Contro la repressione delle lotte rilanciamo una mobilitazione nazionale unitaria da costruire insieme

Picchettaggio davanti all’azienda, operai e sindacalista a processo

Bloccarono i Tir davanti alla Safim di None: sono accusati di violenza privata (e uno di lesioni)
Per un picchettaggio davanti alla Safim di None, azienda che si occupa dello stoccaggio di derrate alimentari per i supermercati, 28 operai e un delegato sindacale dello «Si Cobas» sono stati rinviati a giudizio: gli imputati sono accusati di violenza privata, «per aver bloccato la circolazione stradale, impedendo il transito ai mezzi pesanti in entrate e in uscita dallo stabilimento». Una manifestazione — «non formalmente preannunciata» — innescata da alcuni licenziamenti, che infiammò la protesta per tre giorni a fine ottobre 2015 e un paio a marzo 2016. Secondo le indagini della Digos, coordinate dall’allora pubblico ministero Andrea Padalino (poi il fascicolo passò al pm Roberto Sparagna), gli operai minacciarono gli autisti dei camion, insultandoli e, in alcuni casi, danneggiando gli specchietti retrovisori. In un caso, un autista fu aggredito e, per questo, un operaio andrà a processo anche per l’accusa di lesioni, all’epoca giudicate guaribili in 7 giorni. I lavoratori — gran parte dei quali difesi dagli avvocati Gianluca Vitale e Giulio Calosso — sono tutti egiziani, tranne uno, nato in Tunisia.

I sindacati di base: «Recessione della democrazia»

«Siamo in una fase di grande recessione della democrazia», commenta Francesco Latorraca, il delegato del «Si Cobas» rinviato a giudizio. «Quella fu una protesta iniziata dopo licenziamenti, poi giudicati antisindacali — aggiunge — ma ormai qualsiasi forma di dissenso è ostacolata. Noi ci presentiamo con un paio di bandiere e ci ritroviamo i blindati delle forze dell’ordine». Gli operai, all’epoca, protestavano anche per condizioni di lavoro e salario, mentre sullo sfondo c’era pure una ruvida polemica tra i sindacati di base e la Cisl. Prima dell’udienza preliminare, una quindicina di lavoratori avevano risarcito l’azienda con un contributo simbolico di un euro, ottenendo il ritiro della costituzione di parte civile: eppure, ieri mattina (7 luglio), il giudice ha mandato a processo anche loro. Prima udienza il 14 dicembre, con presumibili (e prevedibili) orizzonti di prescrizione.

G20 Hamburg: “Una repressione esemplare”. La dichiarazione di Loic, compagno francese, al processo

Da Osservatorio Repressione

Loic è un Compagno francese accusato di aver preso parte alle mobilitazioni contro il summit del G20 di Amburgo del 2017.

Furono in tante e tanti in quei giornate a mobilitarsi nella città anseatica contro il vertice, specchio di una società sempre più ingiusta ed autoritaria. Ne seguì una repressione esemplare. Decine di persone provenienti da ogni angolo d’Europa finirono nelle carceri tedesche per periodi molto lunghi.

Loic venne arrestato nell’agosto 2018 nella sua abitazione in Francia. Successivamente venne estradato in Germania e rimase per un anno e quattro mesi nelle carceri di Amburgo.

Nel dicembre 2019 è stato rilasciato con l’obbligo di firma in Germania. Il processo – durato per tutto questo periodo – finirà il 10 luglio 2020, data prevista per la sentenza. E’ principalmente accusato di aver manifestato nel ricco quartiere dell’Elbchausse, vicino al centro cittadino. Non è accusato di crimini specifici, solo di aver preso parte al corteo. La procura ha chiesto per lui quattro anni e nove mesi.

Qui la sua dichiarazione al tribunale.

“Signore e signori della Corte. Finalmente siamo vicini alla fine di questo processo cominciato nel dicembre 2018, al tempo non sapevo che un processo potesse durare tanto a lungo. Sono stato arrestato pochi giorni dopo il mio ventiduesimo compleanno, nell’agosto 2018, la polizia ha sfondato gridando la porta di casa dei miei genitori, la mia sorellina è stata costretta a mettersi in ginocchio con le mani sulla testa. Quando ho sentito la porta venire sfondata, subito nella mia mente si sono susseguite immagini di violenze negli arresti, di come la polizia picchia la gente. Mi sono spaventato, sono saltato dal tetto e sono finito nel cortile del vicino. Da lì in un altro lato della corte condominiale. Ma la polizia aveva isolato tutto il quartiere. E una persona che cammina in calzini sulla strada è sospetta.

Un poliziotto in borghese ha iniziato a corrermi dietro urlando: “Vieni qui, stronzetto”. Avendo percepito una certa animosità nella sua voce, ho pensato che fosse meglio non rispondere al suo invito. Mi sono ritrovato in giardino e poi nel garage di un vicino, intrappolato. Contro il muro, costretto ad aspettare l’arrivo del poliziotto. Lui mi è saltato addosso e mi ha torto il polso destro, lo ho lasciato fare. Gli ho fatto notare la sua inutile violenza e lui mi ha risposto: “Sei fortunato che non ti abbia sparato”.In questa luce, sono davvero felice di essere ancora vivo. È vero infatti che molti arresti della polizia hanno la sfortunata tendenza a trasformarsi in condanne a morte. Ma questo triste destino è più spesso riservato alle persone vittime di razzismo che vivono nei quartieri popolari. In Francia non passa un mese senza un morto durante un arresto.

La porta del garage infine si apre e compaiono agenti di polizia, gendarmi, bacqueux [brigata speciale contro la criminalità, n.d.r.] e civili incappucciati, arma automatica in mano. Forse trenta membri delle “forze della legge e dell’ordine”.

Il vicino, proprietario del garage, è uscito da casa sua e vedendo la scena mi dice con spontaneità: “Ça va Loïc? Vuoi un bicchiere d’acqua? ». Questa frase ha creato un vuoto nella serietà e nella pesantezza della situazione, ho fatto del mio meglio per soffocare una risata e ho rifiutato il bicchiere d’acqua perché avevo le mani legate. Tornato a casa dei miei genitori per mettermi le scarpe, non riuscivo ad allacciarle. Ho chiesto ai gendarmi di togliermi le manette: “No, non è possibile farlo “, ha risposto uno.

Mi sono sempre piaciute le sfide, quindi ci provo comunque, ma anche con molta forza di volontà non è possibile. I poliziotti ridono e mi prendono in giro. La mia sorellina, in piedi accanto a me, con una serenità unita ad emozioni che mai ho visto sul suo viso, si lancia spontaneamente e con forza verso i gendarmi “Ma toglietegli le manette, così può mettersi le scarpe!” La sua voce contiene un potere divino, lo scherno contro il potere è genetico. Gli occhi dei gendarmi si sono persi a terra e uno di loro si è affrettato a togliermi le manette. Se la mia sorellina avesse detto: “Ma toglietegli le manette e lasciatelo libero!” i gendarmi se ne sarebbero andati e io avrei potuto abbracciarla.

Da quel momento sarebbero seguiti 1 anno e 4 mesi di reclusione, 1 anno e 4 mesi dove anche nella stanza delle visite le guardie impediscono gli abbracci.

Arrivato alla prigione in Francia, una guardia alta 2 metri mi ha detto: “Se mi bruci la macchina, ti taglio a metà”. Tra il poliziotto che è pronto a spararmi e la guardia che vuole farmi a pezzi, penso che preferirei farmi sparare piuttosto che finire in due. Ma ciò che è preoccupante, oltre alla minaccia di morte, è che questa guardia pensa che io abbia bruciato un’auto. In quel momento mi sono reso conto di quale mostruoso inganno sia l’imminente processo. Accusando qualcuno di tutta la violenza che può accadere durante una manifestazione, si mette confusione nelle menti superficiali delle guardie e dei poliziotti. Facendo un’accusa sproporzionata, si crea un trattamento sproporzionato.

