Dalla Coordinamenta Transfemminista di Udine, comunicato di solidarietà

Tremate, tremate, perché non ce ne siamo mai andate!
Oggi 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne e di genere, vogliamo parlare di una delle forme di violenza che lo Stato esercita in modo sempre più capillare e pervasivo: la repressione.
Iniziamo esprimendo la nostra incondizionata SOLIDARIETA’ alla compagna e al compagno dell’Assemblea permanente contro il carcere e la repressione che, a seguito di alcuni interventi pubblici di denuncia della malasanità in carcere e per aver espresso solidarietà con compagni e compagne imprigionate per aver lottato contro le istituzioni totali, il militarismo e il neo-colonialismo (fatti durante presidi e cortei, tra cui uno anche promosso da noi), sono stat* accusat* dei reati di istigazione a delinquere e diffamazione e stanno subendo un processo.
Abbiamo saputo che, durante un’udienza, siamo state tirate in causa e nominate ripetutamente: si voleva sapere se la compagna e il compagno imputat* facessero parte della Coordinamenta Transfemminista e si voleva appurare il perchè o percò un* dei due avesse parlato durante una nostra manifestazione contro la violenza di genere del novembre 2019.
Vogliamo rispondere così: ai nostri cortei è benvenuta/o chi lotta contro i soprusi e le violenze che lo Stato esercita su soggettività oppresse e inferiorizzate (come sono in questo caso le persone detenute in qualsivoglia istituzione totale) e chi è solidale con queste lotte. Ai nostri presidi parla chi vogliamo noi, cioè chi ha la nostra stima, la nostra fiducia, le persone con cui sentiamo un’ affinità politica. Parlano le persone generose, che si espongono per chi non puo’ avere voce, come chi sta dentro ad un cpr o ad un carcere. Parlano le persone coraggiose, che si esprimono senza fronzoli correndo il rischio di dire le cose come stanno perché E’ GIUSTO FARLO!
Ma ci teniamo a dirvi anche chi non parlerà mai. Alle nostre manifestazioni non si accettano atteggiamenti oppressivi e prevaricatori, dinamiche di potere di matrice patriarcale che il nostro gruppo vuole smantellare. Per questo, non parleranno mai fascist*, sessist* e razzist*, nè individui “in divisa” e rappresentanti istituzionali di partito. Non riconosciamo nè ci sentiamo rappresentat* da questi ultimi due, che sono il braccio e la mente di politiche securitarie ed emergenziali fatte opportunisticamente sui nostri corpi, di cui vorrebbero espropriarci per disporne come credono, per irrigimentarci e controllarci, pena la solita ricetta: eslusione sociale e violenta repressione.
Esprimiamo solidarietà e vicinanza alla compagna verso la quale è in atto un vero e proprio accanimento repressivo volto ad isolarla e intimidirla, con una pretestuosa perquisizione oltre che l’avvio di procedimenti penali a suo carico. Saremo al suo fianco, faremo eco alla sua forza che, assieme alla nostra, sarà inscalfibile! Lo saremo tutte!
Continueremo a scendere nelle piazze e a dire quello che pensiamo nonostante il clima di caccia alle streghe e l’ingombrante presenza di sbirri e sbirre con e senza divisa, ogni volta che lo facciamo!
Vogliamo infatti ricordare che entrambi i cortei da noi organizzati sono stati pedinati e scortati da un numero spropositato di guardie. Siamo state filmate e registrate da quelle in borghese durante i presidi in centro (questo ormai è chiaro anche dagli atti processuali) in una maniera invadente e ossessiva, talmente sproporzionata da apparire ridicola anche agli occhi delle persone generalmente più ingenue che di solito non si accorgono di questi dettagli.
L’aver mandato a filmare il presidio per l’8 marzo 2021 un poliziotto che era l’incarnazione dello stereotipo del maschio cis abietto e prevaricatore ci ha però tolte dalla fatica di dover spiegare cosa intendiamo quando diciamo che lo Stato è patriarcale e difende solo sè stesso, in strada come nei tribunali. Per questo, da chi non perde occasione per farci capire che dobbiamo stare zitte e nei ranghi, non vogliamo e non vorremo mai niente se non la sua fine.
In ultimo ci teniamo a dire che non prendiamo nemmeno in considerazione, anzi, rigettiamo le soluzioni legislative di tipo “protezionistico” che ci negano l’autodeterminazione e rivendichiamo invece l’autodifesa femminista e la solidarietà tra soggetti oppressi come arma da impugnare contro l’opressore, sia esso il maschio cis abusatore, sia esso in divisa, sia esso in toga, sia esso con il camicie bianco o la camicia nera oppure in abito talare! Se ci “vogliamo veramente vive” allora dobbiamo anche agire per restarlo.

