Bologna: Antifascisti condannati per la contestazione a Salvini

7 luglio 2021, sono stati condannati in primo grado gli antifascisti che l’8 novembre 2014 si opposero all’ennesimo atto di sciacallaggio sugli ultimi da parte di Salvini, Borgonzoni e Lega al campo sinti di via Erbosa.

Il giudice bolognese ha ritenuto gli attivisti responsabili a vario titolo di reati quali violenza privata, lesioni e danneggiamento. Il Tribunale ha pertanto deciso di condannarli a pene tra i quattro mesi e un anno e sei mesi di reclusione.

Pene che, anche se ridimensionate rispetto a quelle chieste dalla procura (che aveva chiesto pene comprese tra uno e due anni), risultano titaniche rispetto alle dinamiche della giornata e alle forme della protesta come verificabile nei vari video della giornata.

Peraltro, la Lega, Matteo Salvini , Lucia Bergonzoni e Alan Fabbri si erano costituiti parte civile per cogliere l’occasione e “fare cassa”. Non si spiegano altrimenti le richieste di risarcimenti danni esorbitanti superiori a 200 mila euro. Il giudice ridimensionando la richiesta ha comunque condannato gli antifascisti, in aggiunta alla pene della reclusione, ad un del tutto immotivato risarcimento danni nei confronti della Lega pari a 50 mila euro.

Non possiamo non ritenere come la mediatizzazione dell’evento e la rilevanza della parte civile costituita da Lega, Matteo Salvini, Lucia Bergonzoni e Alan Fabbri abbia determinato il particolare accanimento verso gli imputati dimostrato dalla sentenza.

Quest’ennesimo episodio di repressione nei confronti degli antifascisti conferma come palese il modello politico autoritario di società in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità, colpendo preventivamente e repressivamente chi ritiene che l’ordine di tali priorità vada rovesciato e quindi oppone resistenza.

Dopo anni in cui Salvini e i suoi soci hanno provato a cavalcare la rabbia delle vittime della crisi indirizzandola in senso reazionario, oggi si trovano in una situazione di perdita di credibilità, avendo infatti calato la maschera partecipando al governo di Draghi. Si pone quindi per noi l’occasione e la necessità di riaffermare con forza le ragioni che avevamo allora per dare voce alle fasce popolari escluse dal sistema, anche a fronte della gravissima crisi sanitaria e socio-economica innescata dalla pandemia di covid-19.

Contestare il neofascismo, il razzismo e le discriminazioni tutte, è diritto e dovere di ogni libero cittadino e questa condanna non ci farà fare nessun passo indietro.

Cambiare Rotta Bologna – Noi Restiamo

Da Bolzaneto a Santa Maria Capua Vetere: vent’anni di tortura in Italia

Da quando nel 2017 l’Italia ha introdotto (in ritardo) il reato di tortura, sono stati aperti diversi procedimenti penali in tutto il paese. Eccone alcuni.

In occasione del ventennale dei fatti del G8 di Genova, abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli e approfondimenti a quella che ancora oggi rimane una delle pagine più nere della storia d’Italia.

Per tutta la durata del G8 di Genova di vent’anni fa, la caserma di Bolzaneto si era trasformata in una prigione degna di un regime militare.

L’elenco delle angherie subite dalle centinaia di persone fermate (spesso illegalmente) è sterminato: posizioni vessatorie da tenere per ore, come quella della “ballerina” (sulle punte dei piedi o su una gamba sola); pestaggi seriali e ripetuti; percosse ai genitali; “corridoi umani” dentro i quali i prigionieri venivano massacrati dagli agenti; insulti a sfondo sessuale e razzista; costrizione a inneggiare al fascismo, al nazismo e alla dittatura di Pinochet… Agli arrestati provenienti dalla “macelleria messicana” della Diaz è stato riservato un ulteriore trattamento: la “X” sul viso col pennarello, una “marchiatura” per identificarli in mezzo agli altri.

Per la Corte Europea dei Diritti Umani, quello che è accaduto dentro Bolzaneto ha un solo nome: tortura. La giustizia italiana, però, non ha potuto contestare quel reato perché ancora non era contemplato nel codice penale. Il risultato è che molti responsabili non sono mai identificati o sono stati salvati dalla prescrizione.

A vent’anni di distanza da quei fatti, è impressionante constatare come gli abusi e le torture di una parte delle forze dell’ordine continuino a far parte della realtà—e anzi, in alcuni casi abbiano raggiunto una gravità simile a quella di Bolzaneto, soprattutto in carcere.

