Rivolta a Rebibbia, 55 detenuti rischiano il processo per aver lottato per la salute propria e quella dei loro cari. A quando il processo per le morti e i pestaggi nelle carceri?

Rivolta a Rebibbia per paura del contagio, 55 detenuti rischiano il processo per fatti del 9 marzo

Terminate le indagini sulla rivolta scoppiata all’interno del carcere romano di Rebibbia. Sono 55 i detenuti che rischiano di finire sotto processo per i disordini scoppiati dopo le misure disposte dal governo per contenere la diffusione della pandemia da coronavirus.

Cinquantacinque detenuti rischiano il processo per i fatti avvenuti all’interno del carcere romano di Rebibbia lo scorso 9 marzo. Le indagini sulla rivolta scoppiata dentro l’istituto penitenziario sono state condotte dai pm Eugenio Albamonte e Francesco Cascini e sono terminate in queste ore. I reati contestati sono quelli di devastazione, saccheggio, incendio, danneggiamento, rapina e sequestro di persona. I responsabili sono stati individuati grazie alle immagini registrate dalle telecamere di sicurezza.

La protesta è scoppiata il 9 marzo: la rabbia è esplosa in seguito al decreto del governo con il quale venivano sospese le visite dei parenti in carcere. I detenuti, inoltre, hanno chiesto misure per tutelare la loro salute, temendo che la pandemia da coronavirus si propagasse anche all’interno degli istituti penitenziari italiani. “Dentro si trovano molti malati. La polizia penitenziaria ha i guanti e le mascherine mentre noi e i nostri cari niente. Dove sta Bonafede? Dove sta il Governo?”, le ragioni dei detenuti.

Da Fanpage

Ferragosto nel CPR di Ponte Galeria

Nell’ultimo mese le proteste all’interno del centro di detenzione sembrano essere numerose, con diversi tentativi di fuga e un incendio avvenuto il 17 luglio. Al momento nel CPR sono reclusi 43 uomini e 9 donne.

4 giorni fa , sei uomini reclusi nel CPR di Ponte Galeria hanno provato a riconquistare la libertà fuggendo dai condotti dell’aria condizionata per raggiungere il tetto e scalare le mura. Solo una persona è riuscita a scappare mentre le altre 5 sono state fermate.

Per evitare altre fughe e incendi, probabilmente le condotte dell’aria sono state chiuse e i materassi sono stati tolti dalle brande. Fatto sta che oggi ci arrivano queste videodenunce da parte dei reclusi, costretti a dormire all’aperto per terra o sui tavoli e le panchine dove normalmente mangiano. Ma diamo la parola alle immagini girate tra venerdì 14 agosto e sabato 15 agosto 2020, nel centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria a Roma

Le videodenunce dei reclusi:

https://youtu.be/FtscZb_s4ic

 

Per un’assemblea nazionale contro carcere e repressione – Appello/proposta del srp L’Aquila

A fronte della crisi economico/pandemica, frutto del modo di produzione capitalista nella fase imperialista, il governo sfrutta le lezioni dell’emergenza per imporre le leggi e gli interessi dei padroni ed affinare le armi della repressione a tutti i livelli.

La Fase 2 per padroni e stato si è svolta all’insegna di leggi e provvedimenti liberticidi. Ai vari decreti e pacchetti sicurezza si sono aggiunte misure emergenziali, sanzioni e controllo sociale sempre più capillare, per impedire le lotte sociali e indebolire i movimenti di opposizione politica anticapitalista, antifascista, antirazzista e antimperialista.

Il cuore della repressione padronale e di Stato è stato l’attacco preventivo al diritto di sciopero in occasione della giornata internazionale delle donne in un quadro in cui, cancellare ogni forma di libertà di espressione, di manifestazione sindacale e politica, è stato gioco facile anche attraverso la militarizzazione di ogni aspetto della vita sociale.

