Oggi presidio a Rebibbia dopo il pestaggio dei detenuti al g12 e domani presidio a Milano in solidarietà con i processati per la rivolta di marzo nel carcere di Opera

Parenti e solidali al carcere di #Rebibbia dopo i pestaggi e i trasferimenti punitivi di questi giorni.

Gli interventi sono stati trasmessi in diretta su rete evasioni

Iniziano intanto i processi ai detenuti per le rivolte di marzo.

A Milano inizia domani, 18 gennaio, il processo a 22 detenuti accusati di resistenza, lesioni e incendio nel carcere di Milano-Opera.
L’udienza si terrà alle 9,30 in videoconferenza all’aula bunker vicina al carcere di San Vittore.
In contemporanea si terrà un presidio solidale in Piazzale Aquileia.

Da Panetteria occupata:

Lunedì 18 gennaio alle 9.30 – presidio in Pz.le Aquileia
In solidarietà con i processati per la rivolta di marzo nel carcere di Opera
E’ passato quasi un anno dalle proteste e rivolte carcerarie di inizio marzo che hanno visto il coinvolgimento di pressoché tutti gli istituti italiani con migliaia di detenuti mobilitati, moltissimi presenti sui tetti degli edifici penitenziari e tanti familiari, amici e solidali fuori dalle mura.
Una situazione del tutto inconsueta che non si vedeva dai primi anni del 1970 quando nelle carceri di mezza Italia si lottava contro il carcere preventivo, la recidiva e per la “riforma dei codici”.
Le misure speciali adottate dal governo per scongiurare la diffusione del virus all’interno delle carceri si sono dimostrate del tutto insufficienti e inadeguate. Anche gli appelli a provvedimenti di indulto o amnistia provenienti da associazioni, da intellettuali e dalla Magistratura di Sorveglianza sono rimasti del tutto inascoltati nonostante quest’ultima avesse dichiarato l’impossibilità di adempiere ai propri compiti istituzionali a causa del collasso dei propri uffici.
L’unica misura effettivamente presa per ridurre il sovraffollamento carcerario non ha nulla di speciale e consiste nello snellimento della procedura vigente per l’ottenimento degli arresti domiciliari, per chi una casa ce l’ha, e nella concessione di permessi più lunghi per i semiliberi. Una vera e propria beffa vista anche la mancanza dei braccialetti elettronici le cui commesse hanno solo gonfiato le tasche di Telecom, faccendieri e politici.
Così, a marzo, da un giorno all’altro, la popolazione reclusa si è trovata completamente isolata, senza poter vedere i propri familiari, senza poter svolgere alcuna attività e senza alcun contatto al di fuori delle guardie a causa della sospensione dei colloqui, di ogni attività trattamentale e dell’accesso di educatori, avvocati e personale civile.
Le proteste e le rivolte verificatesi nelle carceri nel mese di marzo sono state dunque la necessaria conseguenza di quanto non è stato fatto per preservare la popolazione detenuta dal rischio di contagio e delle ulteriori restrizioni introdotte all’interno delle carceri soprattutto con il divieto di poter svolgere i colloqui “in presenza” con i propri cari.
A queste lo stato ha reagito con estrema durezza e crudeltà, non solo picchiando a sangue durante quelle giornate ma continuando a farlo nei giorni successivi sui corpi inermi e già provati delle centinaia di detenuti trasferiti a chilometri di distanza, in barba ad ogni misura di prevenzione dal rischio di contagio.
Il bilancio di quella mattanza è di 14 detenuti morti e centinaia di feriti ai quali non solo non sono state prestate le dovute cure ma che hanno continuato a subire la rappresaglia dello stato nei giorni successivi. Ciò è documentato dalle ormai tante testimonianze raccolte e pubblicate in questi mesi che raccontano un’altra verità di quella dei morti per abuso di farmaci e della regia mafiosa che è stata raccontata all’indomani di questa ennesima strage di stato.
Ad oggi la situazione nelle carceri è rimasta la stessa di marzo.
Al 30 novembre i reclusi erano poco più di 54 mila a fronte dei 53 mila di metà maggio.
I colloqui sono ancora bloccati e quando si svolgono “in presenza” avvengono a due metri di distanza separati da una lastra di plexigass che costringe tutti ad urlare e nessuno riesce a capire granché; perlopiù si riesce a comunicare attraverso telefonate e videochiamate se non ci sono problemi tecnici, come spesso accade.
La sanità è completamente assente. Lo stato ha messo in evidenza che, in ogni caso, le vite di chi sta in carcere sono meno importanti di quelle di chi sta fuori. I centri clinici creati appositamente per i positivi al virus sono diventati dei lazzaretti; in carcere chi non è positivo è senza distanziamento in cella, tutti sono senza cure né medici.