“La tortura è ancora una pratica di sistema,” mi ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “Ed è di sistema quando le istituzioni tutte non prendono le distanze da quanto accaduto, quando lo spirito di corpo prevale sulla dignità della persona e il rispetto dell’habeas corpus, quando si commettono atti di questo tipo contando che ‘tanto la si fa franca’.”

Tuttavia, almeno un cambiamento significativo dal punto di vista legale c’è stato. Dal 2017 l’Italia infatti prevede il reato di tortura, anche se il testo non ha rispecchiato tutte le aspettative: e infatti, diverse associazioni per i diritti umani non lo ritengono del tutto adeguato e conforme alla Convenzione Onu.

Da quando è entrato in vigore, comunque, sono stati aperti diversi procedimenti penali in tutto il paese—alcuni arrivati al primo grado, altri ancora fermi alle udienze preliminari o alle indagini. Basandomi su un recente dossier compilato dall’Associazione Antigone, qui di seguito ne ripercorro alcuni.

La prima condanna per tortura al carcere di Ferrara

Nel gennaio del 2021, per la prima volta dall’introduzione del reato, un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere di Ferrara è stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione per tortura.

I fatti risalgono a settembre del 2017. Secondo la ricostruzione, tre poliziotti (il condannato e altri due, anche loro sotto processo) entrano nella cella d’isolamento in cui si trova un detenuto per una perquisizione. Uno di questi si mette di guardia nel corridoio; all’interno i colleghi fanno inginocchiare il recluso, lo ammanettano e lo picchiano selvaggiamente.

Al termine del pestaggio, gli agenti si allontanano lasciandolo ammanettato e senza prestare alcuna cura. Significativamente tra gli indagati figura anche l’infermiera del carcere, accusata di favoreggiamento e falso per aver dichiarato di aver visto il detenuto sbattere la testa contro la porta blindata della cella.

I dieci agenti condannati per tortura al carcere di San Gimignano

Un mese dopo la sentenza di Ferrara, altri dieci agenti—questa volta in servizio al carcere di San Gimignano (Siena)—sono stati condannati in primo grado per tortura.

I poliziotti erano accusati di aver picchiato un detenuto durante il trasferimento da una cella all’altra, nel 2018. L’uomo è stato trascinato per il corridoio del reparto d’isolamento e preso a pugni e calci. “Sentivo le urla,” ha raccontato un altro detenuto, “poi lo hanno lasciato svenuto [in un’altra cella]. Il giudice ha parlato di un “trattamento inumano e degradante” e di “crudeltà.”

Oltre agli agenti è stato condannato anche un medico del carcere perché si era rifiutato di visitare e refertare il detenuto abusato.

Le torture dei carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza

Un’altra condanna per tortura è arrivata più recentemente, e si riferisce alla nota inchiesta sui carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza—integralmente sequestrata lo scorso anno con una decisione giudiziaria senza precedenti.

I cinque carabinieri (su un totale di oltre venti imputati) che hanno scelto il rito abbreviato sono stati ritenuti colpevoli di una sfilza impressionante di reati. Quello che era ritenuto il capo della banda, l’appuntato Giuseppe Montella, da solo ne aveva ben sessanta.

Secondo l’accusa, poi confermata dalla sentenza di primo grado, gli agenti avevano allestito un vero e proprio “sistema parallelo” fatto di traffico di sostanze stupefacenti, minacce, copertura dei pusher amici, arresti illegali per gonfiare le statistiche, e per l’appunto tortura nei confronti di alcune persone fermate.

Come aveva sottolineato la procuratrice Grazia Pradella dopo gli arresti, “tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi nel lockdown. Faccio fatica a definire questi soggetti ‘carabinieri’, perché i comportamenti sono criminali.”

“Tu devi morire qui”: il carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino

Nell’autunno del 2019 sei agenti della polizia penitenziaria del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino sono messi ai domiciliari con l’accusa di tortura. In tutto, gli indagati per quel reato (e altri illeciti) salgono a 25. Anche il direttore del carcere finisce tra gli indagati, accusato di favoreggiamento personale e omessa denuncia: sapeva, ma avrebbe coperto le condotte dei poliziotti.