Sgomberato il campetto occupato, ma la lotta continua. Solidarietà del SRP

Prima con le querele e le denunce, ora con le ruspe e un incredibile spiegamento di forze dell’ordine, alla fine il sindaco di Giulianova è riuscito a coronare il suo sogno: sgomberare il campetto occupato.

Alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il primo cittadino giugliese, il leghista Costantini, e l’ASP Teramo (Azienda Pubblica di Servizi alla persona, presieduta da Giulia Palestini, politicamente legata al sindaco Costantini) hanno mostrato chiaramente di quale violenza e brutalità è capace una cricca politico-affaristica degna della migliore tradizione salviniana, pur di eliminare un’esperienza di autogestione, di vita e di solidarietà attiva verso i più deboli, di libertà e lotta alla repressione, alla violenza capitalistica e patriarcalistica di questo stato  borghese.

Ruspe e camionette davanti al cancello, digos, polizia anche in assetto antisommossa, carabinieri, vigili del fuoco. Anche agenti della polstrada di Giulianova sono intervenuti per distruggere tutto quanto costruito in oltre 5 anni di attività, fermare e denunciare gli occupanti e cacciare chi era dentro. Chi in questo spazio aveva trovato non solo un luogo di autogestione, aggregazione e condivisione, ma anche un posto in cui abitare, ora è di nuovo senza tetto, mentre l’ipocrita morale cristiana della feccia fascista, sessista e salviniana al governo della città, sgombera le strade dalla luce dell’umanità che quel posto rappresentava, dandole in pasto alla mercificazione della cristianità

Così da una parte si sgombera il Campetto e si fa la guerra ai poveri, dall’altra si pensa al santo natale installando le luminarie per l’immancabile atmosfera.

Ma il Campetto Occupato, oltre ad offrire aiuto ed autentica solidarietà a persone in difficoltà dimenticate dalle istituzioni, aveva anche sostenuto la lotta contro le frontiere e la guerra, contro le politiche razziste e i centri di detenzione per migranti.

Già 3 anni fa, a dire il vero, il Campetto subì un grave atto vandalico da parte di chi, evidentemente, mal sopportava un posto in cui si concretizzava un’autentica idea di fratellanza e solidarietà con i più deboli, un posto non convenzionale e non commerciale libero da ogni concezione autoritaria. Un rogo distrusse diverse attrezzature e centinaia tra libri e opuscoli nell’ex spogliatoio. Gli occupanti si rimboccarono le maniche e con grande dignità continuarono a difendere quell’idea, perché “le fiamme si estinguono, le idee no”

Con la stessa tenacia ora ribadiscono che il Campetto non è stato tolto solo agli occupanti, ma a tutte quelle persone che volevano vivere in modo altro e organizzarsi per lottare contro i soprusi: “Le Idee non si sgomberano non è una minaccia, ma una promessa. E sono le nostre vite”.