Il diritto alla salute è stato usato dal governo durante il lockdown per garantire la sicurezza dei padroni, perché primario deve essere solo “lavorare per produrre profitto”. Quel profitto al quale sacrificare la sicurezza e la salute delle popolazioni e dei territori; la libertà di chi lotta contro le devastazioni, a quella dei mercati.

Ogni manifestazione di dissenso viene punita, sia attraverso multe comminate a proletari, sia con divieti assurdi, denunce, aggressioni, misure “cautelari”, arresto e carcere per punire la solidarietà proletaria, la solidarietà con le lotte dei migranti, per una vita dignitosa, contro i CPR, con le lotte di detenuti e detenute.

E nelle carceri, dove dal 8 marzo è esploso il conflitto, la repressione di stato ha causato il massacro di almeno 14 persone, torture, pestaggi, riduzione alla fame, umiliazioni, trasferimenti punitivi e ulteriore aggravamento delle già tragiche condizioni sanitarie e di sovraffollamento, che hanno favorito il diffondersi dell’epidemia nel silenzio più totale.

Dal rapporto di Antigone emerge che fino al 7 luglio sono stati 287 i detenuti contagiati da coronavirus, 4 i detenuti morti per Covid19, 34 quelli suicidati dallo stato.

Invece di svuotare le carceri e ridurre i rischi di altri focolai, queste vengono ulteriormente blindate, così come anche l’impunità della polizia penitenziaria, il cui reparto mobile, il famigerato GOM, ha oggi acquisito completa autonomia nella gestione del 41 bis, dove, lo ricordiamo, sono ancora rinchiusi in totale isolamento 3 prigionieri rivoluzionari.

Nei centri di detenzione per migranti, al terrore di essere deportati si aggiunge il trattenimento coatto in condizioni igienico-sanitarie atroci. Il distanziamento sociale usato all’esterno per contenere la pandemia qui non esiste, le persone sono ammassate a decine tutto il giorno in gabbia. Il cibo scadente e le carenze igieniche strutturali causano problemi sanitari di varia natura e l’accesso alle cure mediche è praticamente impossibile, grazie ai vari pacchetti sicurezza. Qui, dove il razzismo istituzionale ha edificato i moderni lager, la gestione delle persone detenute è affidata a privati, consentendo a questi ultimi grandi profitti e infliggendo ai nostri fratelli e sorelle migranti gravissime perdite. Notizie di pestaggi, violenze, angherie, morti e continui atti di autolesionismo, ma anche di rivolte, trapelano spesso da quelle gabbie, ma senza il coraggio dei detenuti che a rischio della propria incolumità riescono a diffonderle all’esterno, non se ne sarebbe mai parlato.

Ma parlare non basta. Da tempo associazioni per i diritti umani e operatori legali denunciano l’inumanità di questi luoghi, ma la linea, anche di questo governo è di crearne di nuovi.

E’ chiaro che denunciare e lottare contro ogni violazione dei diritti umani, contro ogni violenza poliziesca, repressione, sopruso è necessario e basilare, così come è fondamentale smascherare la natura anti-insurrezionale, funzionale al capitale, di tutto l’apparato repressivo e del sistema detentivo.

Ma il vero vaccino alla pandemia di repressione, che attacca a 360° la libertà e dignità di tutte e tutti, lavoratrici e lavoratori, immigrat*, proletar*, detenut*, ribelli, è l’organizzazione solidale e internazionale di tutti i proletari e proletarie in lotta contro la repressione.

Occorre unire le forze e le energie, rafforzare e allargare la rete di informazione e solidarietà esistente, costruire un nuovo strumento unitario, organizzato e di massa, in grado di coordinare, sviluppare e amplificare le lotte per contrastare a 360° l’attacco repressivo dello stato.

A questo scopo proponiamo a tutte e tutti di costruire un’assemblea nazionale contro la repressione con presenza diretta, da preparare con una riunione il 26 settembre – luogo da destinarsi – che ne fissi il percorso di lotta e la data.

