Lo sciopero della fame di Natascia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno disvelato alla collettività la brutalità delle prigioni. Eppure la disumanità del carcere non si rivela solo e sempre con quella forza bruta che si è espressa contro i detenuti del reparto Nilo, ma spesso si palesa con piccoli episodi di negazione quotidiana di diritti, subdolamente umiliando chi si trova ristretto.

Natascia Savio si trova dal 2019, senza soluzione di continuità, in stato di custodia cautelare. È imputata in due diversi processi, uno incardinato a Torino (per il quale è indagata a piede libero), l’altro a Genova. La misura cautelare in atto è solo per quest’ultimo procedimento.

Sebbene sia ancora sotto carcerazione preventiva, la trafila di Natascia nelle carceri italiane è stata tortuosa: ristretta prima a Rebibbia, poi a L’Aquila e Piacenza, infine, senza un apparente e utile motivo, trasferita a Santa Maria Capua Vetere, nonostante i suoi processi e i suoi affetti siano tutti tra Genova e Torino.

Santa Maria ha trascorso il suo periodo di detenzione in una situazione di isolamento dovuto all’emergenza Covid e gli 850 km che la separavano dalla sede dei suoi processi e dalla sua famiglia hanno, di fatto, impedito ogni contatto che possa ritenersi degno per un individuo in attesa di giudizio col suo avvocato difensore e con la sua famiglia. In particolare, Natascia, dal suo trasferimento a Santa Maria Capua Vetere, ha potuto confrontarsi col difensore solo per dieci minuti una volta al mese.

I due processi che la vedono imputata hanno un calendario fitto di udienze e, per le accuse mosse, necessitano di un continuo e costante confronto col difensore. Frequenti quindi sono gli spostamenti per raggiungere le sedi processuali. Per la prima udienza del processo di Torino, Natascia ha affrontato un viaggio di venti ore per presenziare a un’udienza di circa venti minuti, mentre per le successive udienze è stata temporaneamente trasferita a Vigevano, sottoposta a isolamento per via del Covid e dopo circa quindici giorni nuovamente riportata a Santa Maria Capua Vetere senza possibilità di fare alcun colloquio con i suoi familiari perché ne ha avuto la possibilità quando ormai era di nuovo in viaggio per ritornare verso l’istituto campano.

I continui trasferimenti hanno di fatto prolungato i suoi periodi di quarantena, addirittura impedendole l’ora d’aria al suo ultimo ingresso a Santa Maria Capua Vetere, comprimendo sempre più la sua permanenza nell’istituto di pena.

Dopo il temporaneo trasferimento a Vigevano ha dovuto, a Santa Maria, rifare tutto: richiesta per avere l’orologio, richiesta per avere la scheda telefonica e consentirle di sentire il difensore e la famiglia, ecc. Ogni singolo evento doveva essere concesso dall’istituzione, rendendo la già complessa vita carceraria, se possibile ancora più dura. In tutti i numerosi trasferimenti ha avuto difficoltà a ritrovare i suoi effetti personali, i soldi che le necessitavano per l’acquisto dei beni quotidiani, tutto recuperato solo dopo qualche giorno e non senza difficoltà.

Tutte queste umilianti privazioni hanno indotto Natascia a entrare in sciopero della fame. Sono ormai venti giorni che questo è l’unico modo per dar voce ai suoi diritti, l’unico modo per andare al di là delle mura del carcere facendo sentire la sua voce.

Eppure l’ordinamento penitenziario parla chiaro, all’art. 42: “I trasferimenti sono disposti solo per motivi gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari”. Appare chiaro che anche per la legge bisogna considerare primario il criterio della vicinanza alla famiglia o al riferimento sociale, al fine di non applicare un trattamento disumanizzante che tende ad annientare la persona detenuta.

È inspiegabile come un imputato, detenuto in via preventiva e cautelare, possa essere sottoposto a un trattamento tale da ostacolare la sua difesa processuale. Anche questa è forza bruta che si dispiega contro ogni ragione su chi si trova ristretto. Non è accettabile che un tale sistema porti un singolo a optare per uno sciopero della fame affinché vengano quantomeno ascoltate le sue ragioni.

Sperando che quanto sta accadendo in questi giorni nel dibattito pubblico sulle carceri faccia aprire gli occhi anche sui casi come quello di Natascia Savio, affamata di dignità in un paese che, in tema di diritti dei detenuti, lascia sempre il piatto vuoto. (donato barbato / antonella distefano)

Da https://napolimonitor.it

Da Radio Onda D’Urto l’intervista all’avvocato di Natascia Savio, Claudio Novaro.Ascolta o Scarica.

