscii ad averli costoro lo trattenevano in mano, decisi di annotare i particolari sul mio smartphone». L’11 arriva il sequestro delle telecamere di videosorveglianza.

Da Il Manifesto

VERITA’ PER LE MATTANZE DI PRIMAVERA

Riceviamo e pubblichiamo da Associazione Yairaiha Onlus

VERITA’ PER LE MATTANZE DI PRIMAVERA
Per far sì che venga fuori la verità sulle mattanze della primavera 2020 nelle carceri italiane (non solo Santa Maria Capua Vetere) è necessario non aver paura di denunciare, anche se ancora detenuti, anche se soggetti ad altri procedimenti. Le “piantagioni marce” contano su queste paure non tanto, e non solo, per non pagare quanto già fatto quanto, piuttosto, continuare a massacrare impunemente. Accanto alle centinaia di massacrati ricordiamoci dei 14 morti; e ricordiamoci che al posto loro sarebbe potuto essere chiunque tra i nostri cari a perdere la vita.
Quella che segue è una mail, molto eloquente, ricevuta oggi pomeriggio. Facciamo appello anche a questa signora e a tutti gli altri familiari ed ex detenuti che hanno visto o subito quegli abusi affinché si abbatta il muro di omertà che protegge i torturatori.
Associazione Yairaiha Onlus
“Salve, ho letto un vostro articolo, sulle violenze avvenute dopo le rivolte al carcere di Foggia, io sono la compagna di un detenuto, attualmente ancora lo è, ma presso Reggio Calabria trasferito dopo la rivolta nonostante lui non era fuggito dal carcere ma stava all interno, quella sera entrarono nella sua cella 8o9 persone e lo picchiarono calci, pugni, manganellate avanti gli altri detenuti poi se ne andarono, poi di primo mattino di nuovo sempre 8o9 persone con passamontagna lo ripreso lo portarono in una cella da solo e di nuovo calci, pugni e manganellate mentre lui era seduto a terra ranicchiato cercava di guardarli e loro mentre lo picchiavano gli ripetevano “Abbassa lo sguardo”… Il mio compagno aveva tutto il corpo tumefatto dalla testa ai piedi… Poi lo presero col pigiama e scalzo, lo hanno messo sull pullmann con hai polsi invece delle manette lo hanno legato con le fascette, e senza fargli prendere abiti, soldi, effetti personali nemmeno le foto dei figli piccolini gli hanno fatto prendere, lo hanno sbattuto a 600 km, dove dopo 10 giorni lo sentito io che piangeva al telefono per le violenze subite e nemmeno l intimo per cambiarsi al nuovo carcere… Ad oggi sta ancora pagando il suo conto con la giustizia, ma quello che ha subito come tanti altri a Foggia non si fa nemmeno agli animali… Spero si vada a fondo e paghi chi deve pagare come stanno facendo i nostri mariti… Aiutateci voi a dare voce a queste ingiustizie….Per il momento vorrei rimanere anonima… Grazie”

 

Diffondiamo inoltre da:

Parenti e amici dei detenuti a Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano

Ieri abbiamo attaccato diversi striscioni, sulle violenze nel carcere di S. M. C. Vetere, fuori al carcere di #poggioreale, di #secondigliano, di #pozzuoli e in diverse piazze di Napoli.
6 aprile 2020 carcere di Santa Maria Capua vetere;
52 misure cautelari;
Oltre 100 indagati;
Prima la mattanza
Poi Trasferimenti
Blocco di colloqui e chiamate
Isolamento
Falsi
Calunnie
Depistaggi
OMERTÀ
non è la mafia
È la polizia penitenziaria
Santa Maria Capua Vetere 6 aprile 2020;
Non è un caso;
Non è una fatalità;
Non solo mele marce.
È malato tutto l’albero.
IL CARCERE È TORTURA
ABOLIAMOLO!

NATASCIA SAVIO, IN SCIOPERO DELLA FAME PER VEDERE RICONOSCIUTI DIRITTI FONDAMENTALI

Riceviamo e pubblichiamo:

Natascia Savio, anarchica torinese imputata nei processi Scintilla a Torino e Prometeo a Genova, è in sciopero della fame dal 16 giugno scorso per protestare contro il trasferimento, che risale ormai al 16 marzo scorso, dal carcere di Piacenza alla famigerata struttura di Santa Maria Capua Vetere, a oltre 800 chilometri da Torino. Quello del 16 giugno a Santa Maria Capua Vetere è stato il secondo trasferimento, dopo le due settimane trascorse nel carcere di Vigevano dov’era stata trasferita temporaneamente per avvicinarla al tribunale di Torino, dove ha luogo il processo Scintilla. Per poter rimanere nel carcere di Vigevano, l’avvocato Claudio Novaro e Natascia hanno presentato diverse istanze, tutte respinte. E’ la stessa Natascia che spiega le ragioni della sua protesta:

[…] Dal giorno in cui mi hanno trasferita qui, tre mesi fa, non ho più potuto comunicare decentemente con il mio avvocato: i colloqui sono stati riaperti, quindi niente video chiamate né chiamate su richiesta del legale, le telefonate sono una al mese di dieci minuti, anche per gli imputati e anche per chi sta a 1.000 chilometri dalla sede del processo o da casa. Se è in vena, il direttore può concederne una seconda straordinaria nel corso dello stesso mese, ma ovviamente, in quanto concessione, non ha nessun obbligo di farlo, e in ogni caso è fuori discussione superare le due mensili. Venti minuti al mese, in una stanzetta soffocante, e nell’orario e giorno prestabiliti, augurandosi che il tuo difensore quel giorno sia in studio. Venti minuti al mese, da un mese e mezzo prima che iniziasse il processo, sino ad oggi, che il dibattimento è sostanzialmente giunto al termine. […] Ci restano due udienze, prima della requisitoria, due udienze in cui si sarebbe dovuto ragionare di dichiarazioni spontanee, esame e controesame, ma a quanto pare mi toccherà ragionare in solitaria. A pensar male, sembra quasi che si faccia di tutto per impedire una difesa “dignitosa”, anzi, una difesa qualunque… non sia mai che l’iperbolico e morbosetto castello di carte dell’accusa dovesse iniziare a scricchiolare. Molto meglio se questa possibilità, quella di difendersi in aula, è ridotta al lumicino. Non mi dilungherò qui su come la videoconferenza si sposi alla perfezione con questa strategia, di questo si è già discusso molto (anche se forse non abbastanza). Si sa, spesso a pensar male si pensa bene. Dei venti giorni trascorsi a Vigevano, quindici li ho trascorsi in isolamento sanitario e uno in udienza, altri due a fare i bagagli tra andata e ritorno… insomma, nemmeno questa è stata un’occasione per parlare con l’avvocato, visto che gli isolati non possono ricevere visite. Inutile aggiungere che ora sono di nuovo in quarantena. Insomma, bando alle ciance: lucidamente consapevole della strategia punitiva (e preventiva?) che sta ponendo in essere il DAP nei miei confronti, e contemporaneamente offuscata di rabbia e disgusto, ho deciso che, se non ho mezzi per interpormi concretamente alle loro logiche vendicative, ho perlomeno la possibilità di non lasciarglielo fare con la mia collaborazione. Alla notizia del mio ritorno a S. Maria, alle ore 18.00 del 16.06.21, ho immediatamente comunicato l’inizio di uno sciopero della fame a tempo indeterminato. […]”.

Dopo aver letto queste parole, viene da domandarsi: le detenute e i detenuti hanno dei diritti? La risposta è sì, sulla carta, troppo spesso no, come in questo caso, nella pratica. Ecco di seguito alcuni stralci della “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti”, consultabile sul sito www.giustizia.it:

Il detenuto ha il diritto di avvertire i propri familiari, sia in caso di provenienza dalla libertà, sia in caso di trasferimento da altro istituto.

Il detenuto ha diritto ad avere colloqui con il proprio difensore sin dal momento dell’ingresso e per tutta la permanenza in carcere, negli orari e con le modalità stabilite, facendone richiesta attraverso l’Ufficio Matricola.

E’ favorito il criterio di destinare i detenuti ad istituti prossimi alla residenza delle famiglie. I detenuti hanno il diritto a non essere trasferiti d’ufficio se non per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto e per motivi di giustizia.

I detenuti e gli internati hanno il diritto di avere colloqui visivi con i familiari o con persone diverse (quando ricorrono ragionevoli motivi), oltre che con il difensore e con il garante dei diritti dei detenuti.

Ogni detenuto può ricevere quattro pacchi mensili non eccedenti i 20 kg, sia in occasione dei colloqui, sia se siano stati spediti per posta qualora nei quindici giorni precedenti egli non abbia fruito di alcun colloquio visivo. E’ assicurata la relazione dei detenuti con le proprie famiglie. Ai familiari deve essere comunicato il trasferimento ad altra struttura detentiva.

 

Di seguito Aggiornamenti sul processo in corso

Lo scorso 10 maggio è iniziato il dibattimento del processo Prometeo che vede imputata una compagna, Natascia, e due compagni, Beppe e Robert, accusati Continue reading

Lettera di Davide Delogu dal carcere di Vibo Valentia

Volevo dire due cose.

Se quando ci troviamo prigionieri, noi anarchici e ribelli, non sproniamo gli altri detenuti alla lotta, regna oltre che la rassegnazione, la collaborazione con l’istituto penitenziario. Più passa il tempo, più ci sono persone che hanno rapporti confidenziali con il carcere, ormai è diventata normale amministrazione per ottenere qualche infame eventuale beneficio. Quindi per noi anarchici in galera e anche per tutti quei detenuti ribelli che sono stati pestati e puniti per le rivolte, bisognerebbe gettare molta più benzina sul fuoco della lotta per evidenziare maggiormente lo Stato assassino che attua ricatti, pestaggi, violenza e morti. Io nonostante la mia condizione combatto su tutto sempre a testa alta, accumulando continue denunce e rapporti. Anche per il fatto che qui si possano avere al massimo due libri, e invece io ne ho una ventina più altrettante riviste e nonostante le perquisizioni continue non mi toccano niente perché loro sanno che se mi toccano qualcosa è guerra. Infatti per come la vedo, è necessario aumentare la conflittualità sia dentro che fuori, con azioni concrete, in modo che si dia risonanza ai fatti in questione. Se nelle AS2 regna la calma, a parte i compagni combattivi, regna la calma anche nelle AS3 nei comuni ecc ecc…

Nonostante molti detenuti aspettino maggiori benefici, non viene data loro alcuna risposta dai magistrati di sorveglianza, quindi abbiamo anche una tortura psicologica.

Facciamoci sentire uniti in una guerra contro la galera, dando una risposta alla violenza poliziesca!

Sempri Ainnantis! A Konka Arta!

Davide Delogu Anarchico Sardo Prigioniero Deportato

Indirizzo per scrivergli:

Delogu Davide

Contrada Cocari 29

89900 Vibo Valentia (VV)