Vi chiediamo di esprimervi su questo circa la vostra disponibilità, motivando con pareri, informazioni e altre proposte la vostra risposta a questo appello, scrivendo a sommosprol@gmail.com / srp@inventati.org (3287223675 per messaggistica diretta)

In attesa esprimiamo solidarietà a chi è stato/a colpito/a dalla repressione e ci auguriamo di compiere insieme questo primo passo verso un fronte unito contro la repressione e il sistema carcerario.

19/08/2020

Soccorso rosso proletario – L’Aquila

Sgomberato a Padova il il Bios Lab, presidio di mutualismo e solidarietà

Padova è stato sgomberato lo spazio autogestito Bios Lab che in questi anni  che aveva ridato vitalità ad una palazzina abbandonata dall’Inps.

In primo luogo la nostra solidarietà allo spazio sociale. Nel denunciare l’azione repressiva che colpisce uno spazio di solidarietà, mutualismo e autorganizzazione nella città di Padova, pubblichiamo il comunicato delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario – CLAP Padova, che proprio all’interno degli spazi del Bios Lab aveva la sua sede, e il comunicato del Bios Lab dopo lo sgombero.

Questa mattina all’alba a Padova la Polizia ha sgomberato i locali del BiosLab, di proprietà dell’INPS, devastando in modo criminale le vetrate e gli impianti interni e murando gli accessi agli spazi.
Fin dal 2016, tra le numerose attività, trovavano spazio le Camere del Lavoro Autonomo e Precario, animando il civico 7 di via Brigata Padova e offrendo consulenza e assistenza legale a precari/e e lavoratori/trici in condizioni di forte vulnerabilità e sfruttamento.

Il lavoro di intervento sindacale è sempre stato accompagnato da un impegno orientato alla costruzione di spazi di auto-organizzazione del lavoro sfruttato, così da ritrovare elementi di unità e confronto tra lavoratori/trici capaci di rompere la trappola della ricattabilità del lavoro precario.

La gravità e l’irresponsabilità di questo sgombero è resa ancora più evidente da questa nuova fase di crisi economica e sociale, che sta colpendo in modo sempre più violento quanti e quante vivevano già situazioni di incertezza lavorativa e discontinuità di reddito.  Non ci faremo certo intimidire da questa operazione di polizia e daremo continuità alla nostra iniziativa di auto-organizzazione e tutela dei diritti, costruendo anticorpi che ci proteggano da abusi polizieschi e repressione, per rispondere agli effetti di una crisi economica e sociale senza precedenti.

Comunicato del Bios Lab:

Un risveglio amaro per la città, pregno di rabbia, amarezza e sconcerto.  Questa mattina all’alba il il Bioslab, uno spazio strappato dalle mani dell’INPS, occupato da corpi, idee e progetti e restituito alla città, è stato vigliaccamente sgomberato dalla Questura di Padova.

Non è questo il momento di spendere troppe parole, talvolta i fatti parlano da sé nella loro nuda e cruda violenza, una violenza che ci tocca nell’intimo, che ci sconvolge, che però, come sempre, ci vedrà ripartire senza tregua, perché non è con uno sgombero che si può estirpare la nostra ostinazione alla libertà e all’autodeterminazione.

Denunciamo questa infame decisione della Questura e dell’INPS, colpevoli di aver aggredito il quartiere e la città, di aver riportato abbandono e degrado laddove sorgevano ogni giorno vita e desideri. Ringraziando Coalizione Civica per la tempestiva solidarietà, speriamo che nei prossimi giorni tutte le realtà della città prendano una posizione chiara rispetto all’accaduto e che ribadiscano, se intendono farlo nei fatti concreti, di aderire ancora all’idea di Padova come città libera e solidale e non della violenza, della chiusura e della repressione.

Gli spazi del Bios rappresentano da molti anni una ricchezza per la città, un valore aggiunto culturale e politico, un patrimonio prezioso di esperienze autorganizzate, il “visàvis” lo sportello gratuito di supporto legale per richiedenti asilo è soltanto una delle molte esperienze di supporto e mutualismo attivate recentemente nei nostri spazi.