La polizia penitenziaria ai familiari dei detenuti: “ritirate le denunce”

Lo striscione attaccato a Pozzuoli
“Gli agenti dopo 15, 20 giorni volevano far ritirare le denunce, io non l’ho mai fatto. Lo chiedevano ai detenuti, di tornare in una situazione di pace tra di loro e ritirare le denunce.
Quel video mi ha turbato, perché ho riconosciuto mio marito.”
Il racconto di Flavia, moglie di uno dei detenuti picchiati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

“Pestaggi anche in altre carceri”

Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere è stato una cosa eclatante, ma non è accaduto solo lì“. Così il garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia, nella conferenza stampa dopo i fatti avvenuti nel carcere casertano, con 52 misure cautelari ai danni di esponenti della polizia penitenziaria per pestaggi ai detenuti.

Ioia ha lanciato un appello “agli altri colleghi garanti dei detenuti di altre città. Queste cose succedono anche in altre carceri del Sud, del Centro e del Nord“. Ioia, ex detenuto che ha trascorso alcuni anni nel carcere napoletano di Poggioreale, ha spiegato che “il sistema Poggioreale”, al quale alcuni agenti della penitenziaria fanno riferimento nelle chat finite nell’ordinanza del gip, “non esiste più. Era il sistema per cui i poliziotti in branco assalivano i detenuti, successe anche a me tanti anni fa. Oggi non esiste più“.

Presenti alla conferenza stampa anche gli altri 4 garanti provinciali campani e il garante regionale Samuele Ciambriello.

Scriveremo una lettera – ha detto Ciambriello – perché noi garanti vogliamo essere ascoltati dal capo del Dap, Bernardo Petralia, dal vice Roberto Tartaglia, e anche da Gianfranco De Gesu, direttore nazionale dei detenuti e trattamento, dirigente designato in questi giorni a intervenire a livello di coordinatore commissione interna indetta dal ministero“. “Vogliamo anche essere ricevuti dal nuovo provveditore campano pro tempore, Carmelo Cantone“, ha continuato Ciambriello, il quale ha chiesto infine il completamento campagna vaccinale nelle carceri.

Non solo pestaggi ma stupri. Non c’è fine allo schifo di questi fascisti in divisa

Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere c’è una stanza per le punizioni e ci sono video peggiori di quello pubblicato sinora dai media. Le testimonianze dei detenuti davanti al pm e i colloqui con lo psichiatra svelano altre violenze.

Ispezioni intime, obbligo di spogliarsi nudi e flessioni, sputi in faccia e in bocca. E abusi anche peggiori. Le testimonianze dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere davanti ai pubblici ministeri e le confessioni allo psichiatra disegnano una serie di episodi che non sono emersi nei video divulgati nell’inchiesta della Procura di Caserta.

Secondo il garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambirello, nelle mani degli inquirenti che indagano sui pestaggi dei detenuti avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero video «ancora più raccapriccianti» di quelli già pubblicati in Rete. Una convinzione che non nasce dalla conoscenza di atti riservati, ma da quanto Ciambirello ha appreso dai detenuti incontrati in carcere, da quei racconti che lo spinsero poi a presentare l’esposto dal quale è nata l’inchiesta della Procura che ha portato all’arresto di ventisei tra funzionari e agenti di polizia penitenziaria e ad altrettante interdizioni, compresa quella del provveditore regionale del Dap Antonio Fullone, che proprio ieri nell’interrogatorio di garanzia si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Nelle testimonianze dei detenuti che hanno subito i pestaggi, in effetti, non si parla soltanto delle botte prese nei corridoi del reparto Nilo, lungo le scale e nella sala dedicata alla socialità. Si riferisce anche di atti degradanti come ispezioni intime, obbligo di spogliarsi nudi e fare flessioni e sputi sulla faccia e in qualche circostanza anche in bocca. E sarebbe avvenuto di peggio. Abusi di cui le vittime non sono riuscite a parlare con le due pm che conducono l’inchiesta e che hanno trovato il coraggio di riferire soltanto allo psichiatra. «Sono stato urinato addosso dalle guardie, ero in una pozza di sangue e mi hanno urinato addosso, sono stato sputato in bocca e in faccia più volte», racconta un detenuto. E aggiunge: «Davanti ai miei occhi hanno preso un ragazzo e lo hanno violentato. Un altro ragazzo stava molto male, volevo farlo bere, le guardie mi diedero una bottiglietta d’acqua ma era vuota e, quando lo feci presente, loro deridendomi mi portarono in bagno e, tirato lo sciacquone del water, mi dissero di riempirla lì». E ancora: «Ho visto violentare un ragazzo. E a me hanno sputato in bocca»