Quello dell’amministrazione e dell’Asp è stato un vero e proprio atto di violenza non solo nei confronti degli occupanti, ma verso tutta la città, a cui non si può rispondere abbassando la testa. E Giulianova ieri sera lo ha dimostrato con una prima assemblea a caldo, partecipata e popolare, con persone arrivate anche da fuori regione, per portare solidarietà agli occupanti e per ribadire che il campetto vive. Dopo l’assemblea i manifestanti hanno anche improvvisato un corteo, raccogliendo, nonostante la città fosse fortemente militarizzata, la solidarietà anche delle altre persone.

Qui trovi il video dell’assemblea

Qui il comunicato del Campetto Occupato

Come soccorso rosso proletario esprimiamo affetto e solidarietà al Campetto Occupato e ci prendiamo l’impegno, compatibilmente con le nostre forze, di contrastare anche fisicamente la repressione contro chi si batte per un’idea di giustizia e umanità che non ha nulla a che fare con la legalità imposta da questo stato borghese.

24 novembre: nella giornata internazionale di azione contro il regime fascista e genocida di Modi, la solidarietà del Partito Comunista delle Filippine-Nuovo Esercito Popolare (CPP-NPA)

La rivoluzione filippina si schiera con il popolo indiano contro la brutale operazione Prahaar

Traduzione non ufficiale da prwcinfo

Il Partito Comunista delle Filippine (CPP) e il New People’s Army (NPA) estendono la loro solidarietà con la Giornata internazionale di azione contro la campagna militare di Prahaar del regime fascista di Narendra Modi. Il popolo filippino è tutt’uno con le grandi masse di oppressi e sfruttati in India e le loro forze rivoluzionarie guidate dal Partito Comunista dell’India (maoista) nel resistere alla brutale campagna di repressione fascista.

Il CPI-maoista ei suoi gruppi di sostegno hanno giustamente scelto il 24 novembre come giorno di azione che coincide con il decimo anno del martirio del compagno Kisanji, membro del suo ufficio politico.

L’operazione Prahaar è l’ultima della serie di crudeli campagne di controinsurrezione del governo indiano in passato, come il Salwa Judum (2004-2009), l’operazione Green Hunt (2009-2017) e il SAMADHAN (2017). Tutti questi mirano invano a porre fine al movimento rivoluzionario guidato dal PCI (maoista). Queste campagne, tuttavia, hanno preso di mira principalmente attivisti, progressisti e organizzazioni della società civile nel disperato obiettivo di instillare il terrore nelle masse indiane. Il popolo indiano, specialmente le masse dei contadini e degli adivasi, è sottoposto a forme sempre brutali di repressione militare e poliziesca.

Le classi reazionarie indiane sono minacciate e terrorizzate dall’ascesa della resistenza rivoluzionaria popolare guidata dal PCI (maoista) nel corso dei decenni. Negli ultimi anni, ha fomentato l’“antiterrorismo” e il fanatismo etnico e religioso per intensificare gli attacchi fascisti contro le classi e le minoranze oppresse e sfruttate. Innumerevoli rivoluzionari e attivisti sono stati assassinati, perseguitati e arrestati illegalmente.

Nonostante l’intensificarsi degli attacchi di stato, le classi oppresse e sfruttate dell’India continuano a perseverare ea sfidare il terrorismo di stato. Nell’ultimo anno, centinaia di milioni di contadini e agricoltori hanno partecipato a gigantesche azioni di protesta contro le politiche neoliberiste del regime di Modi. L’annuncio di Modi che abrogherà le tre leggi sull’agricoltura anticontadina varate nel settembre 2020 è una grande vittoria e una respinta contro il regime fascista di Modi.

La cattiveria degli attacchi dello stato reazionario in India è simile alla repressione brutale e crudele dell’iniziativa terroristica statale condotta dallo stato reazionario fascista nelle Filippine sotto il regime di Rodrigo Duterte. Sia Modi che Duterte hanno dichiarato di porre fine alla resistenza armata popolare entro il 2022 per compiacere le grandi corporazioni imperialiste che cercano di intensificare lo sfruttamento delle persone e saccheggiare le vaste risorse di entrambi i paesi. Come il popolo indiano, le classi ei settori oppressi e sfruttati nelle Filippine aspirano alla liberazione nazionale e sociale.

