Torture, abusi, omissioni e pestaggi non sono opera solo della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Indagini per violenze in carcere sono aperte un po’ in tutta Italia: da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando per Pavia, Voghera, Modena, Ferrara, Firenze, Viterbo e Lucera. Ecco una mappa di quel che sta succedendo
Non solo Santa Maria Capua Vetere e la mattanza nel carcere casertano, il carcere dell’ultimo scandalo. Torture e abusi e omissioni sono stati denunciati da persone detenute in altri istituti distribuiti in mezza Italia, prima e dopo le rivolte di marzo e aprile 2020.
Da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando per Ferrara, Firenze, Viterbo, Lucera. Morti anomale, rubricate come suicidi, overdose, decessi per cause naturali. Pestaggi di massa, come nella casa circondariale ora diventata un simbolo. O punizioni individuali, mirate.
In alcune procure le indagini marciano a ritmo serrato e scandagliano in profondità, approdate alle prime condanne (appellabili e dunque non definitive) e anche per tortura. In altre procure gli accertamenti restano in superficie, avviati verso l’archiviazione.
Detenuti poco credibili? Il potere delle immagini
La differenza, nell’accertamento della verità, sembrano farla le immagini. I detenuti che raccontano di botte e manganellate vengono creduti quando i video immortalano aggressioni e scene pulp. Dove le telecamere non ci sono oppure risultano disattivate, o le se riprese vengono cancellate per scelta o per prassi, le speranze di ricostruire i fatti (e le responsabilità) si assottigliano. E rischiano di azzerarsi quando la (presunta) vittima di vessazioni e violenze è un detenuto con atteggiamenti aggressivi o ribelli.
La sola associazione Antigone in una manciata di anni ha promosso o contribuito a promuovere 17 inchieste e le sta seguendo come “persona offesa”. Questo ruolo non le è stato riconosciuto dal giudice di Modena che si è occupato di 8 dei 13 decessi contati nei giorni delle sommosse e dei trasferimenti di massa. Anche il Garante nazionale dei detenuti è stato estromesso dal procedimento emiliano, nel silenzio generale.
Milano-Opera e le denunce di violenza dei parenti
Madri, sorelle, compagne di detenuti rinchiusi a Opera, 8 persone, dopo le violente azioni di protesta dell’8 marzo 2020 si rivolsero ad Antigone per raccontare quello che avevano saputo da familiari e congiunti. I parenti parlavano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche carcerati anziani e malati di cancro e che avrebbero portato a mascelle, setti nasali e braccia rotte. Antigone inviò un esposto alla magistratura.
La denuncia cumulativa, lo spiega ad Osservatorio Diritti il procuratore aggiunto milanese Alberto Nobili, «non ha avuto seguito, perché non sono stati trovati riscontri alle dichiarazioni riportate e alle presunte lesioni indicate». Si è invece conclusa l’inchiesta sui reati commessi dai rivoltosi, 17 dei quali condannati a febbraio.
Polizia penitenziaria e violenze: «Indagini da riaprire»
Gaspare G., anche lui detenuto ad Opera, una denuncia l’ha scritta di suo pugno e l’ha presentata attraverso l’avvocato di fiducia, Eugenio Losco. Un paio di settimane dopo la rivolta di marzo 2020, alla quale ha preso parte, in reparto ha litigato con alcuni poliziotti penitenziari per questioni legate all’acquisto del vitto allo spaccio interno. Quattro o cinque agenti poi lo avrebbero raggiunto in cella, insultato e malmenato.
Secondo il personale, invece, sarebbe stato lui ad avventarsi contro gli operatori in divisa. Il medico che lo ha visitato ha riscontrato un arrossamento della cute sulla fronte e gli ha dato zero giorni di prognosi.
Il pm Giovanni Polizzi, ricostruiti il curriculum e i procedimenti disciplinari collezionati, ha ritenuto le dichiarazioni del denunciante contraddittorie e insufficienti a sostenere l’accusa contro i poliziotti. Così ha chiesto al gip di archiviare tutto.
L’avvocato Losco si è opposto e ha rilanciato, chiedendo di fare quello che la procura ha omesso: interrogare il detenuto e sentire tutti i possibili testimoni oculari, i compagni di cella e di raggio. Nella sezione le videocamere di sorveglianza ci sono e c’erano. Ma le immagini del bisticcio sono state sovrascritte da altre immagini, come succede ogni 7 giorni e tutela della privacy, come almeno scrive il pm. Il giudice deciderà a settembre.
Violenze in carcere: Melfi come Santa Maria Capua Vetere?
Antigone, sempre dopo le sommosse del 2020, è stata contattata anche dai familiari di persone rinchiuse nel carcere di Melfi. La notte del 17 marzo 2020, riferiscono i parenti in prima linea, sarebbe scattata una ritorsione per la sommossa scoppiata il giorno 9. Un “prequel”, un antefatto, di Santa Maria Capua Vetere.
Una squadra di agenti sarebbe entrata nelle celle dell’alta sicurezza e avrebbe umiliato e vessato una settantina di detenuti, fatti inginocchiare, denudati, picchiati a mani nude e con manganelli, presi a sputi e insulti e poi messi in isolamento o trasferiti altrove.
Non solo. I poliziotti del penitenziario potentino avrebbero fatto firmare false dichiarazioni alle persone ferite, costringendole a sostenere di essersi procurate le lesioni cadendo accidentalmente.
Scene da macelleria messicana raccontate dalle vittime
I racconti dei carcerati di Melfi sono finiti agli atti.
«Gli agenti ci hanno legato i polsi con fascette da elettricista, lungo il tragitto che ci portava al pullman ci urlavano di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con calci nel sedere e in altre parti del corpo». «C’erano agenti incappucciati e altri col passamontagna». «Sono entrati nella cella e hanno pestato mio zio, che è cardiopatico e ha due stent».
Il 3 maggio 2021 la procura ha chiesto al gip l’archiviazione, contro cui il 3 giugno ha presentato opposizione Antigone. Continua a leggere