Questa guardia continua con rapidità: “È inutile quello che hai fatto, ora guarda dove sei, dove sono i tuoi amici? Ora sei qui…” Gli faccio notare che anche lui è qui, ma egli continua: “… Sei solo, hai fallito nella tua vita. Non hai cambiato nulla e sei inutile, ecc.” Non ho nemmeno la possibilità di fare una dichiarazione, o di rispondere, mi taglia fuori dal discorso. Non si preoccupa nemmeno di quello che dice, ho l’impressione che abbia la missione di demoralizzarmi. All’entrata del carcere vengo perquisito e di nuovo all’uscita per andare al tribunale al fine di giudicare la legalità del mandato d’arresto. Vengo trasferito dall’Eris. [unità speciali della polizia penitenziaria francese].

Gli Eris sono mastodonti, incappucciati e armati di mitragliatrici, sono otto in due auto blindate 4×4 con i vetri oscurati. Arrivando alla Corte d’Appello di Nancy, in una sala d’attesa prima dell’udienza, un Eris, dopo avermi incatenato mani e piedi, cerca di vincere sul campo delle idee: “Lo sai che sei costoso? “dice. Gli rispondo: “Lo sai che ogni anno vengono versati 40 milioni di euro nella Meuse per costruire una discarica di scorie nucleari a Bure? “E lui: “Cosa vuoi che faccia? ». Io : ” Oh niente, volevo solo specificare cosa è costoso.”

Fine del discorso.

Durante l’udienza, mi hanno condotto davanti al giudice con due ufficiali dell’Eris in passamontagna. Uno alla mia destra e uno alla mia sinistra. Era del tutto surreale, ero ammanettato. La mia famiglia e i miei amici erano lì a sostenermi. Mio fratello, pastore protestante, mi ha lanciato un foglietto di carta con qualche parola di incoraggiamento, l’ho preso nonostante le manette ma sono stato subito messo a terra da un agente. I giudici si sono ritirati immediatamente e mio fratello è stato portato via dalla stanza. Ancora a terra, ho cercato di tenere il biglietto nel palmo della mano con tutte le mie forze. Finché L’agente mi ha fatto pressione sul collo, io urlando di dolore lo ho lasciato andare. L’udienza ha potuto dunque riprendere. L’accusa viene tradotta in modo da far credere che sia stato io personalmente a bruciare diciannove macchine e a ferire una persona in un edificio.

Nella prigione francese mi hanno messo per un mese nel “reparto nuovi arrivati” in attesa di essere trasferito in Germania. Mi ha traumatizzato il passaggio ogni due ore di una guardia,l anche nel cuore della notte, controllando se fossi ancora vivo facendo scorrere il coperchio della porta con molto rumore prima di accendere la luce. Non sono mai riuscito a dormire più di due ore di fila. Ho poi avuto l’opportunità di incontrare un uomo di origine rumena, che raccattava rottami per strada. Il suo crimine è stato quello di non aver dichiarato quanti soldi aveva guadagnato raccogliendo ciò che trovava sui marciapiedi. Gli erano stati dati quattro mesi per non aver pagato quattrocento euro di tasse allo Stato. Ci sono evasioni fiscali, paradisi fiscali, riciclaggio di denaro sporco, panama leaks, luxleaks, miliardi e miliardi di euro che scompaiono nelle mani dei ricchi. Ma non ho visto ricchi o banchieri in prigione. Le 500 persone più ricche di Francia hanno triplicato le loro fortune dalla crisi finanziaria del 2008, raggiungendo i 650 miliardi di euro.

Uguaglianza è poter godere della stessa capacità materiale, ma una donna delle pulizie non può vivere in una villa sull’Elbschaussee. E la gentrificazione di Amburgo, che attualmente continua, non aiuta certamente. Le disuguaglianze crescono. Il giovane italiano Fabio, ex prigioniero del G20 di Amburgo, ha detto alla corte (nel 2017) che le 85 persone più ricche del mondo avevano la stessa ricchezza del 50% della popolazione più povera. Da allora la situazione è peggiorata. Un comunicato dei Gilet Gialli del gennaio 2019 ha dichiarato che oggi sono 26 i miliardari che possiedono quanto la metà più povera dell’umanità. Ciò che le istituzioni giudiziarie affermano a proposito è che è immorale non pagare le tasse quando si è poveri, ma che è accettabile per la classe benestante che se lo può permettere. Questa è giustizia di classe. E non ho imparato nulla nelle vostre istituzioni che abbellisca l’animo umano,ci ho trovato solo depravazione morale.

Questa è ciò che diceva Foucault:

L’illegalità della proprietà è stata separata dall’illegalità dei diritti. Una divisione che copre una divisione di classe, poiché, da un lato, l’illegalismo che sarà più accessibile alle classi popolari sarà quello delle merci – il trasferimento violento della proprietà; dall’altro, la borghesia si riserverà l’illegalismo dei diritti: la possibilità di aggirare i propri regolamenti e le proprie leggi; di avere tutto un immenso settore di circolazione economica assicurato da un gioco che si svolge ai margini della legislazione – margini previsti dai silenzi dei suoi apparati, o consentito da una tolleranza di fatto. E questa grande ridistribuzione dell’illegalità si tradurrà anche in una specializzazione dei circuiti giudiziari: per l’illegalità della proprietà – per il furto -, i tribunali ordinari e le pene. Invece per l’illegalità dei diritti – frode, evasione fiscale, operazioni commerciali irregolari – tribunali speciali con transazioni, accomodamenti, multe ridotte, ecc. La borghesia si è riservata il proficuo dominio dell’illegalità dei diritti.”

Quando sono stata trasferito ad Amburgo su un’auto della polizia tedesca, l’autista ha messo un po’ di musica per poi alzare il volume ascoltando “L’Internazionale”, gli agenti del “Soko SchwarzBlock” [unità speciale della polizia tedesca incaricata di indagare sui crimini commessi durante il G20 n.d.t.] volevano certamente vedere la mia reazione. Non ho potuto evitare di dire loro che preferisco “La Makhnovtchina”. Ho trovato interessante poter parlare di permacultura con una poliziotta anche se, tra una chiacchiera e l’altra, ha cercato di farmi delle domande per sapere se ero andato al G20 e cosa avessi fatto lì. Credo comunque di essere riuscito a risvegliare in lei un maggiore interesse per le verdure. All’arrivo ad Amburgo, sono stato trasferito in un altro furgone con altri agenti per essere portato al centro di detenzione. Abbiamo fatto diverse fermate prima di giungere al carcere. Nella mia piccola cella del blindato sono stato raggiunto da altre persone arrestate per vari motivi. Non c’era la cintura di sicurezza, così talvolta andavamo a sbattere contro le pareti del mezzo.

Ci siamo trovati in uno stretto gruppo di quattro persone di cui due completamente ubriachi. Uno di loro ha battuto sul muro per chiedere di andare in bagno svariate volte, anche quando c’è stata una sosta per aggiungere una persona arrestata nella seconda cella, senza successo. Alla fine non è riuscito a trattenersi e ha fatto pipì sul pavimento. Così ho cercato di rimanere in equilibrio sulla panca con i piedi in alto, l’altro ragazzo sobrio ha provato la stessa tattica. Quello che ha fatto pipì e l’ultimo, ubriaco pure lui, non sembravano consapevoli della situazione e hanno lasciato le scarpe per terra. La pozza di piscio, seguendo i movimenti del furgone, finì per vagare su tutta la superficie, a volte andando a finire sotto la porta dove si trovavano le mie scatole di roba della prigione in Francia. Un angolo di una scatola ne ha assorbita un po’, ma è stata una guardia a trasportarla senza accorgersene. In un certo senso, possiamo dire che è stata fatta giustizia. Perché non è bene impedire a qualcuno di urinare.

