La strage nelle carceri. Ora ci sono i testimoni…- E’ stata strage! come abbiamo sostenuto dal primo momento .. ora costruiamo in settembre una giornata nazionale di assedio alle carceri – denunciamo in ogni luogo gli sbirri assassini, il ministro della giustizia, il governo che ha coperto tutto questo – soccorso rosso proletario 12 agosto –

E’ la stata la più grande mattanza di detenuti nella storia italiana del dopoguerra. In seguito alla più diffusa e spolicitizzata delle rivolte. Isolata e senza sponde nella “società civile” (figuriamoci in quella politica, ormai popolata solo di mostri uniformati sullo slogan “legge e ordine”) è passata nel dimenticatoio nello spazio di un mattino.

Tredici morti tutte attribuite ad “overdose di farmaci dopo il saccheggio delle infermerie”. E’ la nuova versione dell’antico “caduto dalle scale”

Nel Paese che finge di solidarizzare col movimento Black Lives Matter, finché è limitato agli Stati Uniti di Trump (con altri presidenti non sarebbe e non è accaduto), si chiudono gli occhi e anche gli occhiali sulla realtà di polizie fuori controllo, abituate da decenni a interpretare il proprio ruolo come “potere di vita e di morte sui normali cittadini”, al di fuori di ogni legge.

Ma la prepotenza si associa sempre con la vigliaccheria, e dunque non troverete mai che simili atti di violenza gratuita siano esercitati contro signori ben vestiti alla guida di auto di lusso. Le conseguenze, in quel caso, ci sarebbero. Eccome… E i poliziotti di ogni grado lo sanno benissimo.

La storia carceraria italiana, così come la cronaca quotidiana, è piena di “morti sospette”, spesso determinate da pestaggi gratuiti e violenze commesse nella certezza dell’impunità. Ricordiamo i casi più noti (Stefano Cucchi, Fedeerico Aldrovandi, Giuseppe Uva, ecc) solo grazie alla determinazione delle famiglie, assistite da validi avvocati. Di tutti gli altri si è persa traccia.

Proprio i casi più noti definiscono il format tipico di tutti questi omicidi.

Quasi sempre non ci sono altri testimoni oltre agli agenti di polizia o, quando ci sono, sono “colleghi della vittima”, facilmente rubricati tra gli “inattendibili” o più facilmente ancora tacitabili con minacce e ritorsioni certe.

Sempre – ed è uno degli elementi più osceni – c’è la complicità dei medici penitenziari. L’esempio più famoso e clamoroso è quello della caserma di Bolzaneto, a Genova nel 2001, dove alcuni medici penitenziari partecipavano direttamente ai pestaggi e alle torture.

Sempre c’è un magistrato “disattento”, o apertamente condiscendente, che prende per oro colato i rapporti di servizio degli agenti. Chi crede ancora nel ruolo della magistratura astratta (l’idea di giustizia) farebbe bene a leggersi un po’ di atti processuali relativi a queste morti. Scoprirebbe la magistratura reale.

Questo format ricorre anche nel caso delle rivolte e della mattanza di inizio marzo, ma su scala infinitamente più grande.

L’agenzia di stampa Agi, la seconda dopo l’Ansa, ha ricevuto due lettere di testimoni diretti di almeno un pestaggio conclusosi con la morte di un detenuto in quei giorni. Probabilmente questa “eccezione” rispetto agli altri dodici morti è dovuta al fatto che in questo caso si tratta di un cittadino di cittadinanza, origine, nome e colore della pelle inequivocabilmente “italiani”. Degli altri sappiamo che erano quasi tutti extracomunitari e variamente “colorati”.

Per chi proprio non volesse o potesse credere nella abitudine al pestaggio e alla tortura delle varie polizie italiane (nonostante le centinaia di casi, ultimo – ma già sparito dai media mainstream – il caso dei carabinieri di Piacenza), consigliamo di guardare il video girato in una piazza di Vicenza, ieri.

Lì, un poliziotto qualsiasi, chiamato per controllare ed eventualmente sedare una lite tra due persone, risolto rapidamente “il caso”, non trova di meglio da fare che prendersela con un gruppo di ragazzi che, relativamente vicino alla scena, sta ridendo per fatti propri.