Queste scene, che sarebbero avvenute per lo più nell’ufficio matricola, nei video circolati finora non ci sono. Ma agli atti dell’inchiesta ci sono quasi venti ore di registrazioni, e che ci siano o meno le immagini relative a questi episodi, Procura e gip ritengono le testimonianze attendibili, anche sulla base degli accertamenti psicodiagnostici ai quali sono stati sottoposti i detenuti vittime dei soprusi. Anzi, da tutto quello che i detenuti hanno messo a verbale, sembrerebbe che non si possa circoscrivere la violenza di alcuni agenti penitenziari soltanto a ciò che accadde il 6 aprile dell’anno scorso. Un recluso riferisce un episodio del passato, avvenuto in occasione di una lite tra un italiano e uno straniero: «Sono intervenuti circa 50 agenti, che hanno soppresso la lite, picchiando i partecipanti e sputandogli addosso». Al reparto Nilo «vi è una squadretta di cui fanno parte tale “il marcianisano”, “il palestrato” e “Pasquale il drogato”, che a mio avviso sono quelli esaltati». Un altro recluso parla della «squadretta», ma non fa nomi, e della «stanza zero»: «La squadretta è composta sempre dalle stesse persone e la stanza zero è una cella al piano terra del reparto Nilo usata dalla squadretta per punire i detenuti».

E alla luce di tutto questo il carcere di Santa Maria, dove solo nel 2020 ci sono stati due suicidi, trenta tentativi di suicidio e 196 atti di autolesionismo, diventa un caso anche in Europa, con il portavoce dell’esecutivo comunitario per la Giustizia, Christian Wiegand, che dice: «È dovere delle autorità nazionali proteggere tutti i cittadini dalla violenza e tenerli al sicuro in ogni circostanza». E fa sapere che la Commissione non commenta l’inchiesta giudiziaria ma «si aspetta un’indagine indipendente e approfondita da parte delle autorità italiane competenti».

Ieri intanto Repubblica ha pubblicato nuovi video con immagini ancora più raccapriccianti, che immortalano il pomeriggio di torture e maltrattamenti nel Reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella”. Quattro ore di “ignobile mattanza”, come l’ha definita il giudice per le indagini preliminari:

https://video.repubblica.it/edizione/napoli/pestaggi-in-carcere-nuovi-video-da-santa-maria-capua-vetere/391037/391751?video

Nei video decine di operatori della Penitenziaria accerchiano uno o due detenuti per volta: chi assesta un colpo alla testa, chi li prende a calci, chi li picchia sulla schiena o sulla nuca. In alcune circostanze, più agenti si concentrano contemporaneamente su un’unica vittima. I reclusi si muovono a passi lenti, piegati dalla paura, le mani in testa nel tentativo di parare i colpi.

A partecipare alla spedizione punitiva, secondo l’accusa, il personale della penitenziaria di quel carcere insieme al Gruppo speciale di Supporto, creato dal provveditore Fullone per arginare la crisi scoppiata nei giorni del lockdown anche nei penitenziari della Campania: 283 operatori in tutto. “Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano nelle chat, poco dopo, mentre i detenuti erano abbandonati sotto il peso di ecchimosi, lividi e fratture.

Violenze e torture in carcere: tutte le denunce da Torino a Santa Maria Capua Vetere

Da Osservatorio repressione

Torture, abusi, omissioni e pestaggi non sono opera solo della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Indagini per violenze in carcere sono aperte un po’ in tutta Italia: da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando per Pavia, Voghera, Modena, Ferrara, Firenze, Viterbo e Lucera. Ecco una mappa di quel che sta succedendo

Non solo Santa Maria Capua Vetere e la mattanza nel carcere casertano, il carcere dell’ultimo scandalo. Torture e abusi e omissioni sono stati denunciati da persone detenute in altri istituti distribuiti in mezza Italia, prima e dopo le rivolte di marzo e aprile 2020.

Da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando per FerraraFirenzeViterboLuceraMorti anomale, rubricate come suicidi, overdose, decessi per cause naturali. Pestaggi di massa, come nella casa circondariale ora diventata un simbolo. O punizioni individuali, mirate.