Questi erano laboratori di idee e contaminazioni, fucine sempre attive di produzione e riproduzione di lotte e rivendicazioni, riferimenti cittadini per molteplici battaglie contro sfruttamento, sessismo e razzismo. Erano snodi di elaborazione di ricerche e studi critici sui processi che hanno toccato e spesso stravolto le nostre città, erano baluardi contro ogni populismo, sovranismo e paternalismo razzista e sessista, luoghi e tempi di una socializzazione libera e ribelle, sguardi critici sul presente e proiezioni desideranti sul futuro da immaginare e costruire.

Abbracciamo e ringraziamo tutte le persone che hanno attraversato il Bioslab, che hanno contribuito alla sua vita politica, artistica e culturale, che lo hanno sostenuto e appoggiato, e lanciamo per settembre un grande appuntamento per ritrovarci, condividere vecchie e nuove idee e ricominciare a cospirare insieme in nuovi spazi e nuovi tempi di ribellione e costruzione di vita “comune”.

da DINAMOPress

In carcere con l’afa e senza acqua e doccia – Ad Augusta protesta dei detenuti

Augusta. Il 16 agosto una quarantina di detenuti del carcere della città in provincia di Siracusa, si è rifiutata di rientrare in cella. L’azione dimostrativa è stata organizzata per la continua mancanza di acqua all’interno della struttura.
Perché manca l’acqua

I detenuti sono costretti a vivere per la maggior parte delle ore in completa assenza di acqua.

L’emergenza idrica non è di certo una sorpresa per la direzione del Carcere. Da più di 20 anni esiste questo problema, ma nessuno sembra muoversi verso la ricerca di una soluzione. La carenza d’acqua è dovuta a una rete idrica comunale già problematica e alla mancanza di manutenzione dell’impianto del carcere. Il risultato è che la disponibilità di acqua è molto limitata – a volte solo 3 ore al giorno.

La storia si ripete

Non sarebbe la prima volta che i detenuti cercano di accendere i riflettori sulle problematiche che sono costretti a vivere all’interno della Casa di Reclusione di Augusta. La loro voce rimane, però, inascoltata. Già nell’agosto di cinque anni fa c’era stata una protesta pacifica e in quell’occasione il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) e la direzione del carcere promisero di trovare delle soluzioni. La direzione della Casa di Reclusione, in particolare, aveva promesso di lavorare in collaborazione con il Provveditorato regionale per la collocazione di serbatoi di riserva più ampi.

Dopo cinque anni il disagio resta lo stesso e la mancanza d’acqua si aggiunge alla già precaria situazione in cui si vive nelle strutture di detenzione: pessime condizioni igienico-sanitarie e sovraffolammento. Realtà disumane che le istituzioni competenti non hanno la minima intenzione di risolvere. Al contrario sono sempre pronte a condannare le rivolte che i detenuti organizzano per migliorare le loro condizioni di vita.

“era troppo debole. Non è riuscito a resistere alle botte…” Ecco come è morto Salvatore Cuono Piscitelli

Da http://www.giustiziami.it

“Salvatore era troppo debole. Non è riuscito a resistere alle botte. Forse ha preso qualcosa. Solo Dio lo sa”.  Due detenuti raccontano le ultime ore di vita di Salvatore “Sasà” Cuono Piscitelli, il quarantenne fragile morto ad Ascoli Piceno dopo le rivolte che a marzo hanno devastato decine di carceri.

E’ la loro verità, affidata a due lettere, in attesa che qualcuno li convochi (le due procure competenti o l’avvocata della nipote di Sasà) e vada a cercare riscontri oggettivi o smentite.  L’uomo era rinchiuso nella casa di reclusione di Modena, messa a ferro e fuoco, saccheggiata, devastata. Con altri 40 carcerati è stato caricato su un autobus diretto nella città marchigiana. Qualche ora dopo è morto. Anche per lui – come per gli altri 12 deceduti – le autorità carcerarie parlano di overdose di metadone e psicofarmaci. Ma le accuse dei due  compagni di galera e di viaggio ora rilanciano pesanti interrogativi.  E’ vero o no che tutti i reclusi dell’istituto modenese sono stati sottoposti a visita medica prima di essere trasferiti in altri penitenziari? Dal carcere e da Roma dicono di sì. Dal fronte dei detenuti arriva invece un no. Per i familiari di Sasà il dubbio è atroce: una diagnosi tempestiva e la somministrazione di un farmaco salvavita avrebbero evitato che lui morisse? E gli altri?