Il poliziotto interpreta quelle risate come rivolte a lui e si scaglia contro uno di quei ragazzi: guarda caso “un negro”… Soggetto socialmente e politicamente debole per definizione, nonostante sia in questo caso in posizione burocratica “regolare”, incensurato, operaio regolarmente assunto presso una ditta locale…

La scena ripresa dalla telecamera è fin troppo esplicita per richiedere una descrizione o un’interpretazione.

E fin qui siamo alla ripetizione in piccolo del solito format, fortunatamente senza tragedia (il ragazzo è stato comunque poi arrestato per “resistenza e violenza a pubblico ufficiale”, dovrà dunque subire un processo e rischiare il posto di lavoro per colpa dell’arbitrio di un poliziotto violento e probabilmente razzista).

Ma il punto che vi dice qualcosa sul “sistema” che utilizza questi poliziotti è fornito – involontariamente, certo, dal questore di Vicenza, Antonino Messineo.

I miei uomini hanno detto a tutti di allontanarsi e di evitare di stare lì intorno, ma questi continuavano a ridere e schernirli. Hanno chiesto i documenti a uno di loro e si è rifiutato di darli, continuando a ridere in faccia ai poliziotti. A quel punto l’operatore l’ha preso per un braccio e poi nel modo in cui si vede nel video. La presa non è durata più di 4 secondi, perché poi sono finiti entrambi a terra. Dopo tutto questo il giovane è scappato ma è stato fermato da un’altra volante e arrestato per violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Il poliziotto, medicato in pronto soccorso, è stato dimesso con una prognosi di 3 giorni”.

Ricapitolando: a) “chiedere i documenti” è nei poteri di un agente di polizia, ma ci deve essere un motivo valido, non è un potere assolutamente discrezionale; b) il ragazzo cui l’intimazione viene rivolta è “di colore”, scelto tra tanti; c) la “presa al collo” non sarebbe un problema, per il questore, perché “è durata quattro secondi” (qual’è il limite “lecito” secondo lui?); d) la suddetta “presa al collo” non è stata però volontariamente sospesa dal poliziotto; insomma, è drata poco solo perché entrambi sono finiti per terra; e) il poliziotto, come di abitudine in questi casi, si è fatto “refertare in pronto soccorso”, dove i “tre giorni di prognosi” per un agente sono il minimo del minimo (significa che non ti sai fatto proprio niente) e gli garantiranno qualche giorno di esenzione dal servizio.

Perché sottolineiamo tutti questi dettagli? Perché nell’insieme costituiscono “il format” della violenza poliziesca e della certezza dell’impunità.

Perché una società davvero “civile” non esiste fin quando non ci si rende conto che quel ragazzo o quei detenuti morti “sono io”. Quella cosa può accadere a me in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo.

E’ il meccanismo che è scattato in buona parte della popolazione degli Stati Uniti guardando il video dell’omicidio di George Floyd. “George sono io, mi può accadere in qualsiasi momento e non è giusto”.

Perché ciò accada deve morire l’idea che “queste cose accadono a chi se le cerca o se le merita”. Puoi avere un buon lavoro e uno stipendio decente, e dunque sentirti parte della “classe media” (è una “classe mobile”, da cui si entra e si esce molto rapidamente, ma fa niente…). Ti senti al sicuro e al di sopra del “mondo di sotto”, e credere che la polizia stia lì per proteggere proprio quelli come te…

Ma è un attimo perdere il lavoro. E’ un attimo ritrovarsi soli nel mondo e con la difficoltà di vivere. E’ un attimo il cercare di non pensarci e bere un bicchiere di troppo. E’ un attimo cercare di stordirsi con una qualche sostanza. E’ un attimo cercare di “arrangiarsi” per sbarcare il lunario, essere “beccato” e finire in galera (anche da innocente, capita spesso…).

E’ un attimo, e George Floyd sei tu.

E quel poliziotto sta lì ad aspettarti.

