Iran, 4 morti nella repressione delle proteste per la carenza di acqua

Da Il manifesto

Quattro morti nelle proteste. Teheran alterna repressione a «solidarietà»
In piazza per la carenza d’acqua nella regione del Khuzestan, dove vive la minoranza araba. Khamenei e Rohani aprono alle richieste, ma è la polizia anti-sommossa ad affrontare i manifestanti

Sono almeno quattro i morti e tanti altri i feriti nella regione iraniana del Khuzestan, dove il 15 luglio sono cominciate le proteste per la carenza di acqua. La siccità ha colpito la regione sudoccidentale dell’Iran lo scorso marzo.

Una situazione drammatica, esacerbata dai cambiamenti climatici. In particolare, dalle tempeste di sabbia provenienti dalla penisola araba e dal vicino Iraq, che hanno reso aride le pianure un tempo fertili.

LA SCARSITÀ DI ACQUA non riguarda esclusivamente il Khuzestan: è uno dei tanti fattori che frenano economicamente l’intero paese, dove solo un decimo del territorio è coltivato e, di questa frazione, soltanto un terzo è irrigato.

Intanto, la repressione di regime ha attirato l’attenzione dei vertici delle Nazioni unite. Venerdì l’Alta commissaria per i diritti umani Michelle Bachelet ha invitato le autorità di Teheran «a risolvere il problema della scarsità dell’acqua, anziché utilizzare la forza per reprimere le proteste, perché sparare e arrestare la gente non farà che aumentare la rabbia e la disperazione».

Secondo le autorità della Repubblica islamica, a uccidere i dimostranti sarebbero però stati «opportunisti» e «rivoltosi» che «vogliono trarre vantaggio dalla situazione». Le emittenti in persiano fuori dall’Iran hanno mandato in onda video di proteste in diverse località, centinaia di dimostranti in strada, slogan contro le autorità, polizia in assetto antisommossa. Ma non è chiaro se le immagini siano state contraffatte dai nemici dell’Iran.

In questi giorni, l’establishment della Repubblica islamica si è espresso in merito alle proteste. Segretario generale del Consiglio supremo per la Sicurezza nazionale, l’Ammiraglio Ali Shamkhani ha riferito che «le forze di sicurezza hanno ricevuto l’ordine di rilasciare immediatamente tutti coloro che erano stati arrestati durante i recenti incidenti in Khuzestan, se non hanno commesso atti criminali».

GIOVEDÌ IL PRESIDENTE uscente Hassan Rohani ha dichiarato in una trasmissione sulla televisione di Stato che i cittadini del Khuzestan «hanno il diritto di parlare, esprimersi, protestare e anche scendere in strada, nel rispetto delle norme» e ha invitato a risolvere la questione nei termini della legalità.

Da parte sua, il leader supremo Ali Khamenei ha riconosciuto la gravità del problema dell’acqua e ha detto che i residenti della regione sudoccidentale, particolarmente calda e colpita dalla siccità, non sono da biasimare per il loro scontento, ma ha chiesto loro di essere cauti: «Il nemico cercherà di usare ogni strumento contro la rivoluzione, la nazione e gli interessi del popolo, quindi dobbiamo stare attenti e non dargli alcun pretesto».

Nel Khuzestan vivono 4,7 milioni di iraniani. È un’area ben collegata con il resto del paese e che racchiude l’80 percento delle riserve petrolifere dell’Iran. Eppure, dalla Rivoluzione del 1979 questa regione non è stata potenziata dal punto di vista economico per ovvi motivi politici: qui vive quel due percento (1,6 milioni) della popolazione iraniana appartenente alla minoranza etnico-linguistica degli arabi.

UNA MINORANZA che, all’indomani dell’invasione irachena del settembre 1980, aveva però dimostrato la propria fedeltà all’Iran: gli arabi cittadini della Repubblica islamica non avevano fatto defezione, non avevano preso le parti del dittatore iracheno Saddam Hussein ma lo avevano combattuto. Detto questo, nei decenni successivi gli arabi dell’Iran hanno a più riprese rivendicato maggiori diritti.

Nel 2019, per esempio, proprio la regione del Khuzestan era stata una dei fulcri delle proteste antigovernative che avevano coinvolto anche altre parti del paese.