Gli ulteriori provvedimenti presi dal governo sul tema delle carceri poco o niente hanno a che vedere con le condizioni di vivibilità interna o di prevenzione del rischio di contagio della popolazione reclusa. Per quanto riguarda le scarcerazioni e i permessi premio, sulla spinta dell’allarme per le presunte scarcerazioni facili, le decisioni della Magistratura di Sorveglianza sono state vincolate al parere dell’antimafia, concedendo a chi dispone del potere di condannare anche quello di decidere di come scontare la pena.
E’ stata data maggiore autonomia e potere ai Gruppi Operativi Mobili (GOM) della Polizia Penitenziaria ovvero alle squadraccie di picchiatori professionisti già ampiamente conosciute e sono stati posti al comando del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) due magistrati dell’antimafia affinchè le ragioni di sicurezza e impunità dello Stato prevalgano su tutte le altre.
Il 18 gennaio comincerà il processo a 22 detenuti accusati di resistenza, lesioni e incendio che a marzo si trovavano nel carcere di Milano-Opera. L’udienza si terrà alle 9.30 in videoconferenza all’aula bunker vicina al carcere di San Vittore.
Crediamo sia importante manifestare quel giorno per non lasciare ancor più isolati quei detenuti e i loro familiari, come vorrebbe invece chi li ha portati a processo, e che hanno anzi bisogno di solidarietà e sostegno.
Dietro l’inefficacia e l’inefficienza delle politiche governative di prevenzione dal contagio c’è la natura antiproletaria delle politiche governative di gestione dell’emergenza Covid che rendono sempre più difficili le condizioni di vita, di lavoro e di salute di milioni di persone che si trovano senza più alcuna tutela economica e sanitaria e che vengono pestati, denunciati, processati, incarcerati e anche uccisi se osano opporsi alla dittatura degli interessi capitalistici.
Per contatti: olga2005@autistici.org
***
‘..In questi giorni poi la situazione è molto critica, colpa del virus e dalle decisioni prese dal governo, con molte restrizioni per noi. Siamo stati esclusi da tutto e tutti, in perenne quarantena. Nel regime che mi ritrovo queste restrizioni si sono fatte sentire di meno, perché a parte qualche volontario e i colloqui con i familiari non è che c’era altro. Mentre i piani della Media sicurezza che sono un migliaio nei confronti di una cinquantina di noi hanno subito molto queste restrizioni certo che si sono ribellati, e credo che li fuori l’eco è arrivato di questa ribellione come del resto molti istituti sono in rivolta, però la società libera non sa come queste canaglie dell’ingiustizia reprimono queste ribellioni. Ieri hanno qui massacrato di botte centinaia di detenuti. Li hanno caricati con idranti e manganelli, è stato davvero uno strazio, l’impotenza ti ammazza l’anima. Ieri sera più di invitarli a smettere e a minacciarli noi dell’As1 non potevamo fare altro, relegati qui sotto, sezione distaccata da tutti gli altri..’
(Lettera dalla sezione As1 del carcere di Milano Opera)
‘Ci hanno tolto il cibo, la televisione, il fornello, siamo stati privati delle ciabatte delle mutande e delle magliette, ci sono state negate le telefonate ci è stata staccata la luce. Siamo stati picchiati, abbiamo le ossa rotte e di non abbiamo ricevuto cure.’
(Le parole dei prigionieri nei giorni successivi la rivolta)
“Se gli fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto tenere presente da subito che non si sarebbe trattato di suicidio e nemmeno di assunzione di metadone”.
(Le parole di una familiare di un prigioniero di Opera)
‘….alla fine quella sera lo hanno preso e portato subito al carcere di Modena dove ero stato spostato anch’io, in una cella dove c’erano anche dei miei amici della mia città, sono rimasto lì finché è venuto il corona virus e quando è venuto il corona c’era un uomo malato del virus e non volevano farlo uscire e hanno vietato di farci vedere i famigliari. Dopo ciò è successa una rivoluzione e hanno bruciato il carcere e sono entrati le forze speciali e hanno iniziato a sparare sono morte 12 persone di cui 2 miei amici, sono morti davanti ai miei occhi sono ancora sotto shock. Io ero scappato fino al tetto del carcere così non mi sparassero dopo ci hanno presi tutti e ci hanno messo in una camera e ci hanno tolto tutti i vestiti e hanno iniziato a picchiarci dandoci schiaffi e calci. Dopo ci hanno ridato i vestiti e ci hanno messo in fila e ci hanno picchiato ancora con il manganello in quel momento ho capito che ci stavano per portare un altro carcere…’
(Le parole di un prigioniero del carcere di Modena)