Dopo alcuni giorni di osservazione in una cella in cui la luce era sempre accesa, ho ritrovato il rituale della guardia che guardava all’interno della mia cella ogni due ore. Il vantaggio è che qui non c’era nessuna copertura da far scivolare perché la porta conteneva una piccola finestra. In una cella vuota dove non succedeva nulla, ogni due ore vedevo il volto di una guardia per qualche secondo. Se mi mettessi per un attimo al posto di questa guardia, che deve guardare ogni detenuto, penso che scoppierei in lacrime a vedere tanta sofferenza. Credo che la maggior parte delle guardie impari a non provare emozioni. Sono quasi come automi o robot. E credo anche che la maggior parte non sogni di fare questo lavoro, ma che la scelta di diventare una guardia sia spesso fatta in mancanza di alternative visibili. Dico alternative visibili perché ci sono molte opportunità nell’agricoltura o nei collettivi di giardinaggio. Seminare piante o seminare disperazione nel cuore di chi è rinchiuso. Fino a quando questo pianeta non sarà completamente rovinato, penso che tutti abbiano la possibilità di scegliere. Sono rimasto per i primi quattro mesi nel piccolo edificio “A” che corre parallelo al palazzo di giustizia dove ci troviamo ora. Parlo di questo edificio anche nella mia testimonianza dell’uscita di prigione attraverso il testo: “Rompere i muri delle prigioni che separano dall’esterno”, da cui riprendo alcuni passaggi:

Il Blocco A è l’edificio dei nuovi arrivati. Lì, siamo costretti a stare rinchiusi 23 ore al giorno in una cella, 7 giorni su 7. È un posto buio, dove i detenuti si urlano e sbattono contro i muri. Sono stato lì per quattro mesi. Durante il primo mese, ho avuto solo i vestiti che avevo addosso quando sono arrivato. Non ho potuto riavere le mie cose, anche se sono arrivate nel medesimo momento. In questo edificio c’erano soprattutto stranieri il cui crimine era quello di essere senza documenti, piccoli spacciatori o persone accusate di furto. Ho visto sguardi ricolmi d’odio da parte delle guardie verso i prigionieri di altri paesi. La maggior parte degli stranieri che ho incontrato durante l’ora d’aria nell’edificio A definiva le guardie come nazisti. Mi ha fatto strano sentire ciò, sapendo che in quella stessa prigione, meno di un secolo fa, i nazisti hanno ucciso diverse centinaia di persone. Dopo un mese di attesa, finalmente ho avuto il mio cambio di vestiti. Con ormai una buona dozzina di mutande, sapendo che gli altri detenuti ne avevano un solo paio, ho iniziato a fare le distribuzioni durante l’ora d’aria. La mia famiglia mi ha mandato una cinquantina di mutande. Mi ha dato molta energia avere la possibilità di poter aiutare gli altri detenuti distribuendole. In un muro della cella erano state scritte a penna queste parole:

“Quando aiuti qualcuno, aiuti te stesso”. Fu nell’edificio A che fui messo per la prima volta in isolamento perché una guardia mi beccò a dare il pane ai piccioni sul davanzale della finestra della mia cella.

Dopo 4 mesi nell’edificio A, ho ottenuto il trasferimento in un altro carcere dove c’erano più ore con le celle aperte. Un detenuto ha comprato il gioco da tavolo Risiko. Tuttavia, poiché era possibile giocare solo con un massimo di 6 giocatori ed eravamo in 12 nel piano, ho iniziato a costruire delle schede di espansione su scatole di Kellog’s che gli altri detenuti potevano acquistare nel negozio del carcere e a fare delle miniature con farina, sale e acqua. Per colorarle ho comprato un kit di matite colorate da cui ricavavo della polvere colorata, avendo cura di rimuovere i pezzi di legno prima di aggiungere acqua per farne vernice liquida. Si possono immaginare molti giochi da tavolo con farina, acqua e un po’ di sale. Un altro detenuto ha addirittura iniziato a copiare i territori che avevo immaginato per realizzare il gioco da tavolo in 3D. Credo di aver giocato almeno 50 volte a Risiko in prigione. Una partita poteva essere suddivisa in diverse settimane, visto che eravamo fino a dieci giocatori. Per darvi un’idea, ci sono 42 territori sul gioco base, il più grande dei tabelloni che ho creato era di 189 territori. Spesso ero il primo ad essere eliminato dal gioco perché cercavo costantemente di combattere il più forte e di motivare gli altri a bilanciare il gioco attaccandolo. Ho notato che spesso in prigione c’è un detenuto che pensa di essere il leader e, visto che tutti ne hanno paura, nessuno osa combatterlo nel gioco per non creare tensioni, quindi vince sempre. Ho anche scritto una cinquantina di pagine di regole alternative per Risiko per renderlo più collaborativo e meno competitivo. Purtroppo, quando sono uscito di prigione, ho potuto recuperare solo le schede di gioco, le carte e le miniature sono rimaste nella mia cella e non mi sono state riconsegnate insieme al resto delle mie cose.

Quello che del carcere non dimenticherò mai è la guardia che alle 6:45 di ogni mattino apre la mia porta e dice: “Morgen” (buon giorno, n.d.r.). All’inizio rispondevo e trovavo interessante che qualcuno si prendesse la briga di salutarmi la mattina, è dare un poco di considerazione, un poco di umanità. Tuttavia una mattina, di cattivo umore, non me la sono sentita di rispondere, la guardia ha cominciato a insistere “MORGEN! MORGEN!”. Ho messo la testa sotto il cuscino e questi se ne è andato. Eppure non avevo detto nulla, non avevo risposto al saluto. Il giorno seguente, quando un’altra guardia mi ha svegliato con “MORGEN”, ho provato semplicemente a sollevare il piede, anch’egli se ne è andato. Allora ho capito con terrore che ogni mattina “morgen” non era un saluto mattutino, ma una domanda: “Sei ancora vivo?”. E che ogni gesto o risposta significava per la guardia: “Va tutto bene, non mi sono ancora ucciso”. Quella parola continua ancora oggi a farmi gelare il sangue.

Ho scritto altri testi, spiegando più dettagliatamente le mie avventure in prigione. Per esempio, come mi sono trovato in isolamento in altre due occasioni con false accuse di aver gridato dalla finestra durante due manifestazioni di sostegno all’esterno del carcere. La seconda volta, gli altri detenuti hanno firmato ciascuno una petizione scritta a mano in cui dichiaravano che non avevo gridato dalla finestra. Quando l’ho scoperto, mi sono venuti i brividi lungo la schiena. Ho potuto vivere alcuni momenti molto forti in prigione. Spesso ci permettiamo di essere ironici nella nostra vita e nelle nostre interazioni con gli altri.

In prigione ci sono scambi e persone che ho potuto incontrare con un’intensità che non dimenticherò mai. Un mio altro testo “Escalation dell’arbitrarietà, procedura disciplinare e rilascio di un uccello” spiega anche come ho trovato un uccellino morto in una cella di detenzione del tribunale durante una pausa del processo. Uno di quei piccoli sotterranei che si trovano vicino a ogni aula di tribunale. L’avevo portato in aula perché sapevo che nessuno mi avrebbe creduto se l’avessi raccontato senza prove. Puzzava come un cadavere in decomposizione. Racconto anche la storia di come una guardia donna mi lasciò catturare un piccione smagrito in uno dei corridoi del tribunale riservato ai prigionieri. Sono riuscito a farlo volare fuori dalla finestra dell’aula.

