Estradare e incarcerare la storia? Un dibattito interessante il 12 giugno a Napoli

Estradare e incarcerare la storia? Dibattito con Paolo Persichetti, Vittorio Bolognesi e Giovanni Gentile Schiavone.
Sabato 12 Giugno, ore 18:30
@Mensa Occupata
La richiesta di estradizione deg* esul* italian* in Francia ha scatenato un caso mediatico che ha aperto una prateria in cui hanno potuto liberamente scorrazzare pennivendoli, presunti esperti in cerca di visibilità, rottami da social e magistrati vendicativi.
Non ci risulterebbe difficile mentire le versioni fantasiose e ipocrite apparse sui principali quotidiani con firme più o meno autorevoli. Tuttavia, ci interessa di più approfittare di questa occasione per riprendere un dibattito sulla storia della lotta di classe in Italia, a lungo tenuta alla larga dalle sedi dei movimenti antagonisti.
Il timore di essere avvicinati, anche solo ideologicamente, a esperienze di autorganizzazione e lotta, dei decenni scorsi, è bastato a scoraggiare un dibattito e una narrazione interna al movimento su quella che, volente o nolente, rappresenta una parte della nostra storia collettiva.
Obiettivo dell’iniziativa è, dunque, ricostruire l’iter e gli anfratti legislativi di cui si serve la magistratura per portare a compimento i propri progetti repressivi. Ma anche quella di metterne in luce le contraddizioni politiche.
Alla tenacia con cui lo stato si accanisce oggi contro gli esuli in Francia, infatti, fa da contraltare la spensieratezza con cui la magistratura ha prescritto, solo pochi anni fa, i terribili reati di cui si erano macchiati i torturatori delle forze dell’ordine.
Vorremmo contribuire alla narrazione della realtà sociale e politica degli anni settanta e ottanta per restituire la complessità e la dignità rivoluzionaria delle scelte de* protagonist* dell’epoca. Rigettare l’uso pubblico e repressivo che ciclicamente si fa di esperienze che hanno segnato lo scontro di classe e per le quali molt* compagn* sono ancora a vario titolo perseguitat*.

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IL C.P.R. DI TORINO È UNA FERITA NELLO STATO DI DIRITTO

La morte di Moussa Balde, il 23 maggio, nei così detti “ospedaletti” del CPR di Torino, ci interroga, come cittadini e come giuristi, su alcune fondamentali questioni in merito al trattamento oggi riservato ai migranti.

Moussa Balde è stato trattenuto al C.P.R., e prima ancora è stato condotto presso gli uffici di polizia di Ventimiglia, perché cittadino straniero irregolare, subito dopo aver subito una selvaggia aggressione da parte di tre italiani, a Ventimiglia, il 9 maggio. Per quanto noto in questa fase, la sua condizione di persona offesa è stata immediatamente dimenticata, a causa dell’irregolarità del suo soggiorno, e non gli era stata fornita alcuna delle informazioni conseguenti, quali, tra l’altro, la facoltà di presentare denunce o querele, il diritto di chiedere di essere informato sullo stato del procedimento, la possibilità di avvalersi dell’assistenza linguistica. Gli è stato di fatto negato il diritto di partecipare al procedimento penale. Moussa Balde aveva anzi riferito di non avere neppure compreso che l’aggressione avesse generato delle indagini, che i suoi aggressori fossero stati identificati, né tantomeno sapeva che c’era un video che aveva ripreso quella aggressione (all’ingresso nel CPR i trattenuti vengono privati dei telefoni cellulari, benché la legge garantisca la libertà di comunicazione anche telefonica con l’esterno, e non hanno accesso ad internet). Questa prima parte della vicenda conferma per l’ennesima volta che per lo Stato italiano la persecuzione degli stranieri privi di un permesso di soggiorno è considerata una priorità assoluta, da esercitare a qualunque costo, anche a scapito di diritti fondamentali (in alcuni casi, e il Mediterraneo ne è muto testimone, anche della vita dei migranti).

L’altra grande questione che la tragedia di Moussa Balde solleva riguarda ciò che accade dentro i CPR italiani, e dentro il CPR di Torino in particolare.

Moussa Balde vi è stato rinchiuso senza alcuna valutazione preliminare sulla sua idoneità psichica al trattenimento e ciò nonostante le presumibili conseguenze di un’aggressione tanto violenta. Appena entrato al C.P.R., è stato privato del telefono cellulare ed è stato collocato nei c.d. “ospedaletti”, vere e proprie celle di isolamento non previste dalla normativa, separate dalle altre aree, lontane dagli uffici e dall’infermeria, dove è impossibile effettuare un controllo o un’osservazione di chi vi è rinchiuso. Luoghi in cui una patologia psichiatrica o una semplice depressione sono destinati ad aggravarsi e dove è purtroppo molto facile, in solitudine, compiere gesti anticonservativi.