In base all’inchiesta, che riguarda fatti avvenuti tra il 2017 e il 2019, le guardie carcerarie si sfogavano soprattutto sui detenuti più fragili. Questi venivano picchiati tra le risate, obbligati a spogliarsi e ripetere frasi come “sono un pezzo di merda” o “tu devi morire qui.”

A un detenuto è stato rotto il naso, quasi sfondata l’orbita di un occhio e spezzato di netto un incisivo superiore. Quando poi i reclusi erano troppo malconci e dovevano farsi visitare in infermeria, gli agenti li costringevano a mentire e dichiarare che erano stati altri detenuti a picchiarli.

L’indagine era partita da una segnalazione del Garante dei detenuti del Piemonte, Monica Gallo, che aveva raccolto testimonianze e voci che circolavano all’interno della struttura. Al momento dev’essere ancora fissata la prima udienza preliminare.

“Estrema crudeltà”: i fatti nel carcere di Sollicciano

Nel giugno del 2021 la procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti di polizia penitenziaria e due medici, di servizio al carcere di Sollicciano (Firenze). Le accuse contestate a vario titolo sono quelle di tortura e falso in atto pubblico. A gennaio dello stesso anno tre agenti erano finiti agli arresti domiciliari.

L’inchiesta è partita nel 2019 dalla denuncia di un’ispettrice, che aveva sostenuto di essere stata aggredita da un detenuto. In realtà, era tutto falso. Come ricostruito dagli inquirenti, erano gli agenti ad aver picchiato “un uomo solo, inerme, ultracinquantenne e di costituzione esile agendo, nell’arco di un’ora, con estrema crudeltà”.

Per la paura il detenuto si era orinato addosso, ma gli agenti non gli avevano consentito di lavarsi e cambiarsi. L’uomo è stato inoltre rinchiuso in una cella di isolamento e senza vestiti.

L’“orribile mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

L’ultimo caso preso in esame riguarda quello del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta).

Il 5 aprile del 2020, nel pieno della prima ondata della pandemia, circa 150 detenuti si impossessano delle chiavi di sei sezioni e le occupano per protesta a seguito di alcuni casi di contagio. Dopo lunghe trattative, all’alba del giorno dopo si ristabilisce l’ordine.

Nel pomeriggio, però, 300 agenti entrano nel padiglione Nilo per eseguire una “perquisizione straordinaria”—in realtà una selvaggia spedizione punitiva.

I detenuti vengono fatti inginocchiare in uno stanzone, picchiati e umiliati. Come si vede dai video pubblicato dal quotidiano Domani, alcuni sono costretti a passare in mezzo ai famigerati “corridoi”, dove vengono tempestati di calci, pugni e manganellate. Persino un disabile in sedia a rotelle viene colpito con i manganelli.

Nelle chat private, gli agenti dicono cose come “li abbattiamo come vitelli” e “domate il bestiame.” Stando a una testimonianza, una guardia avrebbe detto a un detenuto: “questo è Santa Maria, il capolinea. Qui ti uccidiamo.”

L’inchiesta è partita dopo le denunce delle famiglie dei detenuti e gli esposti di Antigone. A giugno del 2020 la procura ha notificato avvisi di garanzia a 44 agenti per tortura, abuso di potere e violenza privata; alcuni di questi salgono sul tetto del carcere in segno di protesta. Un anno dopo, il 28 giugno del 2021, ben 52 agenti sono raggiunti da misure cautelari per quella che il gip definisce nell’ordinanza una “orribile mattanza.”

Per Antigone, quella avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è “una delle più gravi violazioni dello stato di diritto nella storia repubblicana del paese.”

Leonardo Bianchi

da Vice.com

Il Parlamento Europeo approva la sorveglianza di massa di tutte le email

Con la scusa della pedofilia, l’Ue straccia le sue norme a tutela della privacy e consente per tre anni il controllo di massa di tutti i messaggi, i commenti e le email. Un’intelligenza artificiale controllerà tutto e in casi sospetti girerà la segnalazione agli organi di vigilanza. Critiche tutte le ong e gli specialisti di lotta alla pedofilia

Una deroga ai principi generali. Di fatto uno “strappo” che nega quei principi generali. Regalando un’altra legge a chi sogna un controllo di massa più invasivo, ancora più invasivo.