Ancora oggi, sogno due o tre volte alla settimana di essere arrestato dalla polizia in situazioni e luoghi diversi. Una volta al mese sogno che un poliziotto mi spara durante l’arresto. Trovo difficile prendere iniziative perché in carcere non è permesso fare nulla di propria spontanea volontà, devi costantemente sottometterti qualcosa a te esterno. Mi accorgo che ora mi lascio trasportare più facilmente dagli altri e che è difficile far valere me stesso o semplicemente essere me stesso. Non so più nemmeno chi sono. Non ho più un’identità e tutte le persone che incontro pensano: “ah, è lui quello sotto processo”. Questo procedimento è diventato la mia nuova identità. Anche quando mi viene chiesto cosa faccio ad Amburgo, devo inevitabilmente parlare del processo, perché altrimenti non sarei qui, ma vicino alla mia famiglia in Francia. Non vedo alcun senso in questa città e mi sembra molto triste. Ho sempre odiato le città. Penso che dovrebbero essere smantellate offrendo appezzamenti di terreno gratuiti e senza tasse a chiunque le voglia. Le città non sono luoghi sani, non c’è autosufficienza alimentare o energetica. Un giorno o l’altro crolleranno. Mi mancano la mia famiglia e gli amici. Poiché uno dei principi della prigionia è quello di separare dai propri cari e dal luogo in cui vivete, sento che anche se sono stato rilasciato dal carcere a dicembre, sono ancora rinchiuso. Sono andato a trovare la mia famiglia in Francia solo una volta, trovando un periodo di tempo tra le udienze in tribunale e il lavoro. E dopo il Coronavirus, è impossibile attraversare il confine. Un’amica di nome Monique Tatala era gravemente malata a febbraio. Quando finalmente sono riuscito a liberare un fine settimana per andare a trovarla in ospedale, ho saputo che era morta qualche giorno prima della mia partenza.

Sono nato a Nancy, nel nord-est della Francia, a ottanta chilometri dal villaggio di Bure, dove c’è un progetto per seppellire le scorie nucleari più radioattive cinquecento metri sottoterra. Prima di iniziare la scuola di legge per esercitare la professione di avvocato ambientale, ho fatto lunghi viaggi solitari in bicicletta dove ho iniziato a leggere tutti i libri preferiti di Christopher McCandless, il giovane la cui vita ha ispirato il film “Into The Wild”. Ho potuto scoprire Tolstoj, Jack London e Henri David Thoreau, il mio autore preferito. Quest’ultimo ha vissuto 2 anni da solo nei boschi rifiutando di pagare le tasse allo Stato Americano, fondato sulla tassazione.

“Nella mia breve esperienza di vita , ho scoperto che ciò che mi ostacolava non erano uomini vivi, ma istituzioni di morte. Gli uomini sono innocui come l’alba per il pellegrino fiducioso o per il viandante in cammino sulla via della poesia. Mentre istituzioni come la chiesa, lo Stato, la scuola, la proprietà, sono fantasmi cupi e spettrali a causa del rispetto cieco che viene loro mostrato.

Quando mi sono abbandonato al sogno poetico di un paradiso terrestre, non ho pensato di essere disturbato da un indiano Chippewa, ma che probabilmente sarei stato inghiottito da un’istituzione mostruosa. L’unico brigante che ho incontrato è stato lo Stato stesso. Quando mi sono rifiutato di pagare la tassa che lui chiedeva in cambio della protezione che io non volevo, lui stesso mi ha derubato. Quando mi sono preso la libertà che egli proclamava, mi ha imprigionato. Amo l’umanità, odio le istituzioni. Non ladri o briganti, ma gendarmi e giudici; non pescatori, ma sacerdoti; non ignoranti, ma pedanti e maestri; non nemici stranieri, ma eserciti in marcia; non pirati, ma navi da guerra. Non la malevolenza gratuita, ma la benevolenza organizzata. Per esempio, il carceriere o il gendarme può rivelarsi un uomo onesto e dignitoso con un cervello capace di pensare. Tuttavia come ufficiale e strumento dello Stato, non ha più comprensione e cuore della chiave della prigione nella quale lavora.”

La prima cosa che mi ha rattristato quando ho letto il suo diario è stato sapere che oggi non c’è quasi nessuno spazio incontaminato in questo mondo. Sono giunto alla conclusione che oggi sarebbe addirittura criminale condurre una vita di contemplazione come ha fatto lui, poiché attualmente la nostra civiltà industriale sta distruggendo ogni giorno duecento specie di animali e piante. Equivarrebbe a contemplare il disastro. Il 7 luglio 2020, questo porterà allo sterminio di 219.000 specie vegetali e animali dopo il G20 di Amburgo. Per quanto ne so, le manifestazioni non hanno mai causato l’estinzione di nessuna specie, nemmeno di una singola azienda di lusso. Ma non voglio elencare qui l’entità del disastro, del crollo che si sta verificando. Credo che tutti ne abbiano sentito parlare e possano approfondire facendo qualche ricerca. Nelle discussioni che hanno avuto luogo in questo tribunale, è stato detto che può essere legittimo combattere violentemente sotto il nazismo, ma che non è appropriato in una democrazia come la conosciamo oggi. Il problema è che non siamo in una democrazia, ma in un regime rappresentativo.

Emmanuel-Joseph Sieyès, subito dopo la Rivoluzione Francese, nel suo discorso del 7 settembre 1789, ha affermato:

La Francia non dovrebbe essere una democrazia, bensì un regime rappresentativo. La scelta tra questi due metodi di organizzare la società non è in dubbio tra noi. Innanzitutto, la grandissima pluralità dei nostri concittadini non ha né l’istruzione né il tempo libero sufficiente per volersi occupare direttamente delle leggi che devono governare la Francia; essi devono quindi limitarsi a nominare dei rappresentanti. […] I cittadini che nominano i rappresentanti rinunciano e devono rinunciare a fare legge da soli; non devono avere alcuna volontà di darsi delle regole. Se ciò accadesse la Francia non sarebbe più uno Stato rappresentativo, ma uno Stato democratico. Il popolo, ripeto, in un paese che non è una democrazia (e la Francia non può esserlo), non può parlare, può agire solo attraverso i suoi rappresentanti“.

Quest’uomo che ha partecipato attivamente allo sviluppo del sistema politico dopo la rivoluzione francese ha l’onestà intellettuale di riconoscere che un sistema rappresentativo non è una democrazia. Oggi invece la classe dirigente, per non perdere i propri privilegi e rischiare di scomparire sotto un nuovo malcontento popolare, ci culla fin dalla scuola scuola e ripete in televisione che siamo in una “democrazia avanzata”. Questa affermazione pretenziosa ci farebbe credere che saremmo andati anche oltre la democrazia quando in realtà non siamo mai arrivati a quella fase, ma siamo ancora oggi sotto un regime rappresentativo.

Ho dunque deciso di agire piuttosto che delegare il mio potere a un rappresentante. “Voi mandate i vostri rappresentanti in un ambiente corrotto; non stupitevi se ne escono corrotti”, Élisée Reclus ha scritto in “Non votate, agite”. I parlamenti sono infestati da lobby, grandi aziende ed interessi finanziari.

Così mi sono unito al movimento Anonymous, dove ho principalmente scritto testi e realizzato video contro le grandi opere inutili e imposte. L’idea era quella di colpire i siti web delle grandi industrie o del governo francese coinvolti in diversi progetti come la diga di Sivens, il deposito delle scorie nucleari di Bure o l’aeroporto di Notre Dame des Landes, per esempio. Allo stesso tempo, sono andato alla manifestazione dell’ottobre 2014 a Sivens, dove Rémi Fraisse è stato ucciso da una granata della polizia a circa 100 metri da me. È stata una delle mie prime manifestazioni e sono rimasto traumatizzato dalla violenza della polizia, dalle 400 granate esplosive lanciate indiscriminatamente nella notte, dalle menzogne dello Stato che ha occultato le circostanze della sua morte, dalla propaganda mediatica infame e dall’indifferenza del sistema giudiziario, che ha respinto il caso nonostante le richieste della famiglia di Rémi di ottenere una sentenza simbolica. La mattina dopo ho chiamato la mia sorellina al telefono, e ho pianto, rendendomi conto che avrei potuto esserci io al suo posto con tutte quelle granate che mi esplodevano intorno. Da allora ho avuto anche problemi d’udito sempre più gravi e un continuo acufene all’orecchio. Ma la cosa più grave per me è che oggi io possa affermare davanti a voi che un giovane della mia età è morto quasi accanto a me in una manifestazione e che io possa dirlo a sangue freddo. Qualcosa è morto dentro di me durante la prigionia, in prigione ho perso parte delle mie emozioni.

