E dopo il video di S. Maria Capua Vetere la stampa borghese si accorge degli abusi nelle altre carceri

Ora  le autorità carcerarie, la  magistratura, la Ministra Cartabia, gli stessi giornalisti, la stessa CGIL “scoprono improvvisamente l’orrore”… Non sapevano nulla… sono innocenti…

Ora cercano di rattoppare, venendoci a raccontare la solita favola delle mele marce e dell’immagine “infangata” della polizia penitenziaria e delle nostre forze dell’ordine.

Ma i massacratori in divisa non sono mele marce, sono fascisti convinti, messi dallo stato dei padroni a “domare il bestiame” nelle carceri sovraffollate.

Coperti non solo dalla “destra” e dai Salvini, ma anche dai Landini, dalla falsa “sinistra”, quando anche media allineati al governo borghese, come repubblica, cominciano a parlare di un problema sistemico.

Se una crepa si è aperta al di là del muro di omertà, lo si deve ai detenuti e le detenute in lotta, che non hanno abbassato la testa ed hanno denunciato i pestaggi subiti.

Lo si deve alle compagne e ai compagni solidali, che sin da subito hanno capito e sostenuto le lotte dei detenuti e dei loro familiari e che perciò sono stati e continuano ad essere repressi come “nemici dello stato”.

VERITÀ SULLE STRAGI DI STATO NELLE CARCERI!

SVILUPPARE SOLIDARIETÀ PROLETARIA!

SUPPORTARE I DETENUTI E I LORO FAMILIARI!

Da Repubblica:

ROMA – Sedici inchieste per tortura, pestaggi e lesioni a carico di agenti della Penitenziaria documentano quanto sia pigra e frettolosa la teoria delle “poche mele marce”. E quanto siano fragili le gambe su cui poggia. A stare alle centinaia di denunce presentate dai detenuti di tutta Italia, infatti, “l’orribile mattanza” di Santa Maria Capua Vetere non è la follia di una giornata storta. Appare essere più un metodo. Replicabile e replicato. Spesso tollerato dalle gerarchie. Quindi, alla bisogna, sanguinosa strategia di contenimento e controllo della popolazione carceraria.

Allo stesso tempo, però, le sedici inchieste aperte negli ultimi due-tre anni testimoniano la difficoltà dei magistrati a individuare responsabilità e a ricostruire i fatti, quando essi avvengono all’interno delle mura di una prigione e si fanno scudo dell’omertà di tanti. A fronte di poche sentenze di condanna (è del 17 febbraio scorso quella di dieci poliziotti in servizio a San Gimignano, accusati di aver brutalizzato un tunisino), spuntano frettolose richieste di archiviazione (come a Modena), indagini senza indagati (sempre Modena), l’impossibilità di riconoscere chi ha alzato le mani o il manganello (Potenza), e torture derubricate a semplici percosse (Pavia), dunque materia per giudici di pace.

Prendiamo la notte di Melfi. Tra il 16 e il 17 marzo 2020, quando la rivolta innescata dalla paura del Covid pare ormai sedata al costo altissimo di 13 vite, dal penitenziario lucano trasferiscono 60 reclusi. Ecco alcuni passaggi dei loro racconti, così come figurano nei verbali consegnati ai pm: “Gli agenti ci hanno legato i polsi con fascette da elettricista, lungo il tragitto che ci portava al pullman ci urlavano di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con calci nel sedere e in altre parti del corpo”; “ho visto detenuti con la testa rotta e sanguinante, occhi tumefatti e nasi rotti”; “c’erano agenti incappucciati e altri col passamontagna”; “lungo il tragitto ho subito calci e colpi con un bastone”; “sono entrati nella cella e hanno pestato mio zio, che è cardiopatico e ha due stent”. Le testimonianze sono coerenti e convergenti. Leggendole, riparte il film di Santa Maria Capua Vetere. Eppure a maggio la procura potentina ha chiesto al Gip l’archiviazione, con la motivazione che anche laddove le violenze hanno avuto un riscontro sanitario, “le vittime non sono state in grado di riconoscere gli autori”.