Accade in Europa, che pure fino a ieri era considerata la parte più avanzata del mondo in materia di tutela della privacy. Invece martedì 6 luglio – con una votazione passata un po’ sotto silenzio – il parlamento di Bruxelles ha varato, a stragrande maggioranza, una controversa normativa che permetterà ai provider di setacciare ogni mail, ogni commento, ogni messaggio scritto. In deroga, appunto, all’avanzatissimo (non più?) Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati.

Il pretesto? Sempre lo stesso, sempre quello che anche al di là dell’Oceano giustifica le norme che violano la privacy: la lotta alla pedofilia.

La “deroga” – cioè la validità di questa legge – durerà tre anni. Nel senso che i 537 eurodeputati che hanno votato sì (appena 133, invece, quelli contro: la sinistra, i verdi e pochissimi obiettori fra le fila dei socialdemocratici) sanno benissimo che la norma – proprio perché in contrasto col Gdpr – quasi sicuramente non passerà l’esame di un tribunale, sanno benissimo che i ricorsi avranno molte possibilità di essere accolti. Anzi, il deputato tedesco dei pirati (nel gruppo dei verdi) Patrick Breyer, ha già lanciato una campagna in rete per presentare dieci, cento, mille esposti all’Alta Corte europea.

Quei tre anni di sospensione, la deroga temporanea delle misure a tutela della privacy dovrebbero servire, quindi, nelle intenzioni dei promotori ad evitare la bocciatura. Come se si trattasse di una misura straordinaria, eccezionale e quindi non sanzionabile.

Ma non ci credono tanto neanche loro. Al punto che Sophie in ‘t Veld, eurodeputata liberale olandese – nome che dovrebbe essere conosciuto anche in Italia, visto che dieci anni fa lei, moderata e conservatrice, divenne quasi un’icona solo perché aveva denunciato il linguaggio antifemminile di Berlusconi -; Sophie in ‘t Veld, si diceva, votando a favore ha aggiunto: “Signor Presidente, diciamoci la verità: sia io che lei sappiamo bene che le normative europee ci impedirebbero di approvare questa legge”.

Sophie in ‘t Veld e la stragrande maggioranza degli eurodeputati, invece, l’hanno fatta passare. Con una fretta che davvero non ha precedenti nelle vicende legislative del vecchio continente, noto per iter che in genere durano anni e anni.

Stavolta, invece, la Commissione ha presentato la sua proposta a settembre. Davanti al coro di no della società civile, non si sono fermati. E sono cominciate le pressioni, le forti pressioni sul Parlamento per approvarla rapidamente. Pressioni – racconta il solitamente bene informato politico.eu – che sarebbero arrivate addirittura dall’America, probabilmente per dare un po’ di dignità politica alle loro norme, molto simili.

Pressioni, anche qui, ammesse tranquillamente dalla relatrice, la socialdemocratica Birgit Sippel: “Sì, ne abbiamo ricevute molte. Per fare presto”. Unica concessione fatta dai promotori, l’unica modifica al testo iniziale, è che dal filtraggio saranno esentati i messaggi audio. Tutto qui.

Così in attesa di un giudice a Strasburgo, la norma entrerà in vigore. E così i provider potranno scansionare, visionare e controllare tutti i messaggi, tutte le immagini sui siti, sui social, addirittura nelle email alla ricerca di testi e foto “sospette”. Il tutto affidato all’intelligenza artificiale: se l’algoritmo “leggerà” un contenuto come pericoloso, trasmetterà la segnalazione, senza verifica umana, a un centro che poi la girerà alle polizie competenti. Senza che gli indagati siano avvisati di questa strana e improbabile inchiesta virtuale.

Magari non è molto pertinente ma forse vale la pena ricordare che le denunce alla polizia degli utenti verso altri utenti sospettati di pedofilia – denunce che probabilmente servono ad istruire le intelligenze artificiali – nel 95 per cento dei casi si sono rivelate inaffidabili.

Non è ancora tutto. Perché ci sarà anche un follow-up, un seguito alla votazione di martedì scorso.

Di fronte alle proteste di tutte le associazioni per i diritti digitali – ma proprio tutte-tutte, a cominciare dall’Edri, la istituzionalissima European Digital Rights – i promotori hanno sostenuto che fra poco un pool di esperti scriverà un documento per indicare nel dettaglio gli strumenti tecnici per realizzare questo screening di massa “in equilibrio con la tutela dei diritti”.

Ossimoro a parte, il seguito della legge dovrebbe preoccupare ancora di più. Perché stando al dibattito che l’ha accompagnata, l’Europa vorrebbe obbligare anche i social che offrono servizi di messaggi crittografati – WhatsApp e Signal per capire – ad adattarsi ai controlli.