In alcune procure le indagini marciano a ritmo serrato e scandagliano in profondità, approdate alle prime condanne (appellabili e dunque non definitive) e anche per tortura. In altre procure gli accertamenti restano in superficie, avviati verso l’archiviazione.

Detenuti poco credibili? Il potere delle immagini

La differenza, nell’accertamento della verità, sembrano farla le immagini. I detenuti che raccontano di botte e manganellate vengono creduti quando i video immortalano aggressioni e scene pulp. Dove le telecamere non ci sono oppure risultano disattivate, o le se riprese vengono cancellate per scelta o per prassi, le speranze di ricostruire i fatti (e le responsabilità) si assottigliano. E rischiano di azzerarsi quando la (presunta) vittima di vessazioni e violenze è un detenuto con atteggiamenti aggressivi o ribelli.

La sola associazione Antigone in una manciata di anni ha promosso o contribuito a promuovere 17 inchieste e le sta seguendo come “persona offesa”. Questo ruolo non le è stato riconosciuto dal giudice di Modena che si è occupato di 8 dei 13 decessi contati nei giorni delle sommosse e dei trasferimenti di massa. Anche il Garante nazionale dei detenuti è stato estromesso dal procedimento emiliano, nel silenzio generale.

Milano-Opera e le denunce di violenza dei parenti

Madri, sorelle, compagne di detenuti rinchiusi a Opera, 8 persone, dopo le violente azioni di protesta dell’8 marzo 2020 si rivolsero ad Antigone per raccontare quello che avevano saputo da familiari e congiunti. I parenti parlavano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche carcerati anziani e malati di cancro e che avrebbero portato a mascelle, setti nasali e braccia rotte. Antigone inviò un esposto alla magistratura.

La denuncia cumulativa, lo spiega ad Osservatorio Diritti il procuratore aggiunto milanese Alberto Nobili, «non ha avuto seguito, perché non sono stati trovati riscontri alle dichiarazioni riportate e alle presunte lesioni indicate». Si è invece conclusa l’inchiesta sui reati commessi dai rivoltosi, 17 dei quali condannati a febbraio.

Polizia penitenziaria e violenze: «Indagini da riaprire»

Gaspare G., anche lui detenuto ad Opera, una denuncia l’ha scritta di suo pugno e l’ha presentata attraverso l’avvocato di fiducia, Eugenio Losco. Un paio di settimane dopo la rivolta di marzo 2020, alla quale ha preso parte, in reparto ha litigato con alcuni poliziotti penitenziari per questioni legate all’acquisto del vitto allo spaccio interno. Quattro o cinque agenti poi lo avrebbero raggiunto in cella, insultato e malmenato.

Secondo il personale, invece, sarebbe stato lui ad avventarsi contro gli operatori in divisa. Il medico che lo ha visitato ha riscontrato un arrossamento della cute sulla fronte e gli ha dato zero giorni di prognosi.

Il pm Giovanni Polizzi, ricostruiti il curriculum e i procedimenti disciplinari collezionati, ha ritenuto le dichiarazioni del denunciante contraddittorie e insufficienti a sostenere l’accusa contro i poliziotti. Così ha chiesto al gip di archiviare tutto.

L’avvocato Losco si è opposto e ha rilanciato, chiedendo di fare quello che la procura ha omesso: interrogare il detenuto e sentire tutti i possibili testimoni oculari, i compagni di cella e di raggio. Nella sezione le videocamere di sorveglianza ci sono e c’erano. Ma le immagini del bisticcio sono state sovrascritte da altre immagini, come succede ogni 7 giorni e tutela della privacy, come almeno scrive il pm. Il giudice deciderà a settembre.

Violenze in carcere: Melfi come Santa Maria Capua Vetere?

Antigone, sempre dopo le sommosse del 2020, è stata contattata anche dai familiari di persone rinchiuse nel carcere di Melfi.  La notte del 17 marzo 2020, riferiscono i parenti in prima linea, sarebbe scattata una ritorsione per la sommossa scoppiata il giorno 9. Un “prequel”, un antefatto, di Santa Maria Capua Vetere.

Una squadra di agenti sarebbe entrata nelle celle dell’alta sicurezza e avrebbe umiliato e vessato una settantina di detenuti, fatti inginocchiare, denudati, picchiati a mani nude e con manganelli, presi a sputi e insulti e poi messi in isolamento o trasferiti altrove.