Lo stesso CPR, le medesime camere di isolamento, dove, nel luglio del 2019, era morta un’altra persona, Faisal Hussein, affetto probabilmente da problemi psichici e abbandonato per cinque mesi nella segregazione del C.P.R. di Torino.

La vicenda di Moussa Balde ci deve ricordare quali sono le effettive priorità, che i diritti fondamentali non possono essere sacrificati e che non possono esistere luoghi di detenzione privi di regole, dove la vita delle persone è consegnata all’arbitrio.

I C.P.R. (che per ignoranza qualcuno continua a chiamare “centri di accoglienza”) sono strutture in cui le persone trattenute vengono private della loro umanità, parcheggiate e abbandonate, in condizioni peggiori rispetto a quelle esistenti in carcere, proprio per la carenza di regole e di garanzie. Anche i pochi diritti riconosciuti vengono sistematicamente calpestati da quella stessa pubblica amministrazione che le regole è chiamata a far osservare (e che sanziona con la privazione della libertà personale e con l’espulsione chi ha violato la normativa sul soggiorno).

Tra le numerose violazioni rilevate, queste le più gravi:

– la verifica dell’idoneità sanitaria al trattenimento viene fatta da medici interni del CPR, e non, come previsto dall’art. 3 del Regolamento CIE emanato dal Ministero dell’Interno il 2.10.2014 prot. n. 12700, da medici esterni afferenti alla ASL o alle strutture ospedaliere, prima dell’ingresso. E – come il caso di Moussa Balde dimostra con brutale evidenza – nessuna verifica di compatibilità psichica viene effettuata;

– il sostegno psichiatrico non è stato garantito dal marzo 2020 al febbraio 2021 e rimane comunque insufficiente e discontinuo;

– vengono trattenute persone presunte minorenni, in aperto contrasto con la normativa vigente;

– sebbene la legge non consenta l’isolamento dei trattenuti, la misura viene abitualmente e arbitrariamente utilizzata, senza obbligo di motivazione né possibilità di impugnazione o riesame;

– durante l’isolamento, i trattenuti vengono ristretti in celle pollaio, che ricevono luce solare per poche ore al giorno solo nel cortile (con visuale oltretutto limitata da una tettoia), senza diritto di uscire né di usare un telefono;

– vengono utilizzati luoghi di trattenimento non ufficiali (le celle di sicurezza nel seminterrato), nemmeno dichiarati al Garante nazionale e scoperti casualmente da quest’ultimo in occasione della visita del 2.3.2018;

– in spregio al diritto alla libertà di comunicazione con l’esterno sancita dall’art. 14, comma 2 del Testo Unico sull’Immigrazione e dall’art. 20, comma 3, del Regolamento di attuazione, i trattenuti vengono privati del telefono cellulare, così perdendo anche l’accesso ad internet, principale strumento di comunicazione e di informazione; le telefonate possono essere effettuate solo verso l’esterno, a pagamento e con linea fissa, con la conseguenza che, in considerazione dei costi, è estremamente difficile mantenere contatti con i parenti all’estero; i trattenuti non possono ricevere, privati del proprio apparecchio cellulare, chiamate dall’esterno, avendo sempre l’amministrazione rifiutato di fornire le utenze dei telefoni installati nel centro;

– i colloqui con i familiari e i conoscenti sono sospesi da oltre un anno e non è stato attivato alcun sistema di colloqui in videoconferenza, pur a fronte di trattenimenti che possono protrarsi per diversi mesi;

– i trattenuti vengono costretti in moduli abitativi sovraffollati, con servizi igienici non separati dai luoghi di pernottamento e privi di porte;

– non sono presenti mediatori culturali di lingue e Paesi rappresentati nel CPR.

A ciò si aggiunge il tema della competenza a decidere in materia di libertà personale ai giudici di pace, che tale competenza non hanno in alcun altro ambito. Si ricorda in merito il risultato delle ricerche dell’Osservatorio sulla giurisprudenza del giudice di pace in materia di immigrazione (Lexilium), che ha rilevato che il tasso di convalida dei decreti di trattenimento da parte dell’ufficio dei giudici di pace di Torino, nel 2015, è stato del 98% e quello di proroga del 97%, all’esito di udienze che, nella maggioranza dei casi, non hanno superato i 5 minuti di durata.