Il popolo filippino trae ispirazione dalle lotte del popolo indiano mentre affronta il simile assalto fascista organizzato dall’amministrazione Duterte. Nelle Filippine, le forze armate reazionarie hanno condotto una brutale campagna di repressione sia nelle città che nelle campagne. Come in India, il governo degli Stati Uniti sta fornendo ai reazionari materiale militare per condurre una diabolica campagna di bombardamenti aerei, mitragliamenti e bombardamenti di artiglieria in violazione delle regole di guerra universalmente accettate e del diritto umanitario.

Siamo certi che il popolo indiano e le sue forze rivoluzionarie saranno in grado di difendere i propri diritti e interessi e vanificare la brutale Operazione Prahaar del regime fascista Modi. Il PCI (maoista) si è costantemente dimostrato capace e determinato a guidare il popolo indiano nella sua lotta per la nuova democrazia e il socialismo.

Campagna anti-mapuche, ucciso giovane in Patagonia

Argentina. Due uomini armati entrati in una comunità sottoposta a isolamento dalla governatrice aprono il fuoco: un morto e un ferito. Per le associazioni indigene la responsabilità è delle istituzioni, mentre prosegue il sit-in davanti al Congresso per il diritto alla terra

di Claudia Fanti

La brutale campagna anti-mapuche in corso nella provincia del Río Negro, nella Patagonia argentina, ha fatto la sua prima vittima: il giovane mapuche Elías Garay, assassinato domenica da due uomini armati che hanno fatto irruzione nella comunità Quemquetrew, impegnata in un processo di recupero delle sue terre ancestrali nella zona di Cuesta del Ternero.

L’aggressione, in cui è rimasto gravemente ferito anche un altro mapuche, Gonzalo Cabrera, segue di poco il violento sgombero ordinato il primo ottobre dalla governatrice Arabela Carreras, che ha pure disposto l’isolamento della comunità, impedendo l’arrivo degli alimenti.

Ed è stato proprio in un’area fortemente presidiata dalle forze di sicurezza, con tanto di droni e posti di blocco della polizia mirati a impedire qualsiasi ingresso nel territorio recuperato, che l’attacco è potuto misteriosamente avvenire. «Che siano apparse lì due persone armate non ha alcun senso», ha denunciato Orlando Carriqueo, dirigente della Coordinadora Mapuche Tehuelche, accusando il governo del Río Negro di voler occultare il crimine.

«Ripudiamo la repressione contro il popolo mapuche e condanniamo la morte del giovane Garay», ha dichiarato il premio Nobel e presidente del Servicio de Paz y Justicia (Serpaj) Adolfo Pérez Esquivel, che ha attribuito la responsabilità dell’assassinio alla governatrice Carreras, per il suo «rifiuto a dialogare» e la sua «opzione per la repressione».

E mentre sia la governatrice che il ministro della Sicurezza Aníbal Fernández scagionano la polizia, cercando di scaricare la colpa su due presunti cacciatori, a chiedere che si faccia chiarezza sull’omicidio sono le diverse organizzazioni indigene accampate da un mese davanti al Congresso per esigere che «si rispettino i diritti dei popoli originari al loro territorio e alla loro identità».

Così, il grido di giustizia per Elías Garay si è unito alla richiesta di una proroga della legge 26.160 di emergenza territoriale indigena, che proibisce lo sfratto forzato delle comunità fin quando non verranno ultimate le ricerche sul loro effettivo diritto all’occupazione e alla proprietà dei territori rivendicati.