Non solo. I poliziotti del penitenziario potentino avrebbero fatto firmare false dichiarazioni alle persone ferite, costringendole a sostenere di essersi procurate le lesioni cadendo accidentalmente.

Scene da macelleria messicana raccontate dalle vittime

I racconti dei carcerati di Melfi sono finiti agli atti.

«Gli agenti ci hanno legato i polsi con fascette da elettricista, lungo il tragitto che ci portava al pullman ci urlavano di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con calci nel sedere e in altre parti del corpo». «C’erano agenti incappucciati e altri col passamontagna». «Sono entrati nella cella e hanno pestato mio zio, che è cardiopatico e ha due stent».

Il 3 maggio 2021 la procura ha chiesto al gip l’archiviazione, contro cui il 3 giugno ha presentato opposizione Antigone. Continua a leggere

Riesame, rigettato il ricorso di Paolo Persichetti: La storia di un pezzo di storia sotto sequestro

Polizia, procure e dietrologia, la santa alleanza contro la ricerca indipendente sugli anni 70

Da https://insorgenze.net

Il tribunale del riesame ha rigettato il ricorso contro il sequestro del mio archivio, degli strumenti di lavoro e comunicazione, computer, smartphone, tablet e ogni altro supporto informatico, l’intero l’archivio fotografico di mia moglie, lo spazio cloud dove erano stoccati oltre al mio materiale storiografico anche le cartelle cliniche, amministrative e scolastiche dei miei figli (leggi qui).
All’udienza che doveva esaminare l’impugnazione presenta dal mio legale, tenutasi venerdì 2 luglio, era presente il pm titolare del decreto di sequestro. Una circostanza del tutto irrituale, non accade praticamente mai che i procuratori della repubblica vengano a difendere le proprie ragioni in udienze del genere. Il Pm probabilmente nutriva qualche timore sulla fondatezza delle sue decisioni ed è venuto in prima persona a cauzionarle. In aula, a dire il vero, non si è soffermato – come ci attendevamo e sarebbe stato logico – sulle ragioni che hanno giustificato la scelta dei capi d’imputazione. Nulla ha detto sul presunto favoreggiamento, ancora meno sul 270 bis. Eppure era stato appena chiamato in causa dall’avvocato Romeo che chiedeva quali fossero gli altri associati, le condotte censurate, il ruolo organizzativo presunto nell’associazione (semplice partecipante? Promotore? Organizzatore? Finanziatore?), i proclami, le azioni realizzate o programmate.
Anche sulla natura “riservata” dei documenti che avrei divulgato, il titolare delle indagini ha glissato velocemente, sostenendo che tutti i regolamenti inevitabilmente danno luogo ad interpretazioni soggettive e che dunque sarebbe servito a poco soffermarsi su una discussione del genere. Non si capisce però, se le cose stanno così, perché la sua interpretazione soggettiva dovrebbe essere prevalente. In ogni caso stando all’articolo 2 della “Deliberazione sul regime di divulgazione degli atti e dei documenti”, stabilito dalla stessa Commissione presieduta dal presidente Giuseppe Fioroni il 15 ottobre 2014, sono considerati documenti riservati «gli atti giudiziari, i documenti provenienti dalle autorità amministrative e di governo per i quali sia stato raccomandato l’uso riservato, documenti provenienti da soggetti privati per i quali sia stata richiesta la riservatezza, infine documenti che al momento dell’acquisizione siano stati classificati come tali». Insomma secondo le regole che si è data la Commissione Moro 2, le Relazioni di bilancio annuale e tantomeno le loro bozze, che in un altra nota non assumono alcuna fattispecie documentale ma al contrario vengono ritenute «inesistenti», non sono documenti riservati. E non potrebbe essere altrimenti trattandosi di documenti politici, risultato di una discussione, di emendamenti e di un voto finale.In un Paese normale la discussione si sarebbe conclusa qui. Ma in Italia il sistema Giustizia non funziona cosi e i Pm dettano legge così il responsabile dell’accusa ha preso la parola narrando i suoi impegni professionali, i numerosi filoni d’inchiesta aperti che ha ereditato dalle attività irrisolte della Commissione Fioroni e che in parte condivide con la procura generale. Ha tirato fuori dal cilindro una serie di argomenti che non erano indicati nel provvedimento di sequestro e nelle carte depositate, impedendo alla difesa così di sviluppare le proprie controdeduzioni.