Solidarietà internazionalista ad Aytaç Ünsal, a tutti i prigionieri politici dello stato fascista turco

Lettera dal carcere del compagno Aytaç ÜNSAL, Avvocato del Popolo, già imprigionato, liberato dopo un lunghissimo SCIOPERO della Fame e nuovamente ARRESTATO e
4 gennaio 2021
“Come una specie di pesce, una specie di albero, come la mia specie, una specie di essere umano vive nel nostro paese”. Nazım Hikmet
Ti scrivo di nuovo dietro le mura della prigione. Non mi hanno dato il diritto di essere trattato in un ambiente sano e confortevole. L’amministrazione dell’ospedale dove sono stato curato, è stata minacciata. Sono stato dimesso in anticipo.
Hanno cercato di sfrattarci dalla Sala del Giudice, dove volevo stare con la mia famiglia per due giorni, alle 01:30 di notte.
Hanno allestito un quartier generale sulla strada della casa dove alloggiavo.
Hanno minacciato quelli che sono entrati in casa.
Hanno fatto il giro della mia ultima casa con i veicoli blindati.
Poi hanno fatto irruzione in casa mia. Le mie cose sono state distrutte.
E infine hanno torturato qualcuno con problemi di salute e disturbi davanti alle telecamere. Hanno fatto storie di successo fermandomi e arrestandomi con problemi di salute.
Ognuno fa quello che gli conviene secondo la propria morale, lasciateglielo fare.
La storia registra tutto.
Da un lato, coloro che applicano ogni tipo di tirannia al popolo, che uccidono il popolo con la menzogna, che cercano di soffocare l’Anatolia con l’ingiustizia, che si comportano come se nulla fosse successo quando un avvocato è stato torturato davanti alle telecamere; dall’altro, coloro che possono morire come se cantassero una canzone senza aspettarsi nulla da nessuno per la giustizia, coloro che possono alzare la testa per i diritti del popolo e di tutti noi, e voi, il popolo di questo paese, che siete “come una miniera preziosa”, come diceva il maestro Nazım.
Non pensate a quello che stiamo facendo. Durante questo periodo di tre mesi, mi avete guardato più di quanto si possa fare.
Alcuni di voi hanno condiviso con me i sorrisi del vostro bambino appena nato.
Alcuni di voi sono venuti a trovarmi da lontano. Alcuni di voi mi hanno considerato un figlio, hanno sentito il dolore con me con le lacrime agli occhi.
Alcuni di voi hanno aspettato ore per vedermi sano e salvo.
Alcuni di voi hanno condiviso un divano con me nel monolocale.
Alcuni di voi hanno mandato dei fiori. Nonostante tutti i costi e le minacce, alcuni di voi mi hanno aperto la loro famiglia, la loro privacy, il loro cuore.
Tutti molto preziosi e non ne dimenticherò nessuno.
Sì, come diceva il poeta, siete un albero speciale, come una miniera preziosa, ma non crediate di essere in pericolo.
Così come la nostra Anatolia è ricca di terra e di pietre, lo è anche il suo popolo.
E così come non hanno potuto distruggere questa ricchezza saccheggiando e depredando per anni, non hanno potuto e non potranno sconfiggere questa ricchezza, il nostro popolo. Non disperate. Saremo milioni.
Il nostro problema più grande è che siamo sepolti nel nostro mondo con la vita quotidiana. Andremo anche oltre.
Non saranno mai in grado di sconfiggere il popolo onorevole e dignitoso di questo Paese! Ci renderemo conto che non abbiamo nessuno di cui fidarci se non noi stessi.
Quando ci riuniremo, vedremo quanto siamo forti.
Continuiamo a tenerci stretti l’uno all’altro, ad abbracciare i nostri cuori.
Non abbiate mai paura, aumentate la nostra coscienza, protestate contro l’ingiustizia, gridate.
Non dimentichiamoci, il nostro giorno arriverà. E io sarò di nuovo con voi.
Con il mio fiducioso, fedele saluto dal profondo del mio cuore.
Vi amo tutti.
Vinceremo!
Aytaç Ünsal
[Tradotto da “Tutsak Avukatların Kaleminden” – Da “La penna degli avvocati prigionieri”]