Per farvi capire un po’ meglio, voglio aggiungere alcune cose su quella giornata di mobilitazione svoltasi nella valle di Tescou , nel Sud-Ovest della Francia. La prefettura aveva promesso di non schierare gendarmi per non generare tensioni, anche rimuovendo, per sicurezza, i macchinari dal cantiere. La diga di Sivens è stata trasportata dal CACG, un’organizzazione pubblico-privata, che le ha permesso di fare una dichiarazione di pubblica utilità e di mettere così le mani sul denaro dei contribuenti: quasi 4 milioni di euro di fondi pubblici per costruire questa diga a sostegno dell’agricoltura intensiva. Ma per finire, la diga di Fourrogue, edificata poco prima della progettazione della diga di Sivens, è stata dichiarata illegale e inadatta dal tribunale amministrativo dopo la sua costruzione. In altre parole, non era nemmeno utilizzabile per lo scopo con il quale era stata costruita. Questo dimostra che l’interesse dietro questi progetti è essenzialmente l’appropriazione indebita di denaro pubblico. I titolari del progetto vogliono costruire circa 50 dighe nella regione e attualmente stanno pensando di riproporre un progetto proprio non lontano dal luogo in cui Rémi, un giovane di 21 anni, è stato ucciso dalla polizia. Un fiume deve poter scorrere liberamente verso l’oceano. È più sano adattarsi alla natura o adattare la natura al capitalismo?

Vorrei che qualcuno mi spiegasse dov’è il progresso quando grandi gruppi come la Bayer/Monsanto brevettano la vita stessa e conducono mutazioni sulle piante in modo che sia impossibile riutilizzare i semi ogni anno senza doverli ricomprare. Ora è stato dimostrato che nelle vecchie varietà di semi un codice genetico viene trasmesso di generazione in generazione attraverso i semi, la pianta si adatta al suo ambiente, ha intelligenza, migliora e si rafforza ogni anno.

Inoltre La Bayer e la Monsanto sono responsabili della morte di diverse decine di migliaia di persone per malattia o suicidio, in particolare vietando l’uso di alcuni semi e imponendo semenze geneticamente modificati.

In India, per esempio, i contadini si sono indebitati al fine di doverli ricomprare ogni anno, ma non vedrete mai i dirigenti di queste aziende fare 1 anno e 4 mesi di carcere per questi motivi.

Tornando ad Anonymous, ho scoperto su internet il progetto di smaltimento delle scorie nucleari a Bure, a pochi passi da casa mia. Non ne avevo sentito parlare a scuola, al telegiornale o sui giornali. Così ho fatto delle ricerche e ho scoperto che per più di vent’anni la gente ha combattuto e si è mobilitata contro questo progetto. C’è stata persino una petizione firmata a mano da oltre 50.000 persone che hanno chiesto un referendum locale per sapere se le persone sono d’accordo con questo progetto. Quella petizione è stata ignorata. Sarebbe davvero un peccato per le autorità locali perdere gli 80 milioni di euro distribuiti ogni anno per “sostenere economicamente” il progetto della discarica. Il denaro nucleare scorre fino alle scuole, ove si organizzano gite nelle gallerie sotterranee dove già due operai sono morti in un crollo.

Quando all’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi è stato ricordato che i tunnel finiranno per crollare, la risposta data da un funzionario è stata: “È previsto, crolleranno, ma preferiamo parlare di convergenze di rocce.” Credo piuttosto che una convergenza di lotte impedirà la follia di questo progetto. Come ha detto lo scrittore italiano Erri de Luca a proposito della prevista linea TGV Lione Torino in Italia, credo che il progetto di interramento delle scorie nucleari debba essere rallentato, ostacolato e quindi sabotato per la legittima difesa della salute, del suolo, dell’aria e dell’acqua.

La Germania ha teoricamente interrotto l’energia nucleare dopo Fukushima, ma le scorie nucleari rimangono un problema. In Francia, pur non sapendo cosa fare con i rifiuti, rinnoveremo il parco centrali e lanceremo una nuova generazione di reattori (EPR), soprattutto per poterli vendere all’estero.

Anche alla luce della laboriosa gestione che le lobby del nucleare hanno svolto in Somalia gettando i fusti di scorie nucleari nell’oceano e in varie discariche con molteplici incidenti mi sembra ovvio che la gestione delle scorie nucleari non debba essere lasciata a questi irresponsabili.

Non si possono risolvere i problemi usando la stessa logica che li ha creati” Albert Einstein

E’ importante ammettere onestamente che non sappiamo cosa fare e non abbiamo mai saputo cosa fare con le scorie nucleari. Pertanto, bisogna fermare immediatamente la produzione di tali rifiuti.

Questa questione della gestione dovrebbe essere presa in considerazione dalla società nel suo complesso, finanziando la ricerca indipendente. Da dove possono venire i soldi?

Ogni anno nel dipartimento della Mosa e dell’Alta Marna vengono convogliati 80 milioni di euro per comprare oggi il consenso di chi sarà colpito dalle radiazioni domani. Nel linguaggio attuale, questo non si chiama più “corrompere”, ma “lavorare sull’accettabilità sociale di un progetto”. Indirizziamo questi soldi verso la ricerca di alternative. Per gli sprechi esistenti, cerchiamo di trovare soluzioni attraverso la scienza, piuttosto che acquistare le coscienze. Ci sono gli amministratori delegati del nucleare che hanno fatto milioni, anche miliardi, di profitti sulle nostre vite. Loro devono restituire i soldi, per la sopravvivenza dell’umanità.

Vorrei ricordarvi inoltre che la Germania sarà probabilmente molto colpita da questo progetto di discarica, perché Bure si trova nel nord-est della Francia e spirano prevalentemente venti da ovest.

  • questo impegno nel campo dell’informatica contro la discarica a Bure e la diga di Sivens che mi ha portato ad una prima condanna in tribunale dopo la visita di 7 agenti della DGSI a casa dei miei genitori. Le 48 ore di custodia che ne sono seguite sono state un orrore. Rifiutandomi di collaborare, gli agenti si sono spinti al punto di minacciarmi di prendere in custodia il mio migliore amico perché appariva in fretta e furia nel montaggio video. Sono riusciti a farmi crollare facendo pressione su questo caro amico che non condivide le mie opinioni politiche. Voglio insistere su questa mostruosa viltà dell’élite della polizia francese. Al tempo non credevo fosse possibile arrivare a tanto. Mi hanno dato una condanna a quattro mesi di carcere con la condizionale e cinque anni di divieto di fare concorsi in alcune professioni nel settore pubblico. Essendo al primo anno di giurisprudenza all’epoca, mi sono appellato per chiedere la rimozione di questo divieto di esercitare la professione, in modo da poter continuare gli studi e cercare di diventare un avvocato ambientalista. Purtroppo la corte d’appello ha confermato il divieto, che è tornato in vigore per cinque anni. Fu allora che dovetti dimenticare questo progetto di carriera per darmi alla permacultura. Terreno in cui lo Stato non mi ha ancora ostacolato.

In Francia la polizia tedesca è vista come la migliore nella de escalazione delle situazioni di piazza, tuttavia ad Amburgo ho visto migliaia di manifestanti arrampicarsi su un muro per sfuggire alla polizia ed evitare di farsi sfondare la testa. Era il primo giorno delle manifestazioni contro il G20, il posizionamento dei cannoni ad acqua, che fin dall’inizio erano quasi a contatto con il corteo, e le cariche della polizia da tutte le parti non permettevano nemmeno la possibilità di fuggire. Ci sono state diverse decine di feriti alla testa molto gravi. Allora perché i tribunali restano in silenzio di fronte alla violenza della polizia? Dove sono nei media le foto dei poliziotti che colpiscono i crani delle persone?