Ha spiegato che potrebbero esserci in giro altre prigioni dove Moro sarebbe stato rinchiuso nei 55 giorni del sequestro e dunque che ci sarebbero in giro ancora degli ex brigatisti mai catturati, affittuari o titolari di quelle abitazioni (sembrava recitasse a memoria i libri di Flamigni o Cucchiarelli), ha poi tirato fuori il cartellino fotosegnaletico falso su Alessio Casimirri (leggi qui) finito tra le mani della Commissione Moro, chiedendosi se quel documento fosse la prova dell’arresto di Casimirri e della sua successiva liberazione e quindi delle coperture di cui si sarebbe giovato nelle istituzioni o se invece quel documento fosse un falso, messo lì da pezzi “deviati” degli apparati. Sono passati tre anni dalla chiusura dei lavori della Commissione e il fatto che il responsabile dell’inchiesta non sia stato in grado di accennare uno straccio di risposta sulla questione, partendo da un assunto che era già palese all’epoca, ovvero che quel cartellino era un falso, ma oggi pensi che la soluzione del mistero passi per il mio archivio e le cartelle cliniche di mio figlio, la dice lunga.
Infine, dulcis in fundo, come una serie americana, ha tirato fuori l’Fbi, l’indagine internazionale (probabilmente una semplice rogatoria) sulle caselle postali elettroniche di Alessio Casimirri, ormai cittadino nicaraguense. L’intercettazione del suo traffico mail avrebbe portato – ha spiegato il pm – alla scoperta di conversazioni con Alvaro Lojacono Baragiola, suo compagno nelle Br al momento del sequestro Moro, ed oggi cittadino svizzero, Paese dove ha scontato una lunga condanna per la sua appartenenza alle Brigate rosse. I due si sarebbero intrattenuti spesso sulle vicende di via Fani ricostruendone alcuni passaggi. Fatto grave, secondo il pm, era il fatto che Lojacono conversasse prima con Persichetti che poneva domande, sollevava questioni e poi ne parlasse con Casimirri. Non ho ancora avuto accesso a queste carte, e nemmeno i giudici del riesame che hanno deciso sulla parola del pm, posso solo ipotizzare che con tutta probabilità ciò avveniva negli anni in cui era in corso il lavoro preparatorio che ha portato al libro “Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera”.
Con tutta evidenza, in quegli scambi non ci sono nomi nuovi, altrimenti le autorità di polizia sarebbero già intervenute, ma ai loro occhi questa normale attività di interrogazione delle fonti testimoniali, proprie di un lavoro di ricerca storiografica, appare sospetta, degna di ulteriori accertamenti e sequestri. A più di quarant’anni dai fatti, la polizia vuole ficcare il naso nella ricerca storica, criminalizzando l’attività di studio e ascolto delle fonti.
Il pubblico ministero ha inviato un chiaro messaggio ai giudici del riesame: non intralciate le mie indagini, non cassate il mio sequestro esplorativo perché altrimenti bloccate la scoperta dei segreti di questo Paese che per forza di cose passano per casa Persichetti. Altro dato emerso nell’udienza di venerdì è la sovrapposizione tra indagini della procura, attività delle forze di polizia e narrazioni dietrologie. Un fronte comune schierato contro la ricerca indipendente. Le fonti testimoniali e chi va a scomodarle d’ora in poi dovranno saperlo: se provano a ricostruire quegli anni al di fuori dei circuiti istituzionali legittimi sono passibili di reato associativo e favoreggiamento. La storia è sotto sequestro, il rapimento Moro è recintato col filo spinato.

Di seguito potete leggere la dichiarazione che ho depositato davanti al riesame e che ricostruisce il lavoro preparatorio del libro e i rapporti intrattenuti con la commissione Fioroni nel 2015.

Dichiarazione di Paolo Persichetti ai giudici del tribunale del riesame presso il Tribunale di Roma – udienza del 2 luglio 2021 Continua a leggere

Detenuti allontanati dalla Campania dopo le denunce

L’indagine su Santa Maria Capua Vetere. La protesta dei garanti della regione: «Li portano via di notte eppure, dopo “la mattanza”, guardie e reclusi sono rimasti nello stesso penitenziario per oltre un anno»

Si è avvalso della facoltà di non rispondere il provveditore delle carceri campane (sospeso dal servizio) Antonio Fullone, durante l’interrogatorio di garanzia ieri con il gip Sergio Enea. L’indagine è quella sulla «orribile mattanza» ai danni dei detenuti del reparto Nilo il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fullone è indagato per depistaggio e favoreggiamento. Per la procura avrebbe autorizzato la «perquisizione straordinaria», ritenuta però arbitraria dai pm e dal gip, realizzata per rappresaglia dopo le proteste del 5, quando al Nilo si barricarono dopo aver avuto notizia della positività al Covid di un detenuto. «Le immagini viste sono solo una parte, quelle più raccapriccianti le ha solo la procura» hanno spiegato ieri i garanti dei detenuti provinciali e regionale, durante una conferenza stampa congiunta.