*****

Manuela D’Alessandro – Agenzia Agi

L’8 e il 9 marzo, mentre gli italiani iniziano la fase più dura della pandemia chiudendosi in casa, una settantina di carceri da nord a sud viene attraversata dalle violente proteste dei detenuti innescate dal divieto di colloquio coi familiari per evitare che il contagio dilaghi tra le mura.

Nella bolgia degli istituti incendiati e devastati perdono la vita 13 persone, nove nel carcere di Modena, di cui quattro durante il trasporto da qui ad altri istituti, uno alla ‘Dozza’ di Bologna e tre nella prigione di Rieti.

La maggior parte di loro sono giovani e tossicodipendenti che stavano scontando condanne per reati legati alla droga, stipati in celle di pochi metri.

Dai primi riscontri emerge che il loro decesso sarebbe dovuto all’ingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. È questa l’ipotesi su cui si concentrano le indagini per ‘omicidio colposo’ e ‘morte in conseguenza di altro reato’ delle procure che hanno disposto gli esami tossicologici i cui primi esiti confermano l’assunzione delle sostanze, letali se prese in grande quantità.

Ma gli avvocati dei morti, che portano avanti le istanze delle famiglie, le associazioni attive nel mondo delle carceri e alcuni testimoni ritengono che non basti l’overdose a spiegare quanto accaduto.

I testimoni, “spogliati e picchiati, il nostro amico morto non è stato curato”

In particolare, due detenuti denunciano di avere subito “abusi” nel carcere di Modena e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite altrove, nonostante stessero male. E’ uno scenario, tutto da verificare e nell’ambito di una vicenda che apre molti altri interrogativi, raccontato in due lettere, di cui l’AGI è in possesso, firmate dai compagni di viaggio di Salvatore ‘Sasà’ Piscitelli, uno dei 13 morti, secondo i primi riscontri, a causa dell’abbuffata di medicinali.

Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze gratuite hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano chiesto in una lettera resa pubblica a giugno di sapere la “verità” sulla sua scomparsa. Preferiscono restare anonime “per timore di ritorsioni”.

E’ domenica 8 marzo quando inizia a ribollire il carcere di Modena coi detenuti che protestano anche per le restrizioni ai colloqui coi familiari. “A me dispiace molto per quello che è successo – è scritto nella prima delle due lettere – Io non c’entravo niente. Ho avuto paura… Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”.

I pestaggi, stando a questa testimonianza, sarebbero proseguiti durante il viaggio verso Ascoli dove “Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa”.

E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce”.

Il secondo detenuto conferma che “Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato”. Sostiene inoltre che nessuno dei compagni di viaggio sia stato visitato dai medici, come sarebbe stato obbligatorio per il ‘nulla osta’ per il trasferimento.

il resto su contropiano

liberare ora il rivoluzionario libanese georges ibrahim abdallah!

 

Bonjour camarade,

nous vous faisons suivre l’initative des camarades du collectif  “amis de Georges du Gers 32” et du Collectif pour la libération de Georges des Hautes-Pyrénées 65 pour que cette fois, le Président Macron soit interpellé au sujet de la lbération de Georges Abdallah. Puisqu’il suffit “qu’il signe” comme l’a dit Macron aux militants Beyrouth, qu’il s’y mette ! Soyons nombreux à lui faire savoir…

Salutations rouges internationalistes et solidaires.

 

Oui, I have a dream Georges Abdallah pourrait faire partie des passagers de l’avion qui transportera Macron vers le Liban le 1 septembre prochain à  condition que chacun de nous fasse un petit geste pour faire pression sur le gouvernement.

Très simple: écrire soi-même et faire écrire ses proches et ses amis une lettre à adresser au Président de la République ( enveloppe dispensée de timbre )

Il suffit d’adresser une copie du même courrier au premier ministre, au ministre de la Justice, au ministre de l’intérieur et une à l’ambassadeur du Liban

Avec 4 timbres et quelques minutes d’écriture, on pourrait arrêter ce calvaire et cette terrible injustice que subit cet homme depuis tant d’années.

S’il n’y a pas une mobilisation importante dans les jours qui viennent ,alors Georges Abdallah ne reverra, hélas, jamais son pays même en ruines.