Orrore in Colombia: oltre cento gli attivisti assassinati

Da gennaio, ne è stato ucciso uno ogni 48 ore. E il massacro accelera. I principali responsabili sono i nuovi paramilitari che hanno colmato il vuoto lasciato dalla guerriglia
Manifestazione a Cali: una delle ragioni delle proteste è la strage degli attivisti
dal primo gennaio, ogni 48 ore, è stato assassinato un leader sociale, ovvero una persona impegnata nel servizio alla comunità, in termini di difesa dei diritti degli abitanti. Una figura fondamentale nella sterminata Colombia rurale, dove lo Stato è pressoché assente. Nell’ultima settimana, il ritmo della strage – giunta alla tragica quota di 101 vittime in meno di sei mesi – ha accelerato. Da domenica, il massacro è stato quotidiano, con l’eccezione di martedì. Mercoledì a Santa Marta, Juana Iris Ramírez Martínez è stata colpita da una raffica di proiettili mentre andava a fare la spesa. La giovane mamma di due bimbi era attiva nel consiglio del sobborgo di periferia dove viveva, a Santa Marta. Il giorno successivo è toccato ad Andrés Córdoba Tamaniza, esponente del popolo indigeno Embera di Totumal, nella zona di Caldas. Con il suo omicidio, la Colombia ha oltrepassato la soglia dei cento attivisti assassinati. Meno di ventiquattro ore dopo, un altro delitto, il 101esimo: José Vianey Gaviria, noto difensore dei contadini del Caquetá, è stato crivellato da una raffica di proiettili a La Montañita.

L’eccidio degli attivisti è la drammatica manifestazione della profonda crisi della nazione. A quasi cinque anni dall’accordo tra il governo e la guerriglia delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), il processo di pace si è incagliato a causa delle difficoltà strutturali e della scarsa volontà politica del presidente, Iván Duque. Le istituzioni non sono state in grado di colmare il vuoto lasciato dai guerriglieri, in seguito al disarmo. Ad approfittarne sono stati subito altri gruppi, in particolare i nuovi paramilitari, eredi delle vecchie Autofedensas, formazioni d’ultradestra costituite in versione anti-Farc. Sono loro i principali responsabili del massacro degli attivisti, perpetrato per terrorizzare e asservire la popolazione locale.

Caso Persichetti, si ridimensiona l’accusa ma il sequestro resta. Chi sequestra un archivio, attacca la libertà di ricerca e nel caso di Paolo la ricerca storica sugli anni 70, e non è un caso

Di Paolo Persichetti

Lo scorso 2 luglio il Tribunale del riesame rigettando la richiesta di dissequestro del mio archivio di materiali storici e della documentazione privata della mia famiglia ha corretto le imputazioni indicate dalla procura ritenendo più adeguata la contestazione dell’art. 262 cp, «Rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione», anziché l’art. 378 (favoreggiamento) e il 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordinamento costituzionale).
Come in una sorta di caccia al tesoro, con la decisione del tribunale del riesame siamo ormai alla terzo tentativo di indicare un reato che, a quanto pare, magistrati ed inquirenti non sono ancora riusciti a trovare. Nel mese di dicembre 2020, infatti, l’indagine della Polizia di prevenzione ipotizzava la rivelazione del segreto d’ufficio, art. 326 cp, ipotesi investigativa poi lievitata nell’associazione sovversiva e nel favoreggiamento.
Nei giorni scorsi gli accertamenti tecnici non ripetibili disposti dal pubblico ministero, che si sarebbero dovuti tenere sul materiale sequestrato, sono stati sospesi a seguito della richiesta di incidente probatorio davanti al Gip avanzata dal mio avvocato, Francesco Romeo. L’incidente probatorio offre infatti maggiori garanzie processuali introducendo una figura terza, ovvero il Giudice per le indagini preliminari che sul piano formale riequilibra il ruolo della procura, fino ad ora dominus di ogni atto all’interno dell’inchiesta. Questa scelta processuale allunga i tempi, ma non vi era altra scelta davanti all’atteggiamento della Procura che ha persino mancato di notificare all’avvocato il provvedimento che autorizzava la riconsegna dell’archivio amministrativo della mia famiglia e quello medico e scolastico dei miei figli. Il Gip esaminerà le carte dopo la pausa estiva

Chi sequestra un archivio, attacca la libertà di ricerca, l’appello firmato da ricercatori e cittadini contro l’inchiesta della procura di Roma e della polizia di prevenzione

L’appello lanciato da storici e ricercatori contro l’inchiesta condotta dal pm Eugenio Albamonte insieme alla Polizia di prevenzione nei miei confronti (leggi qui) ha superato le 600 firme. La raccolta continua e chi volesse ancora aderire lo può fare apponendo la propria firma Continua a leggere

Parma, domenica 25 presidio sotto le mura del carcere

PRESIDIO SOLIDALE SOTTO LE MURA DEL CARCERE DI PARMA
DOMENICA 25 LUGLIO – ORE 17.00

Dal 15 luglio 5 sezioni del carcere di Parma sono in protesta, con battiture tre volte al giorno, contro sovraffollamento, cibo spazzatura e malasanità (con ritardi o assenze di visite mediche anche urgenti). Claudio, ora detenuto a Parma, è tornato a denunciare pubblicamente, nella forma di un esposto alla ministra Cartabia, le violenze ed omissioni di soccorso delle guardie nel marzo 2020 ed in particolare in circostanza della morte del detenuto Sasà Piscitelli. Veniamo a sapere dalla testimonianza diretta di un altro detenuto  coraggioso di nuove torture nelle carceri di Parma e Piacenza e di trasferimenti punitivi da Parma per chi reclama diritti e racconta all‘esterno (con lettere o gridando dalle finestre) le misere condizioni detentive a cui è costretto… per tutto questo e contro lo strutturale sistema di oppressione perpetuato quotidianamente in tutte le carceri italiane, abbiamo deciso di tornare sotto il carcere di Parma.