All’archiviazione si è opposta l’avvocato Simona Filippi dell’associazione Antigone. “Quando agli atti finiscono anche i video delle telecamere di sorveglianza – osserva Filippi – le inchieste vanno avanti, come nei casi di San Gimignano, Torino e Monza. Senza i filmati è difficile abbattere il muro di omertà. Vediamo stringate richieste di archiviazioni che ci lasciano a dir poco perplessi: a Modena la procura in due paginette vorrebbe chiudere l’indagine sui nove morti della rivolta. Una evidente forzatura”.

Gli eventi del marzo scorso, quando scoppiarono ribellioni in 21 istituti, 107 agenti rimasero feriti e 13 detenuti sono deceduti, sono una ferita aperta per il nostro Paese. Dopo 15 mesi – riporta Repubblica – non una sola responsabilità è stata accertata. Le lettere dei compagni di cella, che a Rieti e a Modena hanno parlato di abusi e mancati soccorsi per chi durante i tafferugli aveva assaltato le farmacie imbottendosi di metadone e psicofarmaci, sono finite nel nulla.

Per le presunte violenze denunciate negli istituti Pagliarelli di Palermo, Milano Opera e Pavia le indagini sono in corso. A Firenze, invece, dieci agenti e due medici sono imputati per i pestaggi nel carcere di Sollicciano, il più selvaggio dei quali ai danni di un marocchino: il 27 aprile il gruppetto di secondini lo ha massacrato a calci e pugni nell’ufficio dell’ispettrice (anche lei imputata), lasciandolo a terra, nudo, con due costole rotte. “Ecco la fine di chi vuol fare il duro”, pare abbia gridato uno degli aguzzini.

Storie che sporcano l’immagine del Corpo della polizia penitenziaria e dei suoi 38 mila agenti. Chiamati ogni giorno a fare un lavoro complicato. E che, ovviamente, non sono tutti dei picchiatori. Ma quante mele marce bisogna ancora scoprire prima di capire che esiste un problema di sistema?

Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato: pestaggi sono stati denunciati da centinaia di detenuti in tutta Italia. Ma raramente si arriva ad accertare fatti e responsabilità. “C’è troppa omertà, indagini archiviate frettolosamente”

Mele marce un corno, lo stato sono loro, marcio è il sistema!

L’ex capo del DAP Basentini a Fullone, uno dei “registi” della mattanza nel carcere campano: “hai fatto benissimo!”. Ebbene, né Fullone, né Basentini risultano indagati. Eppure il DAP sapeva dell’operato della polizia penitenziaria, il Ministero di Giustizia sapeva, e adesso con i video nessuno può dire di non sapere.

“Lo stato siamo noi” hanno urlato gli squadristi in divisa mentre picchiavano e torturavano i detenuti.

Ebbene, se lo stato siete voi, la favola delle mele marce raccontatela a chi, oltre ai sensi, ha perso anche il cervello e con esso la memoria.

Le violenze, le torture, le morti non sono il frutto di qualche poliziotto su di giri, ma il risultato di una giustizia borghese, di uno stato di polizia, del moderno fascismo che ha fatto carta straccia degli stessi diritti democratici che lo hanno sottratto un tempo alla giustizia proletaria. La violenza nelle carceri è una prassi sistemica che viene portata avanti dall’istituzione carcere e protetta e avallata dal Ministero di Giustizia.
Se una crepa si è aperta al di là del muro di omertà, lo si deve ai detenuti e le detenute in lotta, che non hanno abbassato la testa ed in quei giorni hanno fatto girare video di denuncia dei pestaggi subiti. Lo si deve alle compagne e ai compagni solidali, che sin da subito hanno capito e sostenuto le lotte dei detenuti e dei loro familiari e che perciò sono stati e continuano ad essere repressi come “nemici dello stato”.