Roma – Rebibbia: al G12 dilagano i contagi, lo stato risponde con manganelli e gas contro i detenuti in protesta

Da Radio onda rossa

Data di trasmissioneRoma – Rebibbia: al G12 dilagano i contagi, lo stato risponde con manganelli e gas contro i detenuti in protesta
Venerdì 15 Gennaio 2021 – 15:37




riceviamo e pubblichiamo

Sono giorni sempre più difficili per chi è in carcere e per noi che abbiamo i nostri cari lì dentro. Non mancano le proteste perché la situazione è al collasso. Anche a Rebibbia il Covid è arrivato come una tempesta e ci sono molti contagi.

Al g12 la situazione è la seguente: i contagi da Covid sono saliti vorticosamente al punto che l’intera sezione è stata posta in isolamento con conseguente divieto di colloqui visivi con i nostri cari fino a data da destinarsi. Numerose sono state le telefonate dai detenuti e le mail che abbiamo ricevuto nelle quali raccontano di uso di manganelli e di gas fumogeni nelle celle per contenere da parte della Celere una protesta più che pacifica e più che giustificata come diversamente è stato detto invece dalla Direzione di Rebibbia,  da parte della sezione, che ha espresso la volontà di capire che cosa stesse succedendo e la richiesta più che giustificata di aumentare le misure di sicurezza che quotidianamente vengono a mancare per ovvi e risaputi motivi di capienza delle celle stesse. I detenuti della sezione sono stati rinchiusi nelle loro celle h 24 in un misto tra soggetti sani e soggetti contagiati. Senza possibilità di essere protetti perché non sanno dove collocarli visto anche il sovraffollamento che caratterizza il carcere di Rebibbia. Ci teniamo a raccontare la verità perché ogni volta le voci dei detenuti non escono, le proteste sembrano sempre senza ragione e il comportamento delle guardie eternamente giustificato. Ci sono persone che oltre al Covid,erano già in gravi condizioni di salute e che sarebbero dovute uscire da mesi per non rischiare ulteriormente la vita con una pandemia che sta uccidendo in tutto il mondo.In tutto questo i magistrati sembrano non tenere conto della pandemia che sta dilagando in carcere con continui rigetti sulle richieste di sfollamento e di differimento delle pene sostenendo che la situazione è sotto controllo e che il covid non c’è.

Il Covid c’è eccome ma non ne parlano!!!!Il Covid è entrato a Rebibbia e sta dilagando e ha già ucciso. Ne vogliamo parlare noi e dare voce ai nostri cari da qui fuori. Dare voce alla paura… la loro e la nostra. Dare voce al DIRITTO ALLA SALUTE che non va negato “a” e “da” nessuno!

Parenti e amici dei detenuti

Di seguito, le informazioni e il link del video di cui abbiamo parlato a inizio trasmissione

FUMO. Storie di rivolta ai tempi del corona

Già dall’inizio di marzo, quando le serrande calarono su tutto il paese e gli ospedali si riempirono di contagiati, è stato evidente come certe categorie di persone fossero sacrificabili sull’altare della patria. Tra loro, i detenuti delle carceri italiane.