«IL CARCERE SAMMARITANO – racconta Emanuela Belcuore, garante dell’area di Caserta – è stato costruito senza rete idrica, sono 25 anni che non c’è l’allaccio. L’acqua viene portata con le autobotti o bisogna ricorrere a quella in bottiglia. Esce dai rubinetti giallo marrone, con il Covid i detenuti si sono dovuti lavare con acqua che porta dermatiti e irritazioni. A pochi chilometri c’è una discarica a cielo aperto, d’estate si formano zanzare enormi. I reparti maschile e femminile di alta sicurezza sono sovraffollati e a regime chiuso. Con il Covid c’è stato il blocco dei volontari, pochissime le attività ricreative». Quando lunedì scorso è esplosa l’inchiesta nel carcere c’è stato un black out elettrico, i detenuti sono rimasti senza tv ma, denuncia Belcuore, non sono stati distribuiti neppure i quotidiani, che i detenuti pagano. «Mi hanno detto che alcuni agenti hanno imposto di strappare le pagine dei quotidiani con le foto degli indagati».

DOPO LE SOSPENSIONI degli indagati sono arrivati nuovi agenti: «Per oltre un anno maltrattati e maltrattanti sono stati nello stesso carcere – commenta Belcuore -. Quando gli agenti sono stati sospesi hanno iniziato a spostare i detenuti del Nilo, 32 finora, che avevano denunciato le percosse verso altri istituti, in Calabria, Sicilia, Umbria. Li prendono di notte e li portano via. Le famiglie non possono raggiungerli per i colloqui. I detenuti che hanno chiesto l’avvicinamento a casa sono ancora lì».

A METTERE IN MOTO le indagini è stata anche la denuncia del garante campano, Samuele Ciambriello: «Uno dei detenuti del Nilo va ai domiciliari, posta sui sociale le foto delle percosse. Queste e le registrazioni delle chiamate con i familiari, dove altri raccontano cos’era successo, sono la base del mio esposto dell’8 aprile 2020. Per dieci giorni mi hanno raccontato fatti raccapriccianti. Nella seconda lettera che mando in procura c’è l’elenco di 16 detenuti, nome, cognome e data di nascita, disponibili a essere ascoltati dai magistrati. Alcuni mi dicevano di pressioni subite per ritirare la denuncia. Non è solo Salvini che fa propaganda, a novembre il ministero ancora ripeteva “abbiamo ristabilito l’ordine”».

UN IMPULSO IMPORTANTE all’indagine si deve al magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Il 5 aprile le proteste pacifiche, il 6 Puglia arriva all’istituto per tranquillizzare i detenuti. Il comandante della penitenziaria, Gaetano Manganelli, non vorrebbe farlo parlare con quelli del Nilo perché «era prevista una perquisizione». Riesce a incontrarli e agli atti fa mettere: «I detenuti si comportarono in modo rispettoso e tennero a ribadirmi che la loro protesta era contenuta e pacifica». L’8 il post sui social, che racconta: «Non appena il dottor Puglia si è allontanato era stata eseguita la perquisizione durante la quale molti detenuti erano stati picchiati».

Il magistrato lo stesso giorno chiede di parlare con i reclusi del Nilo, nel frattempo spostati in punizione al Danubio, ma non ci riesce perché «mancava il personale che potesse accompagnarli in sala per la videoconferenza». Puglia al gip spiega: «Mi insospettii e il 9 disposi che mi portassero a colloquio con Teams proprio quei detenuti che non mi avevano portato il giorno prima. Emanuele Irollo mi raccontò che era stato picchiato. Mostrava tramite webcam le ecchimosi sulle spalle. Agenti sui lati dei corridoi gli avevano procurato le lesioni e avevano sputato su di lui».