La mattanza “scoperta” a Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato. E noi dobbiamo esigere la verità sulle stragi di stato nelle carceri e supportare i detenuti e i loro familiari, soprattutto quando le loro denunce vengono insabbiate/archiviate

Dalla stampa:

L’inchiesta sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Negli atti del gip le prove della manipolazione a opera degli indagati per giustificare la «perquisizione»

«Non posso ripensarci, vado al manicomio. Secondo me erano drogati. Noi dobbiamo pagare ma non dobbiamo pagare con la vita. Voglio denunciarli»: è il racconto di Vincenzo Cacace, il detenuto sulla sedia a rotelle che si vede nell’immagini di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vertere. Gli agenti lo tirano fuori dalla cella mentre lo percuotono con i manganelli. È il 6 aprile del 2020, il giorno prima nel reparto Nilo avevano protestato per timore che il Covid si diffondesse, il giorno dopo è partita la perquisizione straordinaria che il gip Sergio Enea ha definito «orribile mattanza». Sono 52 le misure cautelari, tra gli indagati anche personale con ruoli di vertice.

NEGLI ATTI emerge il ruolo del provveditore campano alle Carceri, Antonio Fullone, del comandante della polizia penitenziaria nell’istituto di pena, Gaetano Manganelli, e di altre figure apicali. La partecipazione di Manganelli alla perquisizione «non è minimamente discutibile – scrive il gip – si evince nitidamente oltre che dalle dichiarazioni rese da Anna Rita Costanzo (anche lei indagata, ndr) nel corso del suo interrogatorio («io arrivai dopo che i comandanti si erano riuniti per distribuire i ruoli e compiti nella stanza di Manganelli dove l’operazione era stata pianificata») ma anche dai messaggi che scambia con gli altri protagonisti».

Alle 13:38 Manganelli manda a Fullone il messaggio: «Stiamo pianificando operazione» e poi a Maria Parenti (direttrice facente funzione del carcere) «stiamo per effettuare la perquisizione straordinaria». A Fullone chiarisce: «Utilizziamo anche scudi e manganelli». A fine giornata è soddisfatto: «Buonanotte provveditore grazie per la determinazione assunta per la concreta vicinanza». Costanzo, commissaria capo responsabile del Nilo, nelle chat scrive: «Un’operazione eccellente. Siamo tutti molto soddisfatti. Meno male che sono venuta, mi sono riscattata». Messaggi anche tra Fullone e l’allora capo del Dap, Basentini, che al primo risponde: «Hai fatto benissimo» quando Fullone gli scrive: «Era il minimo per riprendersi l’istituto, il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così».

PER GESTIRE GLI ESITI «dell’operazione eccellente» sono stati necessari falsi referti medici, foto e video artefatti, depistaggi. Diciannove agenti colpiscono tanto forte e tanto a lungo i detenuti da procurarsi lesioni. Si fanno refertare e poi trasmettono gli atti all’autorità giudiziaria: «Hanno dichiarato di essersi procurati le lesioni a seguito di aggressioni a opera di detenuti – scrive il gip -. La circostanza è falsa, venendo smentita dai filmati del circuito di sorveglianza, che non rilevano mai alcuna forma di resistenza da parte dei detenuti. Sopraffatti dal gran numero di agenti presenti, si sono limitati a contenere i colpi subiti, badando principalmente a proteggere la testa».

MANGANELLI il 7 aprile inoltra alla procura due informative di reato sul 5 e 6. Nell’ultima viene denunciata «una resistenza opposta da 14 detenuti (“durante tale perquisizione, i detenuti di cui sopra si sono resi protagonisti di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale”) che con tale illecita condotta avrebbero cagionato lesioni a “varie unità si polizia penitenziari” che “hanno dovuto far ricorso alle cure dei sanitari del pronto soccorso”». Nella nota i 14 vengono indicati come i capi della protesta del 5. «La ricostruzione contenuta in entrambi gli atti – scrive il gip – è affetta da palese falsità ideologica».

Pasquale Colucci, uno degli ispettori più attivi, pure avrebbe stilato relazioni false. In una (data nell’incipit 8 aprile e in calce 6) scrive: «Durante le operazioni di perquisizione i detenuti erano armati e avevano opposto resistenza, lanciando contro gli agenti oggetti di varia natura tra cui bombolette di gas incendiate; nelle celle erano stati rinvenuti oggetti atti a offendere, fra cui pentole piene di olio bollente, spranga di ferro e altro». Per provare la ricostruzione sarebbero state alterate foto e video messi agli atti dagli indagati. Colucci e Costanzo, insieme ad altri agenti, «hanno simulato il rinvenimento di strumenti atti a offendere».