Io accuso il potere giudiziario di far parte di un cerchia di persone che praticano la violenza sulla base di una divisione del lavoro tra gli agenti di polizia che svolgono i loro compiti e i tribunali, che condonano e incoraggiano i crimini commessi dagli agenti attraverso il loro lassismo. I tribunali in generale sono complici di tutta la violenza della polizia del G20 perché nessuno di loro ne ha preso le distanze. Non ci sono state condanne di agenti di polizia dopo il G20, nonostante i numerosi video e le documentazioni dei cittadini. Ma è un problema strutturale dell’istituzione di polizia, la polizia non solleva indagini contro se stessa.

Bertolt Brecht ha detto:

Si dice che un fiume che travolge tutto è violento, ma nessuno parla mai della violenza degli argini che lo costringono

Accogliere il G20 o impedirlo manifestando?

Il vertice riunisce i cinque maggiori trafficanti d’armi del mondo – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna – tutti membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU. “Quando si è per la pace, non si vendono armi”, queste sono le parole di un guineano senza documenti nel cortile dell’edificio A. Mi ha parlato molto della Guinea e dell’Africa in generale, un continente molto ricco di risorse ma povero a causa dei saccheggi del sistema capitalista. Se i Thomas Sankara o i Patrice Lumumba non finissero ogni volta assassinati dalle armi costruite nei Paesi del nord del mondo, l’Africa oggi avrebbe un volto diverso.

Al tempo del G20 di Amburgo, Francia e Germania vendevano armi alla Turchia. Armi che probabilmente sono state usate durante l’offensiva turca contro i Curdi nel Rojava in Siria del nord. I giornalisti turchi sono ancora detenuti per aver rivelato che Erdogan ha consegnato armi a Daesh. Se una persona dà una pietra a un manifestante, può essere accusato come complice di un atto di estrema violenza e potrebbe finire in prigione. Ma vendere armi è un atto legale. Probabilmente il problema è che si tratta di un dono e sarebbe meglio se diventasse un mercante di pietre. Oppure non ha nulla a che vedere con l’interesse finanziario e si tratta di una questione morale: è bene vendere armi perché servono a fare la guerra per la pace, un’incongruenza già descritta da George Orwell nella sua opera “1984”. Inoltre nelle galere dello stato russo gli anarchici sono stati recentemente torturati. Anche in Arabia Saudita e Turchia è prassi comune la tortura dei prigionieri.

Signore e signori della corte, voi avete idea dell’estrema violenza incarnata nel summit?

In questo incontro dei 20 Stati più ricchi del pianeta?

C’è qualcosa di particolarmente grave in questo processo, 5 persone devono rispondere di tutti i danni di una manifestazione. Il 99% delle accuse non sono rivolte personalmente agli imputati. L’accusa si estende a più di un milione di euro di danni. Il pubblico ministero sta cercando di costruire e imporre una visione molto ampia della complicità, al punto di volerla estendere anche oltre la presunta presenza dell’imputato. In pratica: immaginate di essere in una dimostrazione, qualcuno brucia un’auto a 50 metri di distanza da voi. Ecco, siete considerati responsabili del danno.

Ma questo non è niente! Ora immaginate di andarvene da una manifestazione, 10 minuti dopo viene lanciata una molotov: anche se non siete più presenti, siete considerati responsabili. Ci sono molti problemi in questo processo, nel carcere, nella polizia, nel capitalismo, nello Stato e nel suo mondo. Questi diversi temi hanno, tra gli altri, come comune marciume: la sete di potere, la globalizzazione, e la necessità di questa società di classificare ogni cosa. In questo senso l’individuo, la sua identità, la sua creatività, la sua unicità deve essere rinchiusa in una scatola, in un gruppo.

Per citare ancora Thoreau:

L’unicità di un uomo si manifesta in ogni tratto del suo volto e in ogni sua azione. Confondere un uomo con un altro o considerarlo parte di un insieme è un segno di stupidità. Le menti ottuse distinguono solo tra razze, nazioni o clan, quando il saggio distingue gli individui.

Riguardo a queste accuse non spiegherò quello che non ho fatto, e se mi chiedete cosa ne penso, potrebbe rientrare in quest’altra citazione:

“Non importa quale sia il mio giudizio su questo o quell’atto o su questo o quell’individuo, non mescolerò mai la mia voce alle grida d’odio degli uomini che mettono in moto eserciti, polizia, magistratura, sacerdoti e leggi per il mantenimento dei loro privilegi.” Elisèe Recluse

Vi rimane ancora un po’ di tempo prima della fine di questo processo per limitare l’accusa solo a ciò che ho potuto fare, finché non sarà così, mi rifiuto di parlare dell’accusa contro di me riguardo alla manifestazione sull’ Elbschaussee. Vale a dire: se ero effettivamente presente, se mi avete confuso con altre persone, o se semplicemente non ero presente. Con prove a sostegno.

In Francia, sono stato accusato di aver tagliato una recinzione attorno a un progetto di discarica di scorie nucleari, ho preteso in tribunale di spiegare questo gesto. La trascrizione di questo processo è disponibile in un opuscolo intitolato “Sappiate che non mi aspetto nulla dalla vostra istituzione” tradotto anche in tedesco. Anche altri processi contro gli anarchici, come quello di Alexander Marius Jacob, contengono una rivendicazione degli atti compiuti davanti ad un tribunale. Si tratta di una strategia di rottura. Capisco l’atteggiamento di non voler parlare e di tacere e voglio essere solidale con chi sceglie di non parlare in tribunale. Tuttavia, detesto i racconti falsi dei procuratori o della polizia. Ed è nei tribunali che le loro versioni vengono stabilite e riprese dai giudici e poi dai media. Oggi parlo quindi per raccontarvi qualcosa che ho vissuto per le strade di Amburgo.

Nel pomeriggio del 7 luglio 2017, la polizia tedesca ha fatto un’altra dimostrazione della sua strategia di “de escalation”. Incessantemente gli agenti di polizia caricavano intorno al Rote Flora [Centro sociale occupato storico di Amburgo, n.d.r.]. In diverse occasioni ho visto la polizia picchiare la gente sui marciapiedi e la gente che beveva seduta nelle terrazze dei bar. Senza motivo. Forse in una mente poliziesca, il solo fatto di essere presenti intorno a Rota Flora è colpa sufficiente? Nel piccolo parco appena dietro, 4 poliziotti sono corsi verso una persona che era in un angolo vicino a un cespuglio, è stata picchiata distante dagli occhi della gente e lontana dalle telecamere. Ho visto un giornalista che veniva pestato dalla polizia. E mentre un’altra persona veniva picchiata duramente di fronte al Rota Flora, sono andato spontaneamente in avanti con altre persone, urlando di indignazione. Un poliziotto mi ha dato sparato del gas in faccia. Poi ho messo lo zaino per terra e ho lanciato 2 bottiglie di birra davanti a me verso la polizia. Dietro questo gesto vi è la violenza della polizia, non voglio scusarmi per questo. Tanto più che non sono riuscito a colpire la polizia e le bottiglie sono finite accanto a loro (come potete vedere in un video). Naturalmente, ai vostri occhi, che il proiettile colpisca o meno un agente rimane comunque illegale.

Allo stesso modo la vostra legge vieta di colpire a colpi di manganello all’altezza della testa o di sparare gas lacrimogeni in faccia. Ma c’è mai stato un processo contro un agente di polizia che ha colpito un manifestante? No, non c’è mai stato un processo contro nessun poliziotto che ha rotto le teste della gente al G20. Quindi? Bisogna dunque mettersi il casco durante una manifestazione?

Poco dopo, in un video della polizia, mi si vede correre verso un’anziana signora che spinge la sua bicicletta. Si era fermata in mezzo alla strada mentre un cannone ad acqua si muoveva verso di lei. L’ho aiutata ad arrivare al marciapiede e una volta arrivati sul marciapiede, siamo stati colpiti da un getto dell’idrante chiaramente puntato su entrambi. Dopo aver controllato che stesse bene, ho raccolto 2 pietre e le ho lanciate in direzione del cannone ad acqua. La polizia era in posizione dietro l’idrante.