Approvata nel 2006 durante la presidenza di Néstor Kirchner ma rimasta largamente inattuata malgrado le sue tre proroghe, la legge è decaduta martedì, in seguito alla mancata votazione di un’ulteriore proroga di quattro anni da parte della Camera dei deputati, dopo la sua approvazione al Senato il 28 ottobre scorso. Non è bastato quasi un mese di tempo, infatti, per trovare il tempo di metterla in agenda: troppo forte la distrazione provocata dalle elezioni legislative del 14 novembre scorso.

E se a metterci una pezza è stato il presidente Alberto Fernández, stabilendo la proroga tramite un decreto di necessità e urgenza, le comunità indigene e le associazioni che le accompagnano esigono che sia il parlamento a decidere, discutendo non solo un provvedimento di emergenza, ma una vera legge di proprietà comunitaria indigena.

da il manifesto

Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti

La caccia al reato inesistente che il pm Eugenio Albamonte conduce da tempo nei confronti di Paolo Persichetti ha conosciuto un nuovo colpo di scena.

Ignorando la decisione del tribunale del riesame e della cassazione, il 12 novembre scorso il responsabile delle inchieste sul terrorismo e i reati informatici della procura di Roma ha messo da parte l’imputazione di associazione sovversiva ed ha rilanciato l’accusa di favoreggiamento. Dopo l’iniziale violazione di segreto d’ufficio da cui l’indagine era partita siamo giunti al quinto cambio di imputazione in 12 mesi.

Il 2 luglio scorso il tribunale del riesame aveva stabilito che le accuse utilizzate per consentire alla polizia di svuotare il mio archivio erano prive delle condotte di reato. La procura si era limitata a enunciare le accuse (associazione sovversiva e favoreggiamento) senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come a dire: «sono convinto che hai fatto questo, ma non so quando, come e dove, ma siccome sono un pm faccio come il marchese del Grillo: intercetto le tue comunicazioni, ti faccio pedinare e poi ti sequestro tutto quello che hai in casa, anche le cose di tua moglie e dei tuoi figli. Qualcosa alla fine troverò!».

I giudici del riesame avevano proposto una ipotesi di reato alternativa: la violazione di notizia riservata che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando avevo inviato tramite posta elettronica alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo. Pagine destinate ad un gruppo di persone coinvolte nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi. Tra queste c’era l’ex brigatista Alvaro Lojacono, ormai cittadino svizzero, che poi aveva girato il testo ad Alessio Casimirri da decenni riparato in Nicaragua, dove ha acquisito la nazionalità. Una lettura giuridica, quella del riesame, che la cassazione lo scorso 10 novembre ha convalidato, anche se al momento non se ne conoscono i motivi. La procura, però, si tiene lontana da questa ipotesi di reato nella consapevolezza che non si tratti di notizie riservate di rilevanza penale. Nel frattempo un altro giudice, il gip Nicola Savio, si era pronunciato sul fascicolo dell’accusa ritenendo che mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria». Ragione che lo aveva condotto a rigettare l’incidente probatorio che il mio difensore aveva richiesto per contrastare l’intenzione del pm di ficcare il naso comunque tra le mie cose, prima ancora che lo stesso gip si fosse pronunciato sulla legittimità del sequestro nell’udienza prevista il prossimo 17 dicembre. Per tutta risposta il pm ha presentato una nuova domanda di incidente probatorio provando questa volta a precisare meglio accusa e condotte di reato.

Il lavoro storico messo sotto accusa
Secondo la procura le pagine della bozza di relazione da me inviate, nelle quali si affrontava l’episodio delle vetture brigatiste abbandonate in via Licinio Calvo subito dopo il sequestro del leader Dc in via Fani, non avevano come finalità la ricostruzione corretta del percorso di fuga del commando brigatista e la confutazione delle fake news che circolano da decenni sulla vicenda, poi confluita nelle pagine del libro pubblicato nel 2017, ma servivano per il favoreggiamento dei due ex Br. Per la procura in quelle bozze si riportavano «degli accertamenti in corso da parte della predetta commissione, relativi a fatti reato, ancora non completamente chiariti, che coinvolgono anche le loro responsabilità penali». Accusa – come ha rilevato l’avvocato Romeo nelle sue controdeduzioni – difficile da sostenere sul piano giuridico: come avrebbe potuto concretizzarsi il reato di favoreggiamento in una vicenda giudiziaria conclusasi da diversi decenni con condanne all’ergastolo passate in giudicato sia per Casimirri che per Lojacono? Ammesso che possano ancora esistere fatti nuovi, questi sarebbero già assorbiti dalle condanne o largamente prescritti e non potrebbero rivestire più alcuna rilevanza penale ma solamente storica.