Colucci scrive in chat: «L’unica che mi sembra più sveglia è la Costanzo, gli ho detto cosa fare». E Costanzo a Salvatore Mezzarano: «Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro. In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornelli anche con acqua». I messaggi successivi ricostruiscono tutti i tentativi per confezionare le false prove con la data (falsa) del 6 aprile. Ma nella macchina fotografica utilizzata è rimasta traccia del giorno e dell’ora reale. «Dell’attività di depistaggio – scrive il gip – è consapevole e informata Francesca Acerra comandante del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di Napoli che, abdicando al suo ruolo istituzionale, svolge un ruolo di coordinamento nella redazione delle relazione inoltrate anche per il suo tramite all’autorità giudiziaria».

ANALOGA MANIPOLAZIONE la subiscono i video realizzati dagli indagati per millantare la violenza dei detenuti il 5. I messaggi tra Colucci e Fullone, prosegue il gip, «provano che il primo si è recato come da accordi pregressi presso il carcere ad acquisire i video (verosimilmente girati con un cellulare) solo in data 9 aprile». Colucci a Fullone il 9 aprile: «Sì soni sul posto ho raccolto tutto». E l’altro: «Ottimo». Gli audio però fanno capire che non si tratta di immagini del 5 così Colucci scrive al suo sottoposto Massimo Oliva: «Mi togli l’audio»

Adriana Pollice

da il manifesto

Sputi, botte e bastonate. Lamine Hakimi è morto in cella di isolamento dopo la mattanza, imbottito di farmaci e senza cure

Prima le botte, poi una quantità tossica di farmaci – oppiacei, neurolettici e benzodiazepine – assunta “in rapida successione e senza controllo sanitario“: è morto per un arresto cardiocircolatorio conseguente a un edema polmonare acuto, Lamine Hakimi, detenuto straniero affetto da schizofrenia, uno dei 15 carcerati del reparto Nilo classificati dalla Polizia Penitenziaria come pericolosi e per questo motivo messi in isolamento nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo l’”orribile mattanza“, come l’ha definita il Giudice per le indagini preliminari (Gip), del 6 aprile 2020.

Un evento che ha spinto l’ufficio inquirente guidato dal procuratore Maria Antonietta Troncone a ipotizzare nei confronti dei poliziotti indagati il delitto di “morte come conseguenza di altro reato“. Scelta però non condivisa dal Giudice, che invece ha classificato quel decesso come un suicidio. Hakimi morì il 4 maggio 2020 nella sezione Danubio, a distanza di quasi un mese dalle violenze perpetrate dai poliziotti penitenziari sulle persone ristrette nel Reparto Nilo.

Così come per le altre vittime delle violenze, sono descritte nel dettaglio, nella corposa ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Santa Maria Capua Vetere, le percosse subite dal detenuto algerino di 27 anni Lamine Hakimi, morto in cella il 5 maggio 2020. Un trattamento che non si discosta molto da quelle subite dagli altri carcerati ma esacerbato da un suo tentativo di ribellione: prelevato con la forza dalla sua cella, la numero 7, del reparto Nilo, percosso con calci, schiaffi, pugni durante il trasferimento, reagì cercando di sferrare un pugno a un poliziotto, così lo percossero ancora di più fino a provocarne lo svenimento. Gli schiacciarono la testa contro il pavimento e lo colpirono con il bastone alle costole e alle gambe mentre lo trascinavano a terra nel reparto. Diversi carcerati parlano delle sue condizioni e ognuno le definisce peggiori delle proprie:

“…stava troppo male, aveva segni di manganellate dappertutto e un bozzo dietro la testa… sono stato 15 giorni in stanza con lui, lo sogno tutte le notti…“. E ancora: “…ha sempre assunto la terapia psicofarmacologica e lo faceva stare bene…“, “…lui stava peggio di me, gli avevano fatto molto male, lo hanno sfondato… stava così male che per 4 giorni non ha preso la terapia. Dopo 4 giorni si è svegliato e abbiamo parlato…“.