A fronte di queste gravissime violazioni, riaffermiamo con forza la necessità di riportare questi luoghi a standard minimi di decenza e dignità, chiedendo che:

– siano immediatamente chiuse le strutture illegali di detenzione, come i c.d. Ospedaletti e le camere di sicurezza nei sotterranei;

– vengano ripristinate le condizioni di legalità del trattenimento e, in particolare, il diritto di comunicazione anche telefonica con il proprio telefono cellulare e la ripresa dei colloqui con i familiari;

– particolare attenzione venga posta alla salute dei trattenuti, anche attraverso il previo esame da parte di medici dell’ASL sulla idoneità al trattenimento, e che venga garantita la presenza di psichiatri e psicologi, sia al momento dell’ingresso, sia nel corso del trattenimento;

– in caso di incapacità a rispettare gli standard minimi sopra illustrati, venga disposta la chiusura della struttura;

Ribadiamo inoltre la necessità di rispettare i principi del processo penale e i diritti delle persone offese, siano essi cittadini italiani o stranieri, indipendentemente dal possesso di un permesso di soggiorno.

Chiediamo infine un incontro urgente con il Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, e con il Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, per documentare i più gravi episodi verificatisi negli ultimi mesi all’interno della struttura, culminati nel suicidio di Moussa Balde.

Per tutte queste ragioni, abbiamo deciso di manifestare davanti alla Prefettura di Torino, in Piazza Castello, il 4 giugno 2021, dalle ore 16.00

Per adesioni di associazioni e singoli scrivere a: giustiziapermoussa@gmail.com

PROMOTORI

ASGI

LEGAL TEAM ITALIA

GIURISTI DEMOCRATICI OSSERVATORIO CARCERE PIEMONTE E VALLE D’AOSTA UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE

ASSOCIAZIONE ANTIGONE

ASSOCIAZIONE ANTIGONE PIEMONTE

ADIF Associazione Diritti e Frontiere

A.P.I. ONLUS

StraLi

CONTRO STATO DI TORTURA E MISURE DI SICUREZZA

Pochi giorni fa, Belmonte Cavazza aspettava di varcare la soglia del carcere di Piacenza, andando finalmente incontro alla libertà.
La sua condanna di 19 anni sarebbe dovuta terminare il 19 aprile. Veniva invece trasferito il 23 aprile presso la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (MO).
La ragione? Una misura di sicurezza disposta nei suoi confronti nel 2003.
Le misure di sicurezza, introdotte da Mussolini nel ‘30 e ancora in vigore, si basano, analogamente alla sorveglianza speciale (misura di prevenzione), su un giudizio di pericolosità sociale: ciò che rileva è la personalità dell’individuo, le sue abitudini ed il suo profilo.
Queste misure vengono disposte sulla base di un “pregiudizio” giuridico di possibile reiterazione del reato; sulla condotta comportamentale durante la detenzione; sull’essere stato condannato o prosciolto per parziale o totale infermità di mente. Possono essere comminate dal giudice come misure accessorie, diventano cioè eseguibili una volta che la pena, alla quale si è stati condannati, è terminata.
“Ergastolo bianco”, è così che sono state definite tali misure di sicurezza. “L’ergastolo bianco” è rinnovabile all’infinito, non essendo previsti per legge termini di durata massima. Di fatto un’altra pena di morte viva, forse la più dimenticata visto che è opinione diffusa che le case di lavoro non esistano più.
Deputati all’internamento di chi è in esecuzione di una misura di sicurezza, oltre alle case di lavoro, sono le colonie agricole e le REMS (che hanno sostituito i vecchi OPG) destinate a chi viene prosciolto da un reato per infermità mentale. Dentro questi luoghi si trovano rinchiusi gli ultimi degli ultimi dei circuiti detentivi. Persone che non possono contare sul sostegno di una famiglia o di una rete di relazioni.
Nonostante le informazioni su tali luoghi siano difficilmente reperibili, sembra che ad oggi – a seguito della chiusura di quella presente sull’isola di Favignana – in tutta Italia rimangano 3 case lavoro: a Vasto, a Castelfranco Emilia (in cui è presente anche una sezione a custodia attenuata) e ad Isili (Sardegna), dove c’è una sezione denominata “colonia agricola” .
Durante la seconda guerra mondiale il Forte urbano di Castelfranco Emilia fu un luogo di prigionia (casa lavoro) fascista, scenario nel ‘44 di esecuzioni nei confronti di partigiani, antifascisti, disertori alla leva.
La storia a venire non ha riservato a quel luogo un’infamia minore, considerati alcuni dei soggetti che ci hanno messo le mani in pasta.
Nel 2005, vi nasceva la colonia agricola penale per persone tossicodipendenti, la cui gestione veniva affidata, per volere del ministro Castelli, all’associazione di Andrea Muccioli, della Comunità di San Patrignano. Fu sponsorizzata da Carlo Giovanardi e inaugurata alla presenza di Gianfranco Fini, come un nuovo fiore all’occhiello. Il Forte urbano veniva quindi ad assumere due funzioni, quella di casa lavoro per l’esecuzione delle misure di sicurezza degli internati e quella di casa di reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti. Nel 2017, la gestione interna delle serre per il lavoro agricolo fu affidata a Caleidos, la cooperativa nota per la sua egemonia nel modenese in particolare nella gestione di canili, gattili e centri di accoglienza per richiedenti asilo, descritti dalle stesse persone che li hanno attraversati come luoghi di prigionia, controllo e sfruttamento. Nel 2020, a mettere le mani in pasta nel business legato alla casa lavoro è la cooperativa modenese L’Angolo, a cui è affidata la gestione della lavanderia industriale (così come al Sant’Anna). La cooperativa è nota alle cronache perché, anch’essa nel business dell’accoglienza, dava da mangiare ai migranti che vivevano nelle sue strutture cibo avariato e mordicchiato da ratti che, insieme alla muffa, invadevano letti e stanze.
Ma arriviamo al 2021. A ricoprire l’incarico di direttrice del Forte Urbano di Castelfranco Emilia è Maria Martone, la direttrice pro tempore ai tempi della rivolta nel marzo 2020 – e tutt’ora in forze – del carcere Sant’Anna di Modena. Recentemente è stata elogiata dal Sappe per gli sforzi da lei compiuti nel ripristino e ricostruzione del carcere cittadino dopo la rivolta.
Proprio a proposito di quest’ultimo punto, è bene fare un passo indietro, e ricordare quanto recentemente avvenuto. La risposta immediata dello Stato alle rivolte nelle carceri del marzo 2020 fu una strage di 14 morti tra le persone detenute.
Nel dicembre scorso, cinque tra i detenuti che erano stati trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno dopo la rivolta al Sant’Anna, presentarono un esposto alla Procura di Ancona, in quanto testimoni della morte di Sasà Piscitelli nel carcere ascolano. Testimoniarono degli spari, dei pestaggi delle guardie e della mancata assistenza medica prima dei trasferimenti nel carcere Sant’Anna di Modena. Uno di loro è proprio Belmonte.
Pochi giorni dopo, con il pretesto ufficiale di dover essere sentiti dalla Procura di Modena, i cinque furono riportati in quel luogo di strage e tortura. Furono rinchiusi in una stanza liscia, al freddo, con le finestre rotte e privati della possibilità di mettersi in contatto con i propri cari: fu evidente a tutte/i il carattere intimidatorio e di ritorsione che ebbe quel gesto.
Si mobilitarono in molte/i e in breve tempo, la solidarietà fu ampia: dopo qualche giorno furono infine trasferiti altrove, ciascuno verso una diversa destinazione penitenziaria. Dopo diversi giorni, si venne a sapere che Belmonte era stato trasferito a Piacenza, dove a febbraio la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, su richiesta del carcere di Piacenza, gli notificava il provvedimento di censura di tre mesi sulla corrispondenza.
Oggi a pena finita, si trova internato nella casa di lavoro di Castelfranco, la cui direzione è in mano alla stessa persona che dirigeva, all’epoca dei fatti raccontati dall’esposto, il carcere di Sant’Anna. Non dimentichiamo che nell’inchiesta della Procura modenese sulle morti al Sant’Anna, questa stessa direttrice ha affermato che tutti i detenuti, prima dei trasferimenti, avevano ricevuto assistenza medica presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Peccato che durante e dopo questi trasferimenti, altre 4 persone perderanno la vita. E altre 5 la perderanno proprio dentro il suo carcere.
Nonostante le minacce, le ritorsioni, i pestaggi, le violenze fisiche e psicologiche e i decenni passati dentro le galere il 27 aprile, Belmonte faceva sapere tramite lettera di aver “intrapreso uno sciopero della fame perché da diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini e poi festeggiano la liberazione dal fascismo…”.
Ad oggi non è stato ancora possibile ricevere notizie sulle sue condizioni di salute e se ha proseguito lo sciopero.

Qui l’indirizzo per scrivergli:

Belmonte Cavazza
via Forte Urbano, 1
41013 – Castelfranco Emilia (MO)
CONTRO LO STATO E I SUOI LUOGHI DI TORTURA,
AL FIANCO DI BELMONTE E DI CHI ALZA LA TESTA