Voici les adresses postales:

Mr Emmanuel Macron                             Mr Jean Castex                   Mr Gérald Darmanin          Mr Eric Dupond-Moretti

Président de la République                      Premier Ministre                   Ministre de l’intérieur       Ministre de la Justice

Palais de l’Elysée                                         Hôtel Matignon                     Place Beauvau            13 place Vendôme

55 rue Faubourg St Honoré                      57 rue de Varenne                   Paris Cedex 08            75042 Paris Cedex 01

75008 Paris                                               75700 Paris SP 07

Mr Rami Adwan

ambassadeur du Liban

3 villa Copernic

75116 Paris

Soyez sympas de nous tenir au courant de vos envois, ( mails ci-dessous )   on informera    Georges qui se sentira moins seul dans sa cellule de la prison de Lannemezan.

dje.hatt@gmail.com   ( collectif “amis de Georges du Gers 32” )

dlarregola@yahoo.fr  ( Collectif pour la libération de Georges des Hautes-Pyrénées 65 )

Ci-dessous un modèle de lettre au président Macron

A…….le ……………

Nom… Prénom…

Ou Asso, collectif …

…….adresse

Objet : libération Georges Abdallah Mr Emmanuel Macron

Président de la République

Palais de l’Elysée

55 rue faubourg St Honoré

75008 Paris

Monsieur le Président de la République,

Nous nous permettons de vous solliciter pour attirer votre attention sur la situation de de Monsieur Abdallah, ce détenu qui est devenu, le plus vieux prisonnier d’Europe.

Mr Abdallah est toujours maintenu en détention au centre pénitentiaire de Lannemezan (65) alors qu’il a largement purgé sa peine. Il a été emprisonné en 1984, sans preuve matérielle de sa culpabilité. Les faits qui lui sont reprochés ( une complicité ) ne peuvent pas être assimilés à des actes de terrorisme car en 1982, régnait une situation de guerre entre le Liban et Israël ayant entraîné des milliers de victimes parmi les civils libanais.

De surcroît, monsieur Abdallah est libérable depuis 1999 et le Tribunal d’Application des Peines avait prononcé sa libération par une décision en 2013. Depuis 7ans, il attend un arrêté émanant du pouvoir exécutif ordonnant son expulsion vers le Liban, qui est prêt à l’accueillir.

Compte tenu de la situation sanitaire avec l’épidémie du Covid-19 dans notre pays et notamment dans les prisons, nous sommes nombreux à penser qu’il est temps de procéder à la libération de ce détenu modèle qui va avoir 69 ans et qui a purgé, en 36 ans, deux fois sa peine.

De nombreuses personnes ne comprennent pas cette détention aussi longue.

6000 signatures ont été déposées à la préfecture des Hautes Pyrénées par le Collectif 65 pour la libération de Georges Abdallah. Des associations en France ou à l’étranger, des personnalités (telles que Yves Bonnet, ancien patron de la DST, Pierre Stambul coprésident de l’Union Juive Française pour la Paix ou Monseigneur Gaillot), des députés PC, FI et de laRem comme Sampastous pensent qu’il faut mettre fin à cette détention interminable et à cet acharnement qui a trop duré.

En espérant une attention particulière de votre part à ce dossier, veuillez agréer, Monsieur le Président de la République, l’expression de notre haute considération.

Copie :

— au Premier Ministre Mr Castex

— au Ministre de l’intérieur Mr Darmanin

—au Garde des Sceaux Mr Dupond-Moretti

— à l’ambassadeur du Liban Mr Rami Adwan

il ruolo di soccorso rosso proletario è e deve andare oltre la denuncia – altrimenti non ci siamo e dobbiamo cambiare!

denunciare ogni violenza, repressione , sorpruso che avviene ovunque è necessario e basilare.. ma soccorso rosso proletario non può essere solo questo, altrimenti la sua funzione e validità ne è sminuita

soccorso rosso proletario nasce per costruire e organizzare 10 cento mille iniziative contro tutto questo

per fare proposte a tutte le realtà interessate volte a costruire uno strumento unitario e di massa che serva