Agli altri detenuti in isolamento che soffrivano di varie patologie, secondo quando riporta l’ordinanza, venne sospesa la somministrazione dei farmaci. Il giorno della morte di Hakimi, inoltre, venne eseguita un’altra perquisizione personale durante la quale, per l’ennesima volta, gli agenti sputarono sui detenuti e proferirono minacce nei loro confronti: “mica e’ finita qua! Avete avuto la colomba, dovete avere ancora l’uovo di Pasqua“.

Dopo lo scandalo le pezze: Condannati i carabinieri della caserma degli orrori ma solo 2, forse, resteranno in carcere: per loro ci sono le sezioni protette, dedicate agli appartenenti alle Forze dell’ordine.

Dal blog MFPR

Nel luglio del 2020 la stazione dei Carabinieri è travolta da uno scandalo che coinvolge molti dei militari in servizio. E’ una storia criminale fatta di droga, sesso, torture, vessazioni, violenza. Le parole che si sentono nelle intercettazioni sono inequivocabili: “Ho fatto un’associazione a delinquere ragazzi (…) in poche parole abbiamo fatto una piramide (…) noi siamo irragiungibili”. La storia è banale quanto grave, come il male che hanno fatto, con la sicurezza di chi indossa una divisa e ha il potere di decidere sulla vita delle persone: torture, violenze, traffici di droga e di sesso, estorsioni e rapine.
Francesca, una trans brasiliana da tempo a Piacenza, fu minacciata più volte e picchiata nel corso di aggressioni sessuali in caserma in cui fu costretta a fare sesso per non essere rispedita in Brasile.
Ora sono stati tutti condannati i 5 carabinieri della caserma Levante di Piacenza, ma avendo scelto il rito abbreviato, che garantisce la riduzione di un terzo della pena,  le condanne vanno dai 12 ai 3 anni e 4 mesi.

La condanna maggiore, di 12 anni è stata inflitta all’appuntato Giuseppe Montella, al centro, secondo l’accusa, del sistema criminale esistente nella caserma e rafforzato nei mesi del primo lockdown. Per lui la Procura aveva chiesto 16 anni e 10 mesi. Montella ha ammesso le sue responsabilità – ammettendo di aver partecipato a gran parte degli episodi a lui contestati, ben 58 su 60 -, ma ha sempre sostenuto di non aver agito da solo. Otto anni, invece, all’appuntato Salvatore Cappellano, per una richiesta dell’accusa di anni 14, sei all’appuntato Giacomo Falanga (13 anni richiesti dall’accusa), tre anni e quattro mesi al carabiniere Daniele Spagnolo e quattro all’ex comandante della stazione di via Caccialupo, il maresciallo Marco Orlando.
Nei giorni scorsi il Tribunale di Bologna aveva scarcerato Montella, disponendo per lui gli arresti domiciliari. Gli unici arrestati che rimangono in carcere, al momento, sono Salvatore Cappellano e Giacomo Falanga. Un sesto carabiniere, l’appuntato Angelo Esposito, aveva scelto di proseguire il processo con il rito ordinario, mentre un’altra decina di persone, spacciatori e complici, hanno optato per il patteggiamento.”
Tra i condannati, quindi, gli unici 2 arrestati non ancora rimessi in libertà sconteranno la pena in sezioni protette, dedicate agli appartenenti alle Forze dell’ordine.
Lo schifo di Piacenza ha riportato, per un breve periodo, sotto i riflettori, la natura istituzionale e di classe della violenza sessuale, e le condanne comminate ai torturatori in divisa a Piacenza non confliggono con quanto sta emergendo sulla natura violenta e di classe dell’intero sistema repressivo e carcerario italiano, con la mattanza al carcere di Santa Maria Capua Vetere (e quella insabbiata al carcere di S. Anna di Modena)
Lo abbiamo detto allora e lo ripetiamo adesso: non sono mele marce, marcia è tutta la pianta, l’intera foresta. Non può la giustizia borghese essere vera giustizia, non saranno 2 pezze a porre fine all’orrore, ma la rabbia organizzata delle donne proletarie in prima fila nella rivoluzione
Lo stato borghese si abbatte e non si cambia!