Quindi, di fatto, introducendo una backdoor, una porticina che renderebbe violabili gli scambi “end to end”. E non esisterebbe più la crittografia.

Qualcuno, nel brevissimo dibattito, ha ricordato, ovviamente, che tutto ciò non ha nulla a che vedere con la lotta alla pedofilia. Visto che chi prova ad abusare dei minorenni non si propone certo su FaceBook o sui social tradizionali.

Magari andrebbe potenziata la capacità di infiltrarsi degli agenti nei gruppi di pedofili, magari andrebbe aumentato il numero di persone che si occupano di queste inchieste, visto che – sempre per fare il caso della Germania -, mancando personale, sono ancora da “visionare” centinaia di hard disk sequestrati agli arrestati.

Forse andrebbe accresciuto il coordinamento fra gli investigatori. Di più, come ha detto uno psicologo a Bruxelles: “Tutto ciò sarà dannoso soprattutto per le vittime degli abusi. Chi è colpito da questa violenza ha un bisogno sopra agli altri: comunicare in modo sicuro e confidenziale con terapisti, con avvocati, con personale specializzato. Ha bisogno soprattutto di stanze protette. La possibilità che un’intelligenza artificiale e poi altri possano leggere quel che scrivono potrebbe impedire alle vittime la ricerca di aiuto e sostegno”.

Sembrano, sembravano discorsi ragionevoli. Invece è passata la «deroga». Una «sorveglianza di massa» che ha altri obiettivi, per usare ancora le parole di Patrick Breyer.

Stefano Bocconetti

da il manifesto

SANTA MARIA CAPUA VETERE – LA 2° VIOLENZA VA IN SCENA… L’ORRIBILE MATTANZA, PUNTA DI ICEBERG DI UN SISTEMA STRUTTURALE MODERNO FASCISTA, RIDOTTA A EPISODIO…

Il mega Tavolo convocato ieri dalla Ministra Cartabia, con 24 organizzazioni sindacali dell’amministrazione penitenziaria dopo le condanne di rito – circoscritte però agli episodi di violenza, su cui il giudizio più “pesante” della Ministra è “fatti esecrabili“, come se si stesse parlando di qualche eccesso e non di sistematiche torture, che tutti sapevano, volevano e coprivano, e della punta di iceberg di un clima di feroci e sistematiche “punizioni” presenti anche in altre carceri e di massacri che ricordano solo il nazismo – si è concentrato sulla difesa, elogio di “corpo”:

I Vertici del Dap, Petralia, Tartaglia: “Immagini… che tradiscono lo spirito e la funzione nobile di un intero corpo di polizia fatto di persone perbene e di grande valore...”

Cartabia: “Capire come questi fatti siano potuti avvenire… convinta che i fatti di Santa Maria Capua Vetere abbiano sconvolto tantissimi agenti che ogni giorno fanno con dignità e onore il proprio lavoro… Immagino che lo sconcerto che abbiamo provato tutti noi sia stato per voi ancora più forte. Quindi volevo che vi arrivasse il mio attestato di fiducia al corpo della polizia penitenziaria… a chi svolge correttamente il proprio lavoro… Ora è tempo di individuare le responsabilità, capire gli errori (“ERRORI” vengono chiamati le indicibili violenze che di seguito pubblichiamo – da un articolo de Il Maniesto – ndr) ma poi ricostruire… non si può criminalizzare tutto il corpo della penitenziaria… che nell’anno difficile della pandemia ha sofferto e avuto paura… 

Il Sappe: “Rispettare la presunzione di innocenza… non si identifichi il corpo con quelle immagini” 

Altri sindacati hanno chiesto “più attenzione alle aggressioni subite dagli agenti”

Fp Cgil: “occorre una revisione organizzativa dell’amministrazione nel complesso e la piena civilizzazione, proseguendo sulla strada della legge 395 del 1990, realizzando finalmente quel processo di democratizzazione capace di dar voce e rappresentanza a quanti vogliono uscire dalla condizione di arretratezza  per approdare alla dimensione delle dignità del lavoro…”.