A Modena, l’8 marzo, il carcere viene espugnato da decine di detenuti.  La situazione è faticosamente riportata sotto controllo. Sono ore ad altissima tensione, seguite da fasi concitate. “A me dispiace molto per quello che è successo – dice la lettera  del primo recluso, da depurare da errori di grammatica e ortografia  – . Io non centravo niente. Ho avuto paura…. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni…  A me e a una altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole”. Una controparte dell’istituto semidistrutto  –continua – “quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola. Ha detto che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”. I pestaggi – sempre stando al detenuto, terrorizzato dalla paura di subire ritorsioni, sostiene – sarebbero cominciati dentro e continuati durante il  viaggio verso Ascoli Piceno e una volta giunti a destinazione. Sasà – scrive ancora il testimone – “era troppo debole, forse ha preso qualcosa”. E’ stato “trascinato” fino a una cella e “buttato dentro come un sacco di patate”. L’infermiere di turno “non ti lasciava parlare con nessuno”. E “anche qua – prosegue  – veniva la squadra. Comi aprivi la bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Venivano a picchiare con il passamontagna, per non farsi riconoscere”.

Anche il secondo detenuto-testimone parla della fine di Sasà, in un italiano stentato, ma non per questo meno esplicito. Lui e Salvatore hanno viaggiato da Modena a Ascoli a bordo dello stesso bus. Il compagno “era malisimo” e “anche lo hanno picchiato” sul pullman. All’arrivo “lui non riusciva a camminare… Era nella cella 52, nessuno lo ha aiutato..”

Ma come è stato possibile? Come mai non ci si è accorti per tempo dei reclusi in condizioni fisiche critiche? La direttrice pro tempore del carcere  Modena, Maria Martone, in un’intervista aveva garantito: “Prima di essere trasferiti, tutti i detenuti erano stati visitati presso il presidio sanitario allestito nel piazzale”.

Il rappresentante del governo, il sottosegretario all’istruzione Giuseppe De Cristoforo, aveva dato la stessa rassicurazione replicando all’unica interpellanza urgente presentata per chiedere notizie e verità sui 13 reclusi morti prima e dopo le rivolte (cinque nel penitenziario emiliano, altri tre durante o dopo il trasporto verso altri istituti, uno dalla Dozza di Bologna, tre nel penitenziario di Rieti): “Da quanto emerge dalla relazione del personale sanitario della casa circondariale di Modena – parole sue – i detenuti, prima del trasferimento, sono stati sottoposti a controllo medico da parte del personale sanitario del carcere o dei medici del 118”.

Però pure dalla denuncia del secondo detenuto testimone, rispetto alla verifica delle condizioni fisiche di sfollati e trasportati, emerge un quadro diverso. A una domanda specifica risponde che no, non tutti i carcerati sono stati sottoposti a visita medica prima della partenza per altri istituti, come invece sarebbe stato d’obbligo. Non solo. Neppure tutte le donne detenute  – entrate a contatto con gli uomini del reparto riservato ai lavoratori esterni  – sarebbero state visitate prima del trasloco forzato da Modena. La donna interpellata dal magazine CarteBollate, dettagliata nel raccontare quelle drammatiche ore, non fa il minimo cenno a controlli medici.