Domenica 25 luglio, ore 17.00, Carcere di Parma, lato via Mantova

Da https://roundrobin.info/

Ecco la “politica sull’immigrazione” dell’imperialismo europeo che costa migliaia di vite umane

L’imperialismo italiano paga il governo libico per “trattenere” i migranti o “riprenderseli”, l’imperialismo inglese paga quello francese esattamente per fare la stessa cosa, l’imperialismo europeo nel suo complesso (Germania in testa) paga la Turchia per trattenere i migranti… e si tratta di miliardi di euro con il risultato di sofferenze indicibili e migliaia di morti all’anno.

Ma  nessun “muro”, fatto pure con tutti i soldi del mondo, può fermare le migrazioni che sono una necessità vitale per milioni di persone che fuggono da guerre e miserie causate da sempre dai paesi imperialisti!

È il “muro” dell’imperialismo che bisogna abbattere quanto prima per mettere fine a questi orrori!

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tratto da l’inkiesta

Dipendenti dall’Europa

Il Regno Unito paga la Francia per non far sbarcare i migranti

Londra ha dato 63 milioni di euro a Parigi affinché raddoppi gli agenti a pattugliare le coste settentrionali francesi. È la seconda tranche dopo i 28 milioni del 2020. Per fermare gli arrivi dei rifugiati non bastano più le otto navi che prima coprivano lo stretto della Manica. Il governo inglese ha chiesto anche a Bruxelles di rivedere il protocollo sull’Irlanda del Nord

Altro che neoisolazionismo. La «Global Britain» del dopo Brexit è ancora dipendente dall’Europa. Ne ha bisogno persino per difendere quei confini al centro della retorica sovranista. Continua a leggere

Sabato 24 a Voghera contro il razzismo istituzionale

Voghera è una città in provincia di Pavia di 40mila abitanti, di cui circa 5mila migranti, con una nutrita comunità maghrebina, principalmente impiegata in lavori precari o stagionali e nella logistica. Nel corso degli ultimi anni, l’Assemblea per il diritto alla casa di Pavia e provincia ha condotto diverse vertenze in città a causa dei numerosi sfratti che vi si verificano. La giunta precedente, di centrodestra, e quella attuale, a guida Lega, durante queste vertenze hanno sistematicamente alimentato il razzismo istituzionale.

Dell’attuale giunta fa parte, in qualità di assessore alla sicurezza, Massimo Adriatici, ex sovrintendente di polizia, avvocato e docente a contratto ad Alessandria. Adriatici è noto in città come sceriffo, titolo di cui si vanta, andando in giro armato per la città. Ha fatto un uso disinvolto dei Daspo urbani previsti dalla legge Minniti e varato un’ordinanza che vieta la vendita di birre fredde e di bottiglie di vetro, allo scopo di colpire i migranti che si ritrovano nelle piazze cittadine e, soprattutto, di coprire le inchieste che vedono coinvolta la giunta in casi di corruzione elettorale.
Adriatici ha ucciso Youns El Bossettaoui, trentanovenne di origine marocchina, con moglie e figli in Marocco. Youns stava male a causa di razzismo, sfruttamento, solitudine e povertà. Le istituzioni erano a conoscenza, ma non sono mai intervenute. Un uomo delle stesse istituzioni ha invece scelto di uccidere Youns, in nome del razzismo. Ne emerge la nulla considerazione per le vite migranti, cosa che non ci sorprende, perché da anni abbiamo a che fare con il ceto politico leghista locale, e di Adriatici ce ne sono tanti, troppi. Non è un mistero che l’uso delle armi sia un loro feticcio, che li rende anche particolarmente amati in provincia.

Il quadro è ben preciso: un italiano, potente, ricco, nelle istituzioni, ex poliziotto può impunemente uccidere un immigrato, la cui vita per le istituzioni non vale nulla, e poi tornare tranquillamente a casa, perché media e istituzioni fanno quadrato attorno a lui. Per questo ci associamo al grido disperato della sorella di Youns, che chiede giustizia e verità per la vita spezzata di suo fratello.

Con lei manifesteremo sabato 24 alle ore 16 in piazza Meardi a Voghera, cui seguirà l’iniziativa di Noi siamo idee, collettivo di giovani vogheresi.

Da anni lottiamo conto razzismo istituzionale, ingiustizie e violenza sistemiche, sfruttamento, trovando sempre come controparte personaggi che condividono con Adriatici il retroterra razzista, classista e ideologico, ma recentemente ci sembra che dalla retorica loro siano passati alla pratica: lo abbiamo visto a Novara con l’omicidio di Adil, ucciso un mese fa in quanto sindacalista in lotta e migrante, lo vediamo ora a Voghera con l’omicidio di Youns El Bossettaoui, ucciso in quanto migrante.

Da Movimento Pavia