LA SERA STESSA PUGLIA va a ispezionare il Danubio senza avvertire nessuno. Visita alti 7 detenuti, avevano ecchimosi, ematomi agli occhi, «nessuno era stato visitato in infermeria ma, al più, sottoposto a una rapita valutazione del medico di turno». Erano senza lenzuola, senza biancheria né sapone, «mi riferivano che era stato loro impedito di contattare i familiari». Qual era il clima lo racconta ancora Puglia: «Tutti si sorpresero della mia presenza alle 21.30 al Danubio. Rimasero basiti. In ogni mio spostamento fui seguito, come un’ombra, da 3 unità di polizia penitenziaria. Chiesi più volte carta e penna in modo che potessi annotare quello che vedevo. Quando finalmente riuscii ad averli costoro lo trattenevano in mano, decisi di annotare i particolari sul mio smartphone». L’11 arriva il sequestro delle telecamere di videosorveglianza.

Da Il Manifesto

VERITA’ PER LE MATTANZE DI PRIMAVERA

Riceviamo e pubblichiamo da Associazione Yairaiha Onlus

VERITA’ PER LE MATTANZE DI PRIMAVERA
Per far sì che venga fuori la verità sulle mattanze della primavera 2020 nelle carceri italiane (non solo Santa Maria Capua Vetere) è necessario non aver paura di denunciare, anche se ancora detenuti, anche se soggetti ad altri procedimenti. Le “piantagioni marce” contano su queste paure non tanto, e non solo, per non pagare quanto già fatto quanto, piuttosto, continuare a massacrare impunemente. Accanto alle centinaia di massacrati ricordiamoci dei 14 morti; e ricordiamoci che al posto loro sarebbe potuto essere chiunque tra i nostri cari a perdere la vita.
Quella che segue è una mail, molto eloquente, ricevuta oggi pomeriggio. Facciamo appello anche a questa signora e a tutti gli altri familiari ed ex detenuti che hanno visto o subito quegli abusi affinché si abbatta il muro di omertà che protegge i torturatori.
Associazione Yairaiha Onlus
“Salve, ho letto un vostro articolo, sulle violenze avvenute dopo le rivolte al carcere di Foggia, io sono la compagna di un detenuto, attualmente ancora lo è, ma presso Reggio Calabria trasferito dopo la rivolta nonostante lui non era fuggito dal carcere ma stava all interno, quella sera entrarono nella sua cella 8o9 persone e lo picchiarono calci, pugni, manganellate avanti gli altri detenuti poi se ne andarono, poi di primo mattino di nuovo sempre 8o9 persone con passamontagna lo ripreso lo portarono in una cella da solo e di nuovo calci, pugni e manganellate mentre lui era seduto a terra ranicchiato cercava di guardarli e loro mentre lo picchiavano gli ripetevano “Abbassa lo sguardo”… Il mio compagno aveva tutto il corpo tumefatto dalla testa ai piedi… Poi lo presero col pigiama e scalzo, lo hanno messo sull pullmann con hai polsi invece delle manette lo hanno legato con le fascette, e senza fargli prendere abiti, soldi, effetti personali nemmeno le foto dei figli piccolini gli hanno fatto prendere, lo hanno sbattuto a 600 km, dove dopo 10 giorni lo sentito io che piangeva al telefono per le violenze subite e nemmeno l intimo per cambiarsi al nuovo carcere… Ad oggi sta ancora pagando il suo conto con la giustizia, ma quello che ha subito come tanti altri a Foggia non si fa nemmeno agli animali… Spero si vada a fondo e paghi chi deve pagare come stanno facendo i nostri mariti… Aiutateci voi a dare voce a queste ingiustizie….Per il momento vorrei rimanere anonima… Grazie”

 

Diffondiamo inoltre da:

Parenti e amici dei detenuti a Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano

Ieri abbiamo attaccato diversi striscioni, sulle violenze nel carcere di S. M. C. Vetere, fuori al carcere di #poggioreale, di #secondigliano, di #pozzuoli e in diverse piazze di Napoli.
6 aprile 2020 carcere di Santa Maria Capua vetere;
52 misure cautelari;
Oltre 100 indagati;
Prima la mattanza
Poi Trasferimenti
Blocco di colloqui e chiamate
Isolamento
Falsi
Calunnie
Depistaggi
OMERTÀ
non è la mafia
È la polizia penitenziaria
Santa Maria Capua Vetere 6 aprile 2020;
Non è un caso;
Non è una fatalità;
Non solo mele marce.
È malato tutto l’albero.
IL CARCERE È TORTURA
ABOLIAMOLO!