  1. a mobilitare energie e forze contro questi episodi  che deniunciamo
  2. a contattare coloro che sul territorio si stanno mobilitando e operando
  3. a prendere iniziative anche mediatiche che facciano uscire dal chiuso della denuncia asfittica dei blog i fatti che denunciamo

stiamo proponendo una assemblea nazionale con presenza diretta a questo scopo

da preparare con una riunione il 26 settembre – luogo da destinarsi – che ne fissi il percorso di lotta e la data

a quante realtà e compagni lo abbiamo proposto finora.?. e che aspettiamo a farlo?

per fare questo non basta facebook, ma ci vogliono lettere, contatti diretti, appuntamenti

scambi di proposte

tutto questo come pour parler – ma con informazione pubblica e continua attraverso il blog dei progressi e difficoltà che stiamo provando.

questa è la nostra vera e importante attività!

entro questo mese si devono fare passi avanti e i compagni che lavorano al soccorso rosso proletario devono rispondere collettivamente di questo lavoro!

se facciamo questo ci stà che noi trasformiamo ogni contatto in un allargamento organizzativo di soccorso rosso proletario

12 agosto 2020

 

ancora su Piacenza – un appello

‼️URGENTE: H., il ragazzo testimone dell’orrore di Piacenza e che ha passato 4 mesi in carcere per non collaborare con lo spaccio della caserma, ci racconta di star subendo maltrattamenti in CPR. Dopo essere riuscito ad arrampicarsi su un tetto nei giorni scorsi, è in sciopero della fame da due giorni, dice che forse quando starà morendo di fame lo libereranno. Chiediamo aiuto nella diffusione e nel fare il possibile perché sia liberato.

‼️Intanto pesantissimi atti di autolesionismo da parte di una persona che ci racconta come il CPR faccia impazzire, e poche ore fa un ragazzo è stato trasportato in una coperta, non si sa né verso dove né come stia: chiunque possa faccia qualcosa!

‼️Continuano inoltre ogni sera incendi nel CPR, che, ignifugo, continua a reggere alla disperazione dei reclusi.

Chiunque faccia qualcosa perché il CPR chiuda e i suoi detenuti siano liberati.

Il CPR è un lager!!

Qui la notizia originale: https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2020/08/10/situazione-insostenibile-chiudere-subito-il-lager/

Qui la storia di H.: https://nofrontierefvg.noblogs.org/post/2020/08/08/di-caserme-senza-via-duscita-la-storia-di-h/

Torino: cercavano giustizia ma trovarono la legge – denuncia ora, mobilitazione anche nazionale appena possibile

In diciannove, tra studenti e studentesse dell’Università di Torino sottoposti/e a misure cautelari

Da oltre una settimana 19 studenti e studentesse dell’Università torinese sono sottoposti/e a misure cautelari diverse (domiciliari, divieto di dimora, obbligo di firma quotidiana in commissariato).
A loro carico l’aver contestato, lo scorso 13 febbraio, la presenza all’Università dei fascisti del Fuan (quello di Roberto Rosso, ex assessore regionale di Fratelli d’Italia della Giunta Cirio di recente arrestato con  l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso nell’ambito di una inchiesta sulla ‘drangheta torinese). Giusto quarant’anni dopo la più grande strage del dopoguerra, quella di Bologna dell’agosto 1980, paiono esserci, per la magistratura, “modi e modi” di professarsi antifascisti/e e di praticare l’antifascismo. Una pratica che può trasformarsi invece, a quanto stabilisce la procura torinese, in “ azioni di un medesimo disegno criminoso”, in cui ognuno avrebbe svolto compiti precisi e premeditati con tanto di coordinatori, esecutori e sostenitori. E il monito “ via via fascisti e polizia” diventa una terribile minaccia degna della configurazione legale di violenza privata trasformando, questo sì, qualsiasi istanza politica e sociale in una questione di ordine pubblico.

Il fascismo non è un’opinione, ma un reato. Non è un’idea, ma l’annullamento di tutte le idee.