Voi siete molto fantasiosi ed estremamente sensibili quando scrivete nelle vostre accuse che questi sassi sono stati lanciati verso la polizia e aggiungete che ciò è stato fatto “accettando che avrebbe potuto ferire gravemente gli agenti di polizia”. Perché prima di immaginare ciò, dovreste dimostrare che il proiettile ha effettivamente colpito un agente di polizia. Una volta fatto questo, è necessario riconoscere che è difficile ferire gravemente un agente di polizia quando indossa l’equipaggiamento protettivo, a differenza dei manifestanti che non ne indossano. Nel frattempo, il potente getto d’acqua ci ha chiaramente colpito e nessuno incolpa il poliziotto che ha sparato il colpo per “aver accettato che avrebbe potuto ferire gravemente questa donna anziana”.

Non riconoscendomi nelle vostre definizioni di manifestanti buoni o cattivi, voglio che sappiate che sono solidale con chiunque si trovi ad affrontare la giustizia a seguito di Manifestazioni: che si tratti del G20 o dei Gilet Gialli, che si tratti di Minneapolis, che si tratti del Cile o di Hong Kong. Perché ancora una volta, qualunque sia il mio giudizio su questo o quell’atto o su questo o quell’individuo, non mescolerò mai la mia voce con chi mette in moto eserciti, polizia, magistratura, sacerdoti e leggi per mantenere i propri privilegi. Ci sono stati molti tentativi di fermare il G20 con blocchi non violenti, anch’io ho partecipato a questa strategia e una persona accanto a me è finita con un occhio nero mentre un altro poliziotto mi prendeva a calci mentre eravamo seduti. Ho notato che era meno pericoloso usare questa tattica se c’erano telecamere che riprendevano la scena. I poliziotti sembrano molto sensibili alla loro immagine e si astengono dal mostrare la loro violenza sotto i riflettori, ma non esitano, una volta che appare un po’ d’ombra, a dispiegare la loro oscurità.

“La resistenza passiva non violenta è efficace solo fintanto che il tuo avversario aderisce alle nostre stesse regole. Ma se la manifestazione pacifica incontra solo la violenza, la sua efficacia finisce. Per me la non violenza non era un principio morale, ma una strategia. Non c’è alcun bene morale nell’uso di un’arma inefficace” Nelson Mandela

Esiste un’analisi del febbraio 1989 degli effetti che comporta portare l’uniforme realizzata da parte del Servizio Correzionale del Canada. Lo studio ha dimostrato che è più probabile che una persona sia aggressiva se indossa una divisa. Questo è il motivo per cui non sono particolarmente arrabbiato con le persone, ma con la situazione creata dall’essere un agente di polizia.

Per concludere: la stampa tedesca ha sottolineato spesso l’impatto economico delle manifestazioni. Per tutto il G20 di Amburgo ho sentito dire che si tratta di circa 10 milioni di euro di danni. Vi dimostrerò che una persona che mangia sano e fa qualche danno durante una manifestazione costa alla società meno di un cliente abituale di McDonald’s.

Un articolo uscito sul giornale “Liberation” ha stimato che il costo del cibo spazzatura per la salute in Francia è di 55 miliardi di euro per l’anno 2019. Ci dovrebbero essere 5.500 dimostrazioni ogni anno con 10 milioni di euro di danni per eguagliare l’impatto economico del cibo spazzatura. Sapendo che le mobilitazioni sono state distribuite in 4 giorni, non è possibile realizzarne più di 92 in un anno. A meno che non ci si permetta di immaginare più eventi contemporaneamente. Sarebbe quindi necessario che 59 eventi come quello del G20 di Amburgo si svolgano contemporaneamente, ripetendosi ininterrottamente per un anno, in modo che il danno economico sia pari a quello del cibo spazzatura in Francia. Non ho trovato cifre per la Germania, ma credo che sia più o meno la stessa cosa. Arrotondando, possiamo dire che il cibo spazzatura costa 100 miliardi di euro all’anno in Germania e in Francia. Quindi 300 miliardi di euro dai tempi G20 di Amburgo, non è più saggio portare in tribunale i giganti del cibo che avvelenano il nostro mangiare e le nostre vite?

Ecco alcune parole di Ravachol:

Nel creare gli articoli del Codice, i legislatori hanno dimenticato che non stavano attaccando le cause, ma solo gli effetti, e che non stavano in alcun modo distruggendo il crimine; in verità, le fintanto che esistono le cause, ne seguiranno sempre gli effetti. Sì, lo ripeto: è la società che crea i criminali. E voi [legislatori] invece di colpirli, dovreste usare la vostra intelligenza e la vostra forza per trasformare la società. Così facendo, sopprimereste tutti i crimini; E il vostro lavoro, attaccando le cause, sarebbe più grande e più fruttuoso della vostra giustizia che si limita alla punizione degli effetti“.

Ho sentito che la procura era preoccupata che la sentenza fosse sufficientemente alta per l’educazione dell’imputato. Sono rimasto sorpreso di scoprire questa forma di educazione. Lei crede che la punizione tramite la reclusione sia un mezzo per costringere una persona a non fare più una cosa. Ci sono prigioni aperte con un tasso di recidiva del 20% in Norvegia, il luogo dove sono stato rinchiuso per 1 anno e 4 mesi ha un tasso di recidiva del 70%. In questa prigione norvegese le guardie a volte cantano una canzone ai nuovi arrivati, c’è ascolto, amore e considerazione. Quando sono arrivato nella vostra prigione, sono rimasto 1 mese con le stesse mutande, chiuso 23 ore al giorno, incrociando gli sguardi severi delle guardie che disprezzano i prigionieri. Ma a rischio di non essere stato chiaro, perché si potrebbe credere che io sia soddisfatto di una prigione norvegese.

Proprio come Ravachol che dice “è la società che fa i criminali” e il criminologo Alexandre Lassange che dice “ogni società ha i criminali che merita”.

Credo che è trasformando la società che possiamo eliminare tutti i crimini. E credo che ci sia uno 0% di possibilità di recidiva in questo processo, perché la causa è scomparsa, non ci sarà mai più un G20 ad Amburgo.

La mia prossima dichiarazione conterrà un testo che immagina un G20 senza polizia, alternativa al vostro vertice, e una critica alla civiltà industriale e alle energie rinnovabili nel “capitalismo verde”.

Presenterò anche un fumetto con protagoniste alcune patate che ho realizzato in prigione e che spiega come tutti gli Stati del mondo potrebbero liberarsi delle loro bombe atomiche.

Loic, Amburgo, il 17 giugno 2020.

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Multati i rider che protestavano a Torino il 1° maggio per lavorare in salute e sicurezza

La manifestazione per la quale i rider torinesi sono stati multati

Torino, 373 euro di multa ai rider che protestavano nel lockdown: “Era un assembramento”Il primo maggio una trentina di rider aveva organizzato uno sciopero e una protesta che era partita da piazza Castello con l’obiettivo di chiedere al Governo più tutele per la categoria. Quel ritrovo in piazza Castello, però, è stato considerato un “assembramento in luogo pubblico”, in pieno lockdown ed è per questo che molti dei partecipanti a quella protesta hanno ricevuto un verbale con una multa di 373 euro. Le multe sono state notificate oggi e, si legge nel verbale, l’infrazione è stata accertata in data 1° maggio in piazza Castello” ma i verbali non erano stati consegnati subito “per motivi di ordine e sicurezza pubblica”.

“Durante tutto il periodo di lockdown il nostro lavoro è stato considerato un’attività essenziale. Essenziale per chi ci sfrutta, naturalmente, che non poteva rinunciare a guadagnare sul nostro lavoro a scapito della nostra salute: infatti, come più volte ribadito, i dispositivi di sicurezza non ci sono stati forniti dalle aziende se non dopo molto tempo”, spiegano i rider sulla pagina Facebook Project Deliverance, che definiscono le multe “un attacco politico alla lotta dei rider e al diritto allo sciopero. Ogni sera siamo stati costretti a passare ore davanti ai ristoranti con decine e decine di altri colleghi e colleghe, senza dispositivi di sicurezza né attenzione per la nostra salute, messa sempre in secondo piano da chi ci sfrutta”.