Fonti carcerarie intanto smentiscono decisamente pestaggi e abusi. Confermano le visite mediche, “fatte a tutti, magari in modo diverso dal solito e per questo non percepite come tali dai detenuti”. Ricordano la drammaticità della situazione e l’urgenza di provvedere ai trasferimenti da Modena, iniziati “quando ancora non era stato accertato quel che era successo all’interno e in particolare la sottrazione di metadone e psicofarmaci dalla cassaforte”. E chiedono di soppesare e filtrare le denunce dei detenuti: “Coloro che hanno partecipato alle rivolte e ai saccheggi sono finiti sotto inchiesta e potrebbero avere interesse a spostare l’attenzione su altro, per sminuire le proprie responsabilità. I primi trasferiti sono le persone più coinvolte nei disordini. L’istituto era devastato, inagibile. Abbiamo dovuto muoverci in fretta, dopo aver temuto un bilancio ancora più pesante, per la furia e le violenze del gruppo di detenuti più aggressivi e pronti a tutto”.

Un documento ufficiale sembra però smontare queste indicazioni ufficiose, le rassicurazioni della direttrice Martone e anche l’intervento del sottosegretario De Cristofaro. L’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, nell’informativa integrativa girata il 23 marzo alla presidenza della Camera  scrive, a proposito della fasi post rivolta di Modena: “Le singole formazioni (di agenti della polpenitenziaria, ndr) riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e a collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti”. Non si fa alcun cenno a visite mediche o a controlli sanitari. Zero.

Sulle ultime ore di vita di Salvatore c’è qualche precisazione, ufficiosa, sempre da fonti interne.  Sasà e i compagni di viaggio “sono giunti nel carcere di Ascoli nella notte tra l’8 e 9 marzo, alle 2.30, mentre a Modena si accertava il maxi furto di sostanze, non noto all’ora della partenza di lui e del suo gruppo. All’ingresso, visitato dal medico di turno, l’uomo non presentava sintomi da intossicazione da farmaci e oppioidi e non aveva segni di botte né lesioni esterne. Nemmeno gli altri detenuti avevano ferite o tracce di pestaggi. Nessuno è stato picchiato, né nel penitenziario modenese né in quello marchigiano. Alle 13.30 del giorno 9 – sempre stando alle ricostruzioni ufficiose – il personale lo ha portato nell’infermeria del carcere, perché stava male. Alle 15,  peggiorato, è stato trasferito in ospedale. Alle 17.30 purtroppo è stato constatato il decesso”.

Chi mente e chi dice il vero? I numeri potrebbero aiutare a inquadrare gli aspetti sanitari della questione, tutt’altro che secondari. Dopo le devastazioni, dopo il furto di metadone e psicofarmaci, cinque detenuti sono morti all’interno del carcere di Modena. Per alcuni, un gruppo relativamente ristretto, è stato disposto il ricovero in ospedale. Per centinaia di altri (nell’ordine di 400-450,) si è reso necessario il trasferimento in istituti sicuri, non danneggiati.

I medici presenti avevano l’onere e il dovere di visitare tutti gli “sfollati”. Ma quanti dottori sono stati attivati e in quale arco temporale?”. La dottoressa di turno interno l’8 marzo, Maria Manfredonia, era scossa (e a distanza di tempo sceglie di non dire nulla) perché ha vissuto un drammatico pomeriggio. Ha visitato lo stesso? Oltre al responsabile dei servizi sanitari  – Stefano Petrella, come la collega rimasto  per un po’ bloccato all’interno dell’istituto e poi rilasciato  – secondo un lancio d’Ansa il 9 marzo erano operativi due medici del “servizio territoriale del’emergenza” (il 118) e un coordinatore, tre infermieri di supporto alla squadra. Nei tendoni allestiti nel piazzale si alternavano anche addetti della Croce rossa e della Protezione civile, un contingente non meglio precisato.  Quanti detenuti ha  visitato ciascun medico? Quanti minuti ha potuto dedicare a ogni recluso, per accertarsi che stesse bene e fosse nelle condizioni di viaggiare? Chi ha firmato il nulla osta  sanitario per il trasferimento in un altro carcere di Sasà e dei tre compagni che non ce l’hanno fatta? I medici o la direzione hanno provveduto a caricare farmaci salvavita sui mezzi di trasporto usati per le traduzioni? Se no, perché?