In questo VIDEO potete trovare un ritratto impressionistico dei fatti che, a inizio marzo 2020, sconvolsero i penitenziari di tutto il paese. Ma sopratutto le TESTIMONIANZE dirette dei pestaggi e delle ritorsioni che ne sono seguite. Parole che ci ricordano quanto sia fondamentale continuare a lottare per la libertà.

https://www.youtube.com/watch?v=OSGhkQcU70s

Infine, gli indirizzi per scrivere alle cinque persone detenute che hanno presentato un esposto alla Procura di
Ancona, denunciando quanto realmente accaduto a marzo nel carcere di Modena e di Ascoli in seguito alle rivolte, in relazione ai pestaggi, agli spari e a alla morte di Salvatore Piscitelli.

Claudio Cipriani
C.C. Parma, Strada Burla 57, 43122 Parma

Ferruccio Bianco
C.C. Reggio Emilia, Via Luigi Settembrini 8, 42123 Reggio Emilia

Francesco D’angelo
C.C. Ferrara, Via Arginone 327, 44122 Ferrara

Mattia Palloni
C.C. Ancona Montacuto, Via Montecavallo 73, 60100 Ancona

Belmonte Cavazza,

C.C. Piacenza, Strada delle Novate 65, 29122 Piacenza.

Agente penitenziario condannato per tortura a seguito delle violenze su un detenuto avvenute nel carcere di Ferrara.

E’ il primo funzionario pubblico condannato in Italia per questo reato.

Il comunicato dell’associazione Antigone:

carceri“Quella di oggi per i fatti relativi alle violenze avvenute nei confronti di un detenuto nel carcere di Ferrara è la prima condanna di un funzionario pubblico per il delitto di tortura, introdotto nel codice penale italiano nel 2017.

Non si gioisce mai per una condanna e non gioiamo neanche in questo caso, ma affermiamo comunque che la decisione di oggi ha un sapore storico. La tortura è un crimine orrendo, inaccettabile in un Paese democratico. La condanna, seppur in primo grado, mostra come la giustizia italiana sia rispettosa dei più indifesi. Si tratta di una sentenza che segnala come nessuno è superiore davanti alla legge. La legge vale per tutti, cittadini con o senza la divisa. E’ questo un principio delle democrazie contemporanee.

Fortunatamete ora esiste una legge che proibisce la tortura. In passato fatti del genere cadevano nell’oblio. E’ importante che tutti gli agenti di Polizia penitenziaria si sentano protetti da una decisione del genere, che colpisce solo coloro che non rispettano la legge.

Antigone ha a lungo combattuto per avere questa legge, con l’ultima campagna “Chiamiamola tortura” avevamo raccolto oltre 55.000 firme a sostegno di questa richiesta. Ora possiamo dirlo, la tortura in Italia esiste, purtroppo viene praticata, ma ora viene anche punita”.  Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Albenga, morto in cella, un altro detenuto rivela ai pm: “Ho sentito Emanuel che urlava ‘aiuto, basta’”

Una delle foto del corpo di Emanuel Scalabrin depositata nel fascicolo d’indagine della procura di Savona 
Il tragico decesso di Emanuel Scalabrin avvenuto a dicembre nella caserma dei carabinieri. In esclusiva il referto medico di una visita al pronto soccorso durata appena tre minuti. Possibili a breve i primi avvisi di garanzia. L’ipotesi dell’omissione di soccorso

Con la testimonianza di un altro detenuto, il caso della morte del 33 enne Emanuel Scalabrin, avvenuta in circostanze ancora misteriose in una cella della caserma dei carabinieri di Albenga, imbocca, almeno per ora, la strada più scabrosa.
Perché se fino ad oggi le domande e i dubbi sul decesso di Scalabrin ruotavano attorno a una serie di situazioni  che qualcuno poteva anche spingersi a definire una sfortunata concatenazione di eventi,  dopo le due ore di interrogatorio di Paolo Pelusi, l’inchiesta avviata dalla procura di Savona si apre a nuovi scenari. E se il fascicolo d’indagine inizialmente procedeva nei confronti di ignoti, ora potrebbe presto far registrare l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni dei militari che si sono avvicendati nei turni di guardia  nelle ore della detenzione e del decesso di Scalabrin.