Se non c’è una valida ragione giuridica che tiene in piedi l’accusa, quale è allora il movente che spinge il pubblico ministero?

Ascoltato nel dicembre 2020 in qualità di persona informata sui fatti, l’ex presidente della commissione Moro 2 Giuseppe Fioroni aveva sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». Per poi suggerire che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle Brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della commissione con riferimento a questo profilo». Una tesi che si scontra con la logica e la realtà dei fatti.
I temi dell’indagine parlamentare erano facilmente desumibili dalle audizioni pubbliche, accessibili sul sito di radio radicale, trascritte sul portale della commissione stessa e dalle riunioni dell’ufficio di presidenza i cui verbali venivano sistematicamente resi noti. Le piste seguite dalla commissione erano di dominio pubblico, continuamente rilanciate da indiscrezioni giornalistiche, interviste e commenti di commissari molto loquaci. Inoltre i lavori dell’organo di inchiesta parlamentare erano destinati a divenire di dominio pubblico, di lì a poco, con la pubblicazione della prima relazione annuale sullo stato dei lavori il 10 dicembre 2015. Alle «terze persone», accennate da Fioroni, sarebbe bastato attendere qualche ora per conoscerli. Cosa sarebbe mai cambiato in quel breve lasso di tempo? Quel «qualcuno» non aveva certo bisogno di leggere le bozze dedicate a via Licinio Calvo per informarsi. C’è molta presunzione nelle affermazioni all’ex politico di fede andreottiana, giustamente non più rieletto dopo la fallimentare esperienza dell’organismo parlamentare da lui presieduto.

Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò per la prima volta, il 15 novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, che anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel dicembre successivo sulla rivista erotica-glamour Penthause, divenuta una delle maggiori referenze del presidente Fioroni. Nel suo racconto Di Donato sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, quartiere limitrofo alla scena del rapimento e al luogo dove era avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Diversi controlli e perquisizioni vennero effettuate senza esito dalle forze di polizia in alcune palazzine e garage dei dintorni. La sortita di Di Donato venne ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista Op. Entrò quindi nella sfera giudiziaria quando il pm Nicolò Amato ne parlò durante le udienze del primo processo Moro. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro e venne consacrata nelle pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.