E QUESTI SONO GLI “ERRORI”…

Da il Manifesto:

…«Che la violenza costituisca con tutta probabilità una costante nel rapporto fra gli indagati e i detenuti lo si evince dai filmati – scrive il gip -. Si nota che gli agenti in modo del tutto naturale compiono dei gesti quasi “rituali”, come nel caso in cui si dispongono a formare un “corridoio umano” e cominciano a picchiarli con estrema violenza, sebbene inermi».

ERA NELLA CELLA 7, terzo piano Marco Ranieri. Sei agenti lo prelevano, viene trascinato lungo il corridoio. Alla scena assistono due ispettori e sei agenti che lo costringono a mettersi con le braccia alzate, contro il muro. Lo fanno spogliare e, nudo, è costretto a fare le flessioni. Tre nuovi agenti lo afferrano e lo portano al piano terra. Ranieri ha un tutore alla gamba, gli serve per camminare, glielostrappano via. Lungo le scale trova altri agenti, disposti su entrambi i lati, che lo prendono a schiaffi.

ARRIVATO ALLA ROTONDA del piano terra la responsabile del reparto Nilo, Anna Rita Costanzo (accusata anche di depistaggio), dice ai sottoposti «Ranieri le deve avere» così due agenti riprendono a colpirlo. Imboccato il corridoio, un altro agente lo manganella alla testa, alla schiena, al bacino, alle costole, al viso. Lo colpisce e gli ripete: «Tu e tutti i tuoi compagni dovete morire». Un altro agente lo afferra per la barba stracciandogliela, gli sputa addosso e lo colpisce al volto: «Sei il masto del Lazio? Lo vedi chi comanda qua?». In 15 lo accerchiano, gli sputano e continuano a colpirlo. Cade a terra, altre botte, feroci, alla testa, alla schiena, alle costole, al bacino, al volto con i manganelli e persino con una sedia.

Nell’area passeggio, il cosiddetto fosso, continuano infierire gridando «siete merda, tua madre è una zoccola che ti ha partorito in galera». Lo minacciano di morte «se avesse parlato». Dal fosso lo prendono in carico altri agenti che, alla presenza dell’ispettore Salvatore Mezzarano (sospettato di aver costruito false prove contro i detenuti), gli sputano addosso e giù altri calci, schiaffi, pugni. Arrivato all’ufficio di sorveglianza, viene colpito al capo e al corpo. Lungo il corridoio verso la sua nuova cella altri sputi, pugni, calci alla testa e alla schiena. Nei pressi del cancello del Danubio lo afferrano e gli sbattono più volte la testa contro il muro, un colpo di manganello gli fa cadere un dente e perde i sensi.

ANTONIO FLOSCO era nella cella 13, III sezione, secondo piano del Nilo. Anche lui si deve spogliare per la perquisizione. Schiaffi, calci allo stomaco, pugni, manganellate alla testa, alla schiena e alle gambe prima di essere trascinato in corridoio dove oltre 20 agenti lo circondano per il pestaggio. Lo trascinano fino all’ingresso delle scale utilizzate dalla polizia penitenziari (non coperte dalle telecamere) e lo colpiscono alla testa e al corpo. Lungo la scalinata subisce una nuova dose di colpi dagli agenti su due file. Alla rotonda del piano terra lo trascinano nel corridoio che porta agli altri reparti.

Riconosce il comandante della polizia penitenziaria Gaetano Manganelli (che durante l’interrogatorio di garanzia ha fatto mettere agli atti di non essere tra coloro che hanno «gestito, diretto e organizzato» la perquisizione), Costanzo e Mezzarano: davanti a loro viene colpito con pugni, schiaffi e calci. All’interno della stanza presso l’ufficio matricola perde i sensi. Un alto detenuto, Bruno D’Avino, chiede agli agenti una bottiglia d’acqua per soccorrerlo, «beviti l’acqua del cesso» gli rispondono e gli sputano in bocca.

È NELLA STANZA MATRICOLA che Flosco subisce un’ispezione anale con lo sfollagente. Gli agenti gli dicono di non sporgere denuncia «altrimenti non avrebbe avuto una vita tranquilla in carcere». Al Danubio ritrova Manganelli, gli chiede aiuto: «Portatevelo, portatevelo» la risposta. La sera nessuno lo visita né gli danno la terapia. La sua cartella clinica recita: ipertensione, cardiopatia ischemica con pregressi infarti, epilessia, deficit psichico con episodi di autolesionismo”.