“Scalabrin urlava “aiuto”
Pelusi, che ha 57 anni e una vita segnata dallo spaccio e dal consumo di droga, ha raccontato che nel pomeriggio del 4 dicembre, mentre era stato fatto uscire dalla cella e portato in una stanza sotto sorveglianza di due militari, aveva sentito le grida di Scalabrin. «Urlava “aiuto, aiuto, basta”, non ho visto cosa gli succedeva ma lui chiedeva aiuto». Pelusi ha aggiunto di essere stato picchiato dentro la caserma della compagnia da un carabiniere che lo avrebbe colpito anche con un bastone sui fianchi.
Pelusi, che è assistito dall’avvocato Andrea Cechini non ha sporto denuncia ma ora spetterà ai pm savonesi Chiara Venturi ed Elisa Milocco stabilire se nei suoi confronti siano state commesse violenze o abusi da parte dei carabinieri.

La vicenda è evidentemente tanto scottante quanto scivolosa. Pelusi è un testimone “facile” da smontare in un eventuale contenzioso: tossicodipendente, pluripregiudicato, per di più era stato arrestato con Scalabrin nell’ambito della stessa indagine: insomma, inaffidabile.
Ma proprio il suo curriculum di lunga convivenza nel milieu criminale lo rende un soggetto attento alle dinamiche e ai rapporti con le forze dell’ordine. Insomma, Pelusi, a meno che non venga ritenuto incapace di intendere e di volere, è certamente consapevole che una calunnia nei confronti dei carabinieri potrebbe diventare un marchio a vita. Inoltre, a quanto risulta, non avrebbe chiesto contropartite o benefici per le sue dichiarazioni rilasciate al termine dell’interrogatorio cui è stato sottoposto nel carcere di Imperia dalle due pm. Esiste naturalmente una terza opzione:  quella di un equivoco su quanto sentito.

Come è morto Emanuel?
Emanuel Scalabrin viene  arrestato alle 12.55 del 4 dicembre assieme ad altre persone fra le quali la sua compagna Giulia, madre del loro bambino, e appunto Pelusi. Scalabrin viene fermato nella sua abitazione perché trovato in possesso di cocaina e hashish. Nel verbale i carabinieri spiegano che ha opposto resistenza, si è ribellato e che il suo arresto è stato complicato. La sua compagna lo racconta da un’altra visuale: quello di un uomo a lungo bloccato sul letto, ammanettato e immobilizzato al punto di essersi defecato e urinato addosso.
Poi l’ingresso nella caserma dalla quale uscirà cadavere il mattino seguente. Verso le 21 Scalabrin  accusa un malessere e i carabinieri fanno intervenire la guardia medica. La dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta. Consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. I carabinieri seguono le indicazioni della Guardia Medica e accompagnano Scalabrin al pronto soccorso di Pietra Ligure. La permanenza nell’ospedale è uno degli elementi oggetto di approfondimento dell’inchiesta del pm Chiara Venturi. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In soli tre minuti, riferisce il referto,  gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone – che la madre di Scalabrin aveva consegnato ai carabinieri – e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”.

Tre minuti. Il referto dell’ospedale Santa Corona. Scalabrin viene sottoposto a visita nel pronto soccorso e gli viene somministrato il metadone, tutto in soli 3 minuti. 

Pelusi varca la soglia della cella alle 17.30 e pochi minuti dopo i carabinieri entrano per farsi consegnare involucri di droga che si sono accorti aveva nascosto in bocca. Attorno alle 18 a causa di una ferita sulla schiena legata ad un suo recente intervento chiede e ottiene di essere visitato. Una squadra del 118 lo medica una mezz’ora dopo. Nel turno notturno il carabiniere di servizio spiega nel verbale di aver notato come Pelusi fosse in stato di agitazione “dovuto probabilmente all’astinenza dell’assunzione di stupefacenti”. Alle 3 arrivava una dottoressa della guardia medica che somministrava a Pelusi un farmaco contro l’ipertensione. Durante queste fasi il militare riferisce di aver notato come Scalabrin dormisse nella sua cella russando “in maniera molto rumorosa”. L’ultima riscontro di Scalabrin in vita è, a stare al verbale, alle 4 quando viene svegliato con Pelusi per andare in bagno.
Solo alle 10.30 del mattino il carabinieri entrato in servizio si accorge che Scalabrin è morto. Il militare entra nella cella per farlo andare al colloquio con il suo avvocato ma non ottiene risposta. Alle 11.20 il medico certifica il decesso. Sul referto la possibile causa di morte viene indicata in “abuso di sostanze, accertamenti da esperire”.