Gli ultimi accertamenti della commisssione
Nell’ultimo periodo della sua attività la commissione Moro 2 ha raccolto la testimonianza di una coppia che alla fine del 1978 viveva in via dei Massimi 91, strada situata nella parte più alta della Balduina. I due hanno raccontato di aver ospitato per alcune settimane, sul finire dell’autunno 1978, sei mesi dopo la fine del sequestro, una persona che poi riconobbero essere il brigatista Prospero Gallinari. Dalla vicenda sono scaturite alcune querele nei confronti di uno dei membri della commissione parlamentare (leggi qui e qui) che aveva impropriamente tirato in ballo una giornalista tedesca totalmente estranea all’episodio. All’epoca il comprensorio di via dei Massimi 91 apparteneva allo Ior, Istituto per le opere religiose, ente finanziario del Vaticano. Amministratore unico era Luigi Mennini, padre di don Antonio Mennini, il confessore e uomo di fiducia dello statista democristiano, vice parroco della chiesa di Santa Lucia a cui durante il sequestro i brigatisti consegnarono su indicazione dello stesso Moro diverse sue lettere. Alcuni consulenti della commissione si erano lungamente soffermati sull’ipotesi che Alessio Casimirri fosse in qualche modo «intraneo» all’ambiente che risiedeva o circolava in quell’immobile, perché il padre Luciano era in quegli anni responsabile della sala stampa vaticana, senza comprendere quali fossero le rigide regole della compartimentazione e della logistica all’interno delle Brigate rosse, che non poggiava certo sulle relazioni familiari. I successivi accertamenti della commissione non hanno tuttavia trovato conferme e al momento di chiudere i battenti è stato chiesto alla procura di proseguire le indagini. Come si evince da alcune audizioni pubbliche della Commissione, la coppia che aveva fornito ospitalità a Gallinari, sei mesi dopo il sequestro, proveniva da un’area politica subentrata nelle Brigate rosse dopo la conclusione del sequestro Moro e che aveva relazioni con Adriana Faranda e Valerio Morucci, incaricati dalla colonna romana di trovare una sistemazione a Gallinari dopo l’abbandono repentino della base di via Montalcini nella estate del 1978. Non si comprende quindi quale sia il fondamento investigativo e storiografico dell’accusa che mi viene mossa, mentre appare sempre più evidente l’adesione di polizia e procura a ipotesi complottiste, che non si limitano più a inquinare e depistare le conoscenze storiografiche sulla vicenda Moro ma pretendeno di esercitare il controllo assoluto sulla storia degli anni Settanta.

da Insorgenze

Un altro torturatore a capo dell’INTERPOL, è l’emiratino generale Ahmed Naser Al-Raisi, denunciato per tortura in 5 Paesi

Il generale Ahmed Naser al-Raisi, ispettore generale del ministero degli interni degli Emirati Arabi Uniti, è stato eletto alla guida dell’Interpol, come comunicato in un tweet dalla stessa agenzia di polizia internazionale

Una candidatura, la sua, che aveva già provocato reazioni di dissenso, soprattutto da parte delle organizzazioni che lottano per la salvaguardia dei diritti umani che lo accusano di essere stato coinvolto in torture e detenzioni arbitrarie negli Emirati. Al-Raisi, infatti, ha denunce penali in cinque diversi Paesi, inclusa la Francia, che ospita il quartier generale dell’Interpol e l’Interpol, e la Turchia, dove invece si sono svolte le elezioni che hanno portato alla sua nomina.

Per quanto riguarda la denuncia francese, l’ultima depositata tra le cinque citate, al-Raisi è stato citato nel caso che riguarda il ricercatore britannico Matthew Hedges, arrivato nel maggio 2018 a Dubai nell’ambito dei suoi studi e arrestato a novembre con l’accusa di spionaggio. L’uomo sostiene di essere stato messo in isolamento e torturato pur di farlo confessare. Condannato alla prigione a vita, è stato liberato al termine di una battaglia diplomatica scatenata da Londra.

L’INTERPOL ha una lunga tradizione di tortura e di collaborazione senza riserve con le dittature. Già nel 1938 aveva scelto come presidente un generale delle SS, capo della Gestapo viennese, Otto Steinhäusl. Il suo successivo presidente fu Richard Heindrich, capo della polizia nazista e uno dei principali organizzatori dello sterminio degli ebrei. Il suo primo direttore del dopoguerra fu il belga Florent Louwage che era stato, prima della guerra, un direttore della Sicurezza, esperto nella caccia ai comunisti e che si era messo, durante l’occupazione, al servizio dell’esecutivo dell’Interpol. poi guidato dal generale delle SS Kaltenbrunner (condannato e impiccato a Norimberga per crimini di guerra e crimini contro l’umanità). Il successore di Louwage fu il portoghese Agostinho Lourenço che, dal 1933, aveva organizzato la polizia politica del regime del generale Salazar e ne aveva orientato i metodi basati su arresti arbitrari e torture.