Tagliano le teste per colpire alle gambe, ma la lotta di classe non si arresta: Milano, foglio di via a Edoardo Sorge. Organizzò i picchetti presi d’assalto da vigilantes

Secondo il provvedimento della questura il coordinatore sindacale è “pericoloso socialmente”.

Non solo il sindacalista dei Cobas Adil Belakhdim è stato ucciso investito da un tir a Biandrate (Novara) il 18 giugno, non solo un lavoratore picchiato da una squadra di persone armate di bastoni finì in coma a Tavazzano lo scorso 11 giugno. Per l’anello più debole del mondo della logistica arriva un’altra cattiva notizia: la questura di Milano ha dato il foglio di via ad un altro sindacalista che organizzò le manifestazioni contro i licenziamenti al centro della logistica FedEx di San Giuliano Milanese, dove anche allora i lavoratori subirono minacce e violenze da gruppi di bodyguard. Il provvedimento è datato 31 maggio ma è stato notificato oggi a Eduardo Sorge dei Si Cobas.

I sindacati di base da mesi portano avanti una politica sindacale di conflitto contro licenziamenti, paghe al ribasso, turni di lavoro massacranti e le opacità societarie in materia di cooperative e subappalti nella logistica. Anche attraverso il blocco stradale dei mezzi delle società del settore. Che a loro volta si sono organizzate assoldando vigilantes privati pronti a sfondare i picchetti con la forza. Per il vicario del questore Cristiano Tatarelli la presenza di Sorge nel centro dell’hinterland milanese può essere “finalizzato a commettere attività illecite in grado di turbare l’ordine e la sicurezza pubblica”. Il sindacalista esprime “una pericolosità sociale concreta e attuale”.

Pericoloso per la salute pubblica è il comportamento di una multinazionale che in barba agli accordi chiude l’azienda per riaprire altrove per sfruttare lavoratori interinali, è pericolosissimo che sia il Questore di Milano a dire che il compenso economico per un licenziamento sia congruo o meno, è pericoloso il capitale, sono i padroni, lo stato borghese che difende i profitti di pochi estratti dal sudore dei tanti. I reati veri sono i licenziamenti, l’arruolamento di squadre private per aggredire i lavoratori, sono i sistemi giungla della logistica, sono le mancate risposte istituzionali. È pericoloso un sistema sociale e politico basato sulle sfruttamento.
E solo gli sfruttati, organizzati, possono difendere sé stessi per il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita, per una nuova società senza sfruttati né sfruttatori.

CHIUDERE IL LAGER DI TORTURA DI SANTA MARIA CAPUA VETERE!

Quanti video dell’orrore “legalizzato” si devono pubblicare per dare un minimo di giustizia ai detenuti massacrati?

Il lager di Santa Maria Capua Vetere deve essere chiuso!

Gli agenti torturatori devono essere arrestati! Compreso i responsabili dell’amministrazione penitenziaria che sapevano tutto e li hanno coperti.

La Ministra della giustizia, che non può affatto dire di non sapere, si deve dimettere.

Altro che mega Tavoli convocati dalla Cartabia in cui tutti sono “invitati” a “dibattito”, in cui i rappresentanti sindacali dei massacratori che tuttora li difendono hanno diritto di parola, in cui agenti torturatori e detenuti torturati vengono messi sullo stesso piano, e le condanne “morali” saranno equamente distribuite….

Qualcuno giustamente ha paragonato la mattanza del carcere alla mattanza del G8 di Genova; e come risponde il governo? Aprendo ennesime e inutili inchieste (cosa si deve sapere di più?) o con “inviti al dibattito”?

Così si assolvono i torturatori!

Nel marzo- aprile 2020 ci sono stati massacri, torture in tante carceri, vi sono stati i morti del carcere di Modena, le tragedie dei trasferimenti in altre carceri, ecc. ecc. le condizioni bestiali di detenzioni dopo le rivolte, tutto questo può finire in un mega dossier e al massimo in qualche denuncia a singoli agenti?

E’ stato un sistema di feroce repressione, diretto, gestito da Stato e governo, Ministri della giustizia.

E come al G8 di Genova devono tutti pagare!

Sappiamo bene la violenza dello Stato borghese, e che ad essa si può porre fine rovesciando questo Stato; ma è parte di questa battaglia che ora, ora, nessuno, nè rivoluzionari, nè democratici coerenti possano o debbano accettare questa farsa assolvente del sistema che il governo Draghi, la Min, Cartabia, buona parte dei mass media stanno mettendo in scena!