L’impianto video della caserma non aveva hard disk
I famigliari di Emanuele vogliono capire se Emanuele possa essere morto per eventuali lesioni riportate durante l’arresto o se comunque non abbia ricevuto in cella l’assistenza adeguata. I loro sospetti sono basati su alcuni punti. Il primo è l’assenza dei video della notte. L’impianto di video sorveglianza funzionava ma non registrava, perché non era presente un hard disk, come scopre un perito incaricato dalla procura. Gli inquirenti vogliono capire se fosse una caratteristica dell’impianto e, in caso, se questa sia una una situazione regolare.
La famiglia di Emanuele, che è assistita dagli avvocati Lucrezia Novaro e Giovanni Sanna dello studio di Gabriella Branca (e hanno come consulente il medico legale Marco Salvi) attende nei prossimi giorni i risultati dell’autopsia. La presenza di macchie ipostatiche su alcune parti del corpo non sono di per sé indicative di traumi bensì sono gli indicatori di una compressione del corpo. Servono però a definire il possibile orario ella morte, che è stato stimato nelle tre ore precedenti. I familiari si chiedono come sia stato possibile che una persona che già era stata sottoposta a visita e a un trattamento poche prima, non sia stata sorvegliata con maggiore attenzione e la sua morte sia stata scoperta solo per caso ben tre ore dopo.

Sulla morte di Emanuele ha annunciato la presentazione di un’interrogazione parlamentare  il portavoce nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni mentre la Comunità di San Benedetto è stata la prima a chiedere verità sul caso Scalabrin.

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Palermo, striscione davanti al carcere, dove si è sviluppato un focolaio con 31 detenuti positivi

Srtiscione davanti al carcere Pagliarelli di Palermo.

“Garantire distanziamento e rispetto della vita nelle carceri”. Uno striscione davanti il Pagliarelli firmato Antudo. È di ieri la notizia del focolaio all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo. Sono attualmente 31 i detenuti risultati positivi al Covid-19 e questa mattina davanti la casa circondariale è apparso lo striscione.

“L’esplosione di un focolaio all’interno delle carceri era stato oggetto di dure proteste da parte dei detenuti nei mesi precedenti. “Nonostante fosse prevedibile la diffusione incontrollata del Covid-19 all’interno delle carceri – sostiene Antudo -, non si è fatto il necessario per scongiurare questa eventualità. È soprattutto il sovraffollamento e la scarsa igiene a non consentire misure di prevenzione adottate all’esterno come il distanziamento sociale”. “Anche ai detenuti va garantito il diritto alla vita e alla salute. Per questo e per tanti altri motivi bisogna emettere subito provvedimenti straordinari come l’Amnistia e l’indulto”.

Il tampone ieri ha confermato il sospetto. “Ci sono 31 detenuti positivi – affermava Francesca Vazzana direttrice del carcere Lorusso di Pagliarelli – ma di più non posso dire”. Pare che il focolaio sia partito tra i detenuti comuni che hanno continuato ad avere i colloqui con le famiglie. Nonostante le raccomandazioni e gli inviti a mantenere le distanze, qualcuno si sarebbe avvicinato alla moglie e ai figli e da qui il passaggio del virus che ha contagiato diversi reclusi. in questo momento ci sarebbe una zona rossa all’interno della struttura detentiva nel Reparto Pianeti. Si stanno effettuando i tamponi a tutti i carcerati per cercare di limitare il focolaio.

Proprio in questi giorni il garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti Giovanni Fiandaca aveva scritto al presidente della Regione Nello Musumeci e all’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza per chiedere di inserire i detenuti e gli agenti penitenziari e il personale che lavora negli istituti nella campagna vaccinale.