CONTRO STATO DI TORTURA E MISURE DI SICUREZZA

Pochi giorni fa, Belmonte Cavazza aspettava di varcare la soglia del carcere di Piacenza, andando finalmente incontro alla libertà.
La sua condanna di 19 anni sarebbe dovuta terminare il 19 aprile. Veniva invece trasferito il 23 aprile presso la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (MO).
La ragione? Una misura di sicurezza disposta nei suoi confronti nel 2003.
Le misure di sicurezza, introdotte da Mussolini nel ‘30 e ancora in vigore, si basano, analogamente alla sorveglianza speciale (misura di prevenzione), su un giudizio di pericolosità sociale: ciò che rileva è la personalità dell’individuo, le sue abitudini ed il suo profilo.
Queste misure vengono disposte sulla base di un “pregiudizio” giuridico di possibile reiterazione del reato; sulla condotta comportamentale durante la detenzione; sull’essere stato condannato o prosciolto per parziale o totale infermità di mente. Possono essere comminate dal giudice come misure accessorie, diventano cioè eseguibili una volta che la pena, alla quale si è stati condannati, è terminata.
“Ergastolo bianco”, è così che sono state definite tali misure di sicurezza. “L’ergastolo bianco” è rinnovabile all’infinito, non essendo previsti per legge termini di durata massima. Di fatto un’altra pena di morte viva, forse la più dimenticata visto che è opinione diffusa che le case di lavoro non esistano più.
Deputati all’internamento di chi è in esecuzione di una misura di sicurezza, oltre alle case di lavoro, sono le colonie agricole e le REMS (che hanno sostituito i vecchi OPG) destinate a chi viene prosciolto da un reato per infermità mentale. Dentro questi luoghi si trovano rinchiusi gli ultimi degli ultimi dei circuiti detentivi. Persone che non possono contare sul sostegno di una famiglia o di una rete di relazioni.
Nonostante le informazioni su tali luoghi siano difficilmente reperibili, sembra che ad oggi – a seguito della chiusura di quella presente sull’isola di Favignana – in tutta Italia rimangano 3 case lavoro: a Vasto, a Castelfranco Emilia (in cui è presente anche una sezione a custodia attenuata) e ad Isili (Sardegna), dove c’è una sezione denominata “colonia agricola” .
Durante la seconda guerra mondiale il Forte urbano di Castelfranco Emilia fu un luogo di prigionia (casa lavoro) fascista, scenario nel ‘44 di esecuzioni nei confronti di partigiani, antifascisti, disertori alla leva.
La storia a venire non ha riservato a quel luogo un’infamia minore, considerati alcuni dei soggetti che ci hanno messo le mani in pasta.
Nel 2005, vi nasceva la colonia agricola penale per persone tossicodipendenti, la cui gestione veniva affidata, per volere del ministro Castelli, all’associazione di Andrea Muccioli, della Comunità di San Patrignano. Fu sponsorizzata da Carlo Giovanardi e inaugurata alla presenza di Gianfranco Fini, come un nuovo fiore all’occhiello. Il Forte urbano veniva quindi ad assumere due funzioni, quella di casa lavoro per l’esecuzione delle misure di sicurezza degli internati e quella di casa di reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti. Nel 2017, la gestione interna delle serre per il lavoro agricolo fu affidata a Caleidos, la cooperativa nota per la sua egemonia nel modenese in particolare nella gestione di canili, gattili e centri di accoglienza per richiedenti asilo, descritti dalle stesse persone che li hanno attraversati come luoghi di prigionia, controllo e sfruttamento. Nel 2020, a mettere le mani in pasta nel business legato alla casa lavoro è la cooperativa modenese L’Angolo, a cui è affidata la gestione della lavanderia industriale (così come al Sant’Anna). La cooperativa è nota alle cronache perché, anch’essa nel business dell’accoglienza, dava da mangiare ai migranti che vivevano nelle sue strutture cibo avariato e mordicchiato da ratti che, insieme alla muffa, invadevano letti e stanze.
Ma arriviamo al 2021. A ricoprire l’incarico di direttrice del Forte Urbano di Castelfranco Emilia è Maria Martone, la direttrice pro tempore ai tempi della rivolta nel marzo 2020 – e tutt’ora in forze – del carcere Sant’Anna di Modena. Recentemente è stata elogiata dal Sappe per gli sforzi da lei compiuti nel ripristino e ricostruzione del carcere cittadino dopo la rivolta.
Proprio a proposito di quest’ultimo punto, è bene fare un passo indietro, e ricordare quanto recentemente avvenuto. La risposta immediata dello Stato alle rivolte nelle carceri del marzo 2020 fu una strage di 14 morti tra le persone detenute.
Nel dicembre scorso, cinque tra i detenuti che erano stati trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno dopo la rivolta al Sant’Anna, presentarono un esposto alla Procura di Ancona, in quanto testimoni della morte di Sasà Piscitelli nel carcere ascolano. Testimoniarono degli spari, dei pestaggi delle guardie e della mancata assistenza medica prima dei trasferimenti nel carcere Sant’Anna di Modena. Uno di loro è proprio Belmonte.
Pochi giorni dopo, con il pretesto ufficiale di dover essere sentiti dalla Procura di Modena, i cinque furono riportati in quel luogo di strage e tortura. Furono rinchiusi in una stanza liscia, al freddo, con le finestre rotte e privati della possibilità di mettersi in contatto con i propri cari: fu evidente a tutte/i il carattere intimidatorio e di ritorsione che ebbe quel gesto.
Si mobilitarono in molte/i e in breve tempo, la solidarietà fu ampia: dopo qualche giorno furono infine trasferiti altrove, ciascuno verso una diversa destinazione penitenziaria. Dopo diversi giorni, si venne a sapere che Belmonte era stato trasferito a Piacenza, dove a febbraio la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, su richiesta del carcere di Piacenza, gli notificava il provvedimento di censura di tre mesi sulla corrispondenza.
Oggi a pena finita, si trova internato nella casa di lavoro di Castelfranco, la cui direzione è in mano alla stessa persona che dirigeva, all’epoca dei fatti raccontati dall’esposto, il carcere di Sant’Anna. Non dimentichiamo che nell’inchiesta della Procura modenese sulle morti al Sant’Anna, questa stessa direttrice ha affermato che tutti i detenuti, prima dei trasferimenti, avevano ricevuto assistenza medica presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Peccato che durante e dopo questi trasferimenti, altre 4 persone perderanno la vita. E altre 5 la perderanno proprio dentro il suo carcere.
Nonostante le minacce, le ritorsioni, i pestaggi, le violenze fisiche e psicologiche e i decenni passati dentro le galere il 27 aprile, Belmonte faceva sapere tramite lettera di aver “intrapreso uno sciopero della fame perché da diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini e poi festeggiano la liberazione dal fascismo…”.
Ad oggi non è stato ancora possibile ricevere notizie sulle sue condizioni di salute e se ha proseguito lo sciopero.

Qui l’indirizzo per scrivergli:

Belmonte Cavazza
via Forte Urbano, 1
41013 – Castelfranco Emilia (MO)
CONTRO LO STATO E I SUOI LUOGHI DI TORTURA,
AL FIANCO DI BELMONTE E DI CHI ALZA LA TESTA