Carceri israeliane, l’orrore raccontato da ragazze palestinesi

In un lungo corridoio, agenti dell’intelligence israeliana stavano in piedi e applaudivano sarcastici mentre i carcerieri portavano Mays Abu Ghosh ammanettata in una cella per gli interrogatori militari, riferisce l’agenzia Anadolu.

“Mi stavano prendendo in giro, dicendo che sarei morta durante l’interrogatorio”, ha detto Mays all’agenzia Anadolu.

Durante il suo ciclo mestruale, Mays è stata legata alla sedia per le mani e alle caviglie, con il corpo allungato nella posizione della “banana”, per ore, rendendole impossibile dormire.

“Non potevo camminare, i carcerieri mi tenevano in cella”, ha aggiunto Mays.

Le mani di May sanguinavano costantemente a causa delle catene. Ha rifiutato di essere sottoposta a un’altra sessione di interrogatorio militare, quindi l’ufficiale dell’intelligence ha afferrato Mays e l’ha sbattuta contro il muro.

Mays ha continuato: “Non mi hanno fornito tamponi o biancheria intima di cui avevo bisogno in questo periodo delicato”.

33 giorni di tortura.
Gosh, 24 anni, del campo profughi di Qalandiya, è una studentessa di giornalismo e media all’Università di Birzeit, arrestata il 29 agosto 2019 e poi sottoposta a orribili torture, in isolamento per 33 giorni, presso il centro di interrogatorio Al-Maskobiya.

Durante la sua reclusione presso la famigerata struttura, ha perso 12 chili.

“Gli agenti cercavano costantemente di convincermi che ero impazzita e che stavo cercando di uccidermi, quindi hanno portato assistenti sociali, ma in realtà erano altri agenti”, ha raccontato Mays.

Quando quegli agenti erano in cella con Mays, ha mostrato loro le ferite e i lividi che aveva subito a causa degli abusi a cui era stata sottoposta e ha chiesto loro: “Chi è che si vuole uccidere? Io sono una studentessa e voi mi state imprigionando”.

Mays chiedeva spesso antidolorifici per alleviare i dolori alla testa e ai muscoli, ma di solito le venivano negati.

Durante le sessioni di interrogatorio, gli ufficiali hanno deliberatamente costretto Mays a sentire le urla dei detenuti sottoposti a torture fisiche durante gli interrogatori militari, minacciandola anche che ciò che sarebbe accaduto con lei sarebbe stato ancora più orribile.

“Mi hanno minacciato che sarei uscita di qui morta o paralizzata, e hanno anche minacciato di violentarmi”, ha detto.

(Foto: Mays Abu Ghosh (C) [@YourAnonCentral/Twitter]).

fonte: “Agenzia stampa Infopal – www.infopal.it”

TORINO: CARICHE CONTRO IL COMITATO “RIAPRIAMO IL MARIA ADELAIDE”. Anziché Salute e assunzioni di nuovi operatori sanitari (più che necessari) l’unica risposta è la repressione…

A Torino oggi pomeriggio, giovedì 1 luglio, spintoni e manganellate della Polizia sulla manifestazione del comitato Riapriamo il Maria Adelaide fuori dall’Assessorato alla Sanità della regione PiemonteIl comitato che si batte contro tagli e privatizzazioni nella sanità e per la riapertura dell’ospedale del quartiere Aurora, chiuso 5 anni fa, aveva lanciato un presidio all’esterno dell’assessorato in corso Regina Margherita chiedendo un incontro con l’assessore leghista alla Salute anche per consegnare le migliaia di firme raccolte negli anni in favore della riapertura del presidio sanitario. L’assessore Icardi, però, non si è presentato. Al suo posto si sono presentati due tecnici.

La delegazione che era riuscita a entrare, allora, ha dichiarato che non avrebbe lasciato le stanze del palazzo finché non si fosse presentato l’assessore. All’esterno, le pressioni del presidio sono state affrontate con scudi e manganelli. Dopo la carica della celere, una delegazione di manifestanti è stata ricevuta dall’assessore.

La corrispondenza di Matilde di Riapriamo il Maria Adelaide. Ascolta o scarica.