Durante il lockdown la polizia era dovuta intervenire davanti al Mc Donald di via Livorno perché i troppi rider in attesa non riuscivano a mantenere le distanze di sicurezza. “La decisione di scendere in strada è stata intuitiva ed immediata – proseguono i rider – Se possiamo rischiare la nostra salute per gonfiare le tasche dei nostri padroni, allora possiamo farlo, in maniera consapevole e rispettando le misure di sicurezza, per rivendicare condizioni di lavoro migliori, oltre che per accusare le aziende di non aver fornito quei dispositivi di sicurezza che avrebbero dovuto proteggerci”.

I rider rivendicano di aver rispettato le distanze e le misure di sicurezza. “Durante lo sciopero abbiamo fatto sì che ogni singolo rider presente avesse una mascherina, che venissero rispettate le distanze e che ci fosse abbondante disponibilità di gel igienizzante, in modo che ognuno di noi fosse protetto e tutelato”. Ma il decreto del governo impediva ogni genere di assembramento. Concludono però i rider: “Le multe che adesso stanno arrivando unicamente ai rider più generosi e attivi nelle lotte, ben conosciuti dalla polizia politica: questo indica chiaramente l’intento repressivo“.

unire la lotta contro la repressione politica e la repressione delle lotte dei lavoratori

Torino, 373 euro di multa ai rider che protestavano nel lockdown: “Era un assembramento”

Nel mirino la manifestazione del 1° maggio in cui chiedevano più tutele e dispositivi di sicurezza. I verbali non sono stati consegnati subito “per motivi di ordine pubblico”. Fattorini furibondi: “Eravamo distanziati, questo è un attacco politico a lavoratori essenziali durante la quarantena”

Il primo maggio una trentina di rider aveva organizzato uno sciopero e una protesta che era partita da piazza Castello con l’obiettivo di chiedere al Governo più tutele per la categoria. Quel ritrovo in piazza Castello, però, è stato considerato un “assembramento in luogo pubblico”, in pieno lockdown ed è per questo che molti dei partecipanti a quella protesta hanno ricevuto un verbale con una multa di 373 euro. Le multe sono state notificate oggi e, si legge nel verbale,  l’infrazione è stata accertata in data 1° maggio in piazza Castello” ma i verbali non erano stati consegnati subito “per motivi di ordine e sicurezza pubblica”.

“Durante tutto il periodo di lockdown il nostro lavoro è stata considerato un’attività essenziale. Essenziale per chi ci sfrutta, naturalmente, che non poteva rinunciare a guadagnare sul nostro lavoro a scapito della nostra salute: infatti, come più volte ribadito, i dispositivi di sicurezza non ci sono stati forniti dalle aziende se non dopo molto tempo”, spiegano i rider sulla pagina Facebook Project Deliverance, che definiscono le multe “un attacco politico alla lotta dei rider e al diritto allo sciopero. Ogni sera siamo stati costretti a passare ore davanti ai ristoranti con decine e decine di altri colleghi e colleghe, senza dispositivi di sicurezza né attenzione per la nostra salute, messa sempre in secondo piano da chi ci sfrutta”


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Durante il lockdown la polizia era dovuta intervenire davanti al Mc Donald di via Livorno perché i troppi rider in attesa non riuscivano a  mantenere le distanze di sicurezza.  “La decisione di scendere in strada è stata intuitiva ed immediata –  proseguono i rider – Se possiamo rischiare la nostra salute per gonfiare le tasche dei nostri padroni, allora possiamo farlo, in maniera consapevole e rispettando le misure di sicurezza, per rivendicare condizioni di lavoro migliori, oltre che per accusare le aziende di non aver fornito quei dispositivi di sicurezza che avrebbero dovuto proteggerci”.

I rider rivendicano di aver rispettato le distanze e le misure di sicurezza. “Durante lo sciopero abbiamo fatto sì che ogni singolo rider presente avesse una mascherina, che venissero rispettate le distanze e che ci fosse abbondante disponibilità di gel igienizzante, in modo che ognuno di noi fosse protetto e tutelato”. Ma il decreto del governo impediva ogni genere di assembramento. Concludono però i rider: “Le multe che adesso stanno arrivando unicamente ai rider più generosi e attivi nelle lotte, ben conosciuti dalla polizia politica: questo indica chiaramente l’intento repressivo”.

Picchettaggio davanti all’azienda, operai e sindacalista a processo

soccorso rosso proletario denuncia – sempre e solo repressione delle lotte dei lavoratori

Bloccarono i Tir davanti alla Safim di None: sono accusati di violenza privata (e uno di lesioni)
Per un picchettaggio davanti alla Safim di None, azienda che si occupa dello stoccaggio di derrate alimentari per i supermercati, 28 operai e un delegato sindacale dello «Si Cobas» sono stati rinviati a giudizio: gli imputati sono accusati di violenza privata, «per aver bloccato la circolazione stradale, impedendo il transito ai mezzi pesanti in entrate e in uscita dallo stabilimento». Una manifestazione — «non formalmente preannunciata» — innescata da alcuni licenziamenti, che infiammò la protesta per tre giorni a fine ottobre 2015 e un paio a marzo 2016. Secondo le indagini della Digos, coordinate dall’allora pubblico ministero Andrea Padalino (poi il fascicolo passò al pm Roberto Sparagna), gli operai minacciarono gli autisti dei camion, insultandoli e, in alcuni casi, danneggiando gli specchietti retrovisori. In un caso, un autista fu aggredito e, per questo, un operaio andrà a processo anche per l’accusa di lesioni, all’epoca giudicate guaribili in 7 giorni. I lavoratori — gran parte dei quali difesi dagli avvocati Gianluca Vitale e Giulio Calosso — sono tutti egiziani, tranne uno, nato in Tunisia.

I sindacati di base: «Recessione della democrazia»

«Siamo in una fase di grande recessione della democrazia», commenta Francesco Latorraca, il delegato del «Si Cobas» rinviato a giudizio. «Quella fu una protesta iniziata dopo licenziamenti, poi giudicati antisindacali — aggiunge — ma ormai qualsiasi forma di dissenso è ostacolata. Noi ci presentiamo con un paio di bandiere e ci ritroviamo i blindati delle forze dell’ordine». Gli operai, all’epoca, protestavano anche per condizioni di lavoro e salario, mentre sullo sfondo c’era pure una ruvida polemica tra i sindacati di base e la Cisl. Prima dell’udienza preliminare, una quindicina di lavoratori avevano risarcito l’azienda con un contributo simbolico di un euro, ottenendo il ritiro della costituzione di parte civile: eppure, ieri mattina (7 luglio), il giudice ha mandato a processo anche loro. Prima udienza il 14 dicembre, con presumibili (e prevedibili) orizzonti di prescrizione.

Cariche al corteo antifascista ieri a Schio (Vicenza).

Come sempre la polizia difende la feccia fascista e attacca gli antifa. Lo tengano a mente i “democratici” che dicono di “rispettare il lavoro delle forze dell’ordine ma…”

Il corteo, lanciato da Schio è Antifascista, ha provato a bloccare la sfilata di estrema destra, ma è stato caricato dalla polizia. Per l’ennesima volta alle compagini razziste, xenofobe e fasciste di questo paese viene concessa agibilità, mentre chi si oppone viene caricato. La manifestazione dopo le cariche si è poi diretta sotto il comune di Schio per chiedere conto al sindaco di quanto è successo e le immediate dimissioni del consigliere Alex Cioni, promotore del raduno, e dell’assessore Donazzan, presente alla commemorazione e che da sempre legittima ogni parata fascista.