Per questo semplice motivo un volantinaggio dei fascisti del Fuan (contro l’incontro “ Fascismo, Colonialismo, Foibe – L’uso politico della memoria per la manipolazione delle verità storiche” organizzato, tra gli altri, da diverse sezioni Anpi), appare per quello che è: una provocazione. E per questo tanti studenti e tante studentesse, in quella occasione, hanno voluto ribadire l’opposizione
ferma alla presenza dei fascisti in ogni luogo, la negazione dell’agibilità politica a chi ha, come unico scopo, la propaganda xenofoba, razzista e sessista della peggior specie. In poche parole “fare”, “praticare” antifascismo.
In una lettera aperta uno di loro, Eugenio (ora ai domiciliari a Ivrea), scrive: « Credo che ognuno dei partecipanti a partire dalla propria condizione soggettiva possa rintracciare i motivi che lo hanno spinto ad opporsi alla presenza di quei quattro fascistelli – io ad esempio ho fin da bambino avuto la tessera dell’Anpi e sono cresciuto con i racconti della resistenza dei miei nonni partigiani – ma quello che ci ha accomunato in quei giorni non è stato uno sguardo al passato bensì la volontà di combattere le contraddizioni del presente che vedono noi student* ultima ruota di un meccanismo universitario che riproduce solo precarietà ed ansia, svuotato di qualsiasi tensione verso un’elaborazione critica delle condizioni in cui viviamo e in cui il Fuan non rappresenta altro che un ostacolo alla creazione di un’università realmente adatta ai bisogni di chi la vive.
Con questa idea ci siamo mossi per dimostrare che il Fuan in università non ha alcuna legittimità.
Ricordo come tante persone che passavano casualmente per il campus durante la presenza del Fuan si siano unite al “presidio” antifascista mosse da sana rabbia e indignazione, prendendo a più riprese in giro i coraggiosissimi fascisti in fasce protetti da mezza questura torinese.
Ricordo la presenza dei vertici del campus (Ottoz e Consani) assistere impassibili mentre la polizia faceva il bello e il brutto tempo agendo in Università come fosse un cortile di proprietà della questura, cimentandosi in inseguimenti stile Rambo e arresti arbitrari degli/delle student*.
Un elemento che mi sembra importante ricordare è il totale silenzio del rettore Geuna interrotto solo dopo diverso tempo da una generica condanna della violenza: non una parola sulla presenza del Fuan scortato dalla celere autorizzata ad entrare in università dallo stesso rettore.
Si sono poi sprecate le prese di posizione e di condanna della Lega sia in consiglio regionale sia per bocca del direttore Edisu
[Ente regionale per il Diritto allo Studio Universitario, ndr] Sciretti. Proprio lui, lo stesso che circa un anno fa invocava “un po’ di scuola Diaz”, si è subito prodigato per chiedere la revoca della borsa di studio per gli antifascist*.
È vergognoso che con l’emergenza Covid-19 ancora in atto Sciretti, l’assessora all’istruzione Chiorino e compagnia, anziché preoccuparsi di ampliare i criteri per l’accesso alle borse di studio, così da rendere effettivo il diritto allo studio al tempo dell’emergenza sanitaria, fossero impegnati in estenuanti discussioni per strappare la vittoria tutta politica di revoca della borsa di studio agli student* che nei mesi passati avevano fatto dell’antifascismo non una semplice bandiera da sventolare per opportunismo ma una pratica semplice, concreta e quotidiana. Per quanto mi riguarda sto bene e sono tranquillo. Sono sempre più convinto che ciò che ha dato fastidio di quelle giornate di mobilitazioni (in cui per un momento siamo riusciti a fermare la macchina universitaria, volta solo alla produzione asettica di crediti formativi, per confrontarci su quello che in quel momento ritenevamo importante, secondo i nostri tempi e metodi) sia stata la coerenza con cui tutto è stato fatto. In un periodo in cui a farla da padroni sono i politicanti voltafaccia, le banderuole che durano giusto il tempo di una campagna elettorale, la coerenza espressa in quelle giornate non può essere accettata da istituzioni e procura. 
In questi giorni   capisco realmente cosa significa la frase “non potete fermare il vento gli fate solo perdere tempo”. Unico mio rimpianto infatti è il non poter essere al presidio dei Mulini per portare il mio piccolo contributo alla resistenza No Tav che, tra l’altro, in quanto a coerenza è una delle massime espressioni in questo paese»
Simonetta Valenti