Le risposte dovrebbe già conoscerle da mesi l’assessore regionale emiliano alle Politiche per la salute Raffaele Donini, travolto dall’emergenza covid, oberato dalle incombenze legate alla pandemia e su questi morti defilato, zitto. Eppure è lui ad avere la competenza sulla sanità penitenziaria, sulla medicina d’emergenza e sul trattamento delle tossicodipendenze, controlli compresi e con tutte le implicazioni del caso. Interpellato telefonicamente e per email, a inizio luglio, ha ammesso candidamente: “So poco, non molto di più di quello che ho letto sui giornali”. Per dare chiarimenti sui “suoi” detenuti di Modena e Bologna morti a inizio marzo – dieci “eventi critici” degni di approfondimenti e valutazioni, al di là della particolarità della situazione – ha delegato lo staff. Dopo più di quattro settimane, e una serie di solleciti, non è ancora arrivata alcuna informazione.

Dopo quasi 5 mesi dai decessi l’Ausl di Modena manda una (non) risposta, generica, vaga: “L’attività del Servizio di medicina penitenziaria, espletata presso il presidio interno alla casa circondariale Modena “Sant’Anna”, ha come obiettivo la tutela della salute dei detenuti, attraverso l’offerta di assistenza sanitaria H24 e di programmi specifici di prevenzione e cura. I medici del Servizio assicurano dunque l’assistenza primaria ai detenuti, relazionandosi con gli specialisti in caso di necessità, e operando secondo le procedure indicate dai protocolli sanitari, regionali e ministeriali, in particolare per quanto riguarda la gestione delle terapie, lo svolgimento di visite mediche, il rilascio del nulla osta sanitario per ogni uscita o trasferimento dalla casa circondariale, la conservazione in sicurezza del metadone I fatti che sono accaduti al “Sant’Anna” sono gravi, perché è grave quando persone perdono la vita in circostanze che sono ancora da chiarire. E per questo c’è una indagine giudiziaria in corso, che va rispettata in attesa di conoscerne l’esito. Ed è evidente che prima di allora, nessun commento nel merito potrà essere formulato.”. L’Ausl di Bologna non si palesa, nemmeno per dire cose scontate e sganciate dai fatti concreti, come fa l’azienda gemella. (Lorenza Pleuteri)

Saint-Gilles – Belgio, polizia sessista in soccorso dei molestatori aggredisce e insulta tre donne e arresta i giovani che filmavano le scene dell’aggressione

Da secours rouge

Saint-Gilles: La Brigata Uneus in soccorso delle molestie di strada

Nelle ultime ore di questo sabato 15 agosto, tre giovani donne, (Anna, Mandy e Inaa), molestate da un uomo intorno alla terrazza della Brasserie Verschueren, sono state aggredite da agenti della brigata speciale Uneus.

Ignorando praticamente lo stalker, i carabinieri hanno reagito violentemente nei confronti delle tre ragazzine, sostenendo che non indossavano la mascherina. Il commissario ne ha addirittura preso una per la gola e l’ha inchiodata contro il muro. Tutte e tre le donne sono rimaste ferite, e dai video di Facebook si sentono gli agenti della Uneus Brigade chiamarle “isteriche”, mentre minacciano un passante che sta filmando la scena di “dargli il fatto suo”. Alla stazione di polizia, gli insulti sono continuati, con il commissario che accusava le giovani di provocare i molestatori: “con abiti come questi, di che vi stupite?”.

Risultato: infortunio e contusione della spalla per Mandy, polso rotto per Inaa. Altri due giovani che stavano cercando di filmare la scena sono stati aggrediti. Al primo è stato sequestrato e gettato a terra il telefonino, il secondo è stato inseguito fino a casa e poi portato in caserma, dove un poliziotto lo ha torturato, schiacciandogli parti intime, per costringerlo a cancellare il video. Non è stato rilasciato fino al mattino.

A poche settimane dall’ultimo arresto, le tensioni in alcuni quartieri di Saint-Gilles contro le violenze della Brigata Uneus sono molto palpabili.