Ci fai una panoramica della situazione nelle carceri all’alba della fase 3?
Il balzo in avanti nell’approfondimento dello “stato di eccezione” maturato con l’emergenza pandemica sta segnando in profondità tutti gli ambiti della vita sociale, non di meno le carceri. Le proteste e le rivolte scoppiate nella seconda settimana di marzo hanno riguardato numerosi istituti del paese; in molti casi i detenuti sono riusciti a salire sui tetti, ad ottenere il controllo di alcune parti della struttura, a trattenere alcune guardie come accaduto a Pavia o riuscendo addirittura ad uscire in massa dall’ingresso principale, come accaduto nel carcere di Foggia. Ci sono stati diversi morti, ad oggi se ne contano 14, in circostanze non chiarite, centinaia di trasferimenti punitivi in pieno “lockdown”, pestaggi sistematici di massa e vessazioni da parte di GOM e squadrette che ancora oggi continuano come dimostrano i recenti fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Una situazione del tutto inedita come non la si vedeva dalle rivolte carcerarie dei primi anni ’70.
Le misure prese dal Governo per sfoltire la popolazione carceraria e favorire così un contenimento del rischio di contagio non hanno avuto invece nulla di eccezionale, in sostanza: è stata snellita la procedura vigente per l’ottenimento degli arresti domiciliari e sono stati concessi dei permessi più lunghi per i semiliberi. Al 15 maggio le detenzioni domiciliari successive al 18 marzo sono state 3.282 a fronte di 52.679 detenuti presenti ed erano 61 mila il 18 marzo. Dunque a distanza di tre mesi la diminuzione del numero complessivo dei detenuti è dovuta soprattutto al fatto che ci sono state meno incarcerazioni, meno processi, meno carcere preventivo disposto dei giudici.
L’11 maggio il DAP ha diffuso una circolare in vista della riapertura dei colloqui in “presenza”. Quello che si denota è la solita impronta disorientante dovuta alle varie sovrapposizioni tra leggi, circolari e regolamenti che in questo caso riguardano l’autorità sanitaria e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stesso. Il risultato e che ogni carcere farà da sé, scegliendo tra le diverse indicazioni quelle più congeniali per mantenere il proprio ordine interno. Tra tutte spiccano i suggerimenti in merito al vetro divisore: “quanto alle modalità di svolgimento dei colloqui, il comma 5 dell’art. 37 in oggetto prevede, come regola generale, che i colloqui avvengano senza ‘mezzi divisori’, tuttavia è anche previsto che per ‘ragioni sanitarie’ i predetti vi possano essere”.
Ad ogni direzione di istituto spetterà la “valutazione sia quanto al numero di colloqui in presenza effettuabili sia quanto al numero di coloro che vi possono essere ammessi, ciò in relazione alle specificità logistiche e strutturali dell’istituto, da esaminare unitamente all’Autorità Sanitaria Locale”. Inoltre, “le direzioni potranno limitare sino ad uno il numero dei colloqui mensili”, anzi è proprio il DAP ad indicare “in modo orientativo” un massimo di due colloqui al mese ed una sola persona presente.
In ogni caso, fino al 30 giugno i colloqui potranno essere “svolti a distanza mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria o mediante corrispondenza telefonica che può essere autorizzata anche oltre i limiti di cui all’art. 39 comma 2 del d.p.r. n. 230 del 2000”.
Per quanto riguarda il pacco, viene suggerito di favorire le spedizioni tramite corriere, ad ogni modo, “ove il congiunto intenda comunque consegnare personalmente il pacco, ciò dovrà avvenire secondo modalità precauzionali individuate d’intesa con l’autorità sanitaria e in modo tale da non rallentare le operazioni di accesso ai colloqui”.
Dunque, in sintesi, l’alba della cosiddetta Fase 3 rappresenta una stabilizzazione delle modalità eccezionali con cui si sono svolti i colloqui in fase emergenziale. Il colloquio “a distanza” diviene la modalità prevalente rispetto a quella definita “in presenza” che si svolge attraverso barriere in plexiglas, ad una distanza e con una confusione tali da renderlo inutile e frustrante come riportato da diversi familiari che l’hanno provato sulla loro pelle.
Sebbene in diverse carceri, durante il “lockdown”, sia stato introdotto l’uso delle chiamate e delle videochiamate, anche incrementandone la frequenza e la durata, si capisce ad oggi come tale modello stia diventando sostitutivo del colloquio vero e proprio e non un’alternativa temporanea o integrativa. Una tendenza questa già emersa ad esempio con l’estensione progressiva, in questi ultimi anni, del “processo a distanza”, in videoconferenza, e che l’emergenza pandemica ha accelerato in diversi ambiti sia dal punto di vista lavorativo che sociale (dai processi alla scuola educazione, smart working).
Ci descriveresti quale è stata secondo voi la dinamica che ha portato all’esplosione delle rivolte all’inizio della pandemia, quali sono stati i presupposti? Quali le conseguenze ad oggi?
Il carcere è una delle istituzioni che rappresenta meglio l’apparato autoritario dello stato. La violenza è questione molto più frequente e palpabile rispetto alla società fuori che si può dire più pacificata. Per questa ragione il mantenimento dell’ordine assume delle dinamiche diverse. Infatti, quel che succede in carcere può essere rappresentato da un pendolo che si muove tra la crisi e l’equilibrio: col passare del tempo accumula piccole crisi che portano prima o poi ad un punto di rottura.
La sospensione dei colloqui è sicuramente il motivo scatenante. Le misure prese per applicare il “distanziamento sociale” in carcere si sono tradotte ben presto, fin dai primissimi giorni di marzo, nella sospensione dei colloqui sia con i familiari che con gli avvocati. Venendo meno anche il rapporto con insegnanti, educatori e volontari si è verificata una situazione di totale esclusione dai contatti con l’esterno, in un clima di forte tensione per il fondato rischio di contagio reciproco all’interno di sezioni sovraffollate e prive di tutto. A ciò va aggiunto l’inasprirsi delle già gravi mancanze nell’accesso a benefici penitenziari, libertà anticipata, cure mediche e sopravvitto dovute al congelamento delle relazioni con l’esterno e all’applicazione all’interno degli istituti di procedure speciali di restringimento della socialità interna.
Le rivolte hanno aperto una fenditura nel velo che nasconde le condizioni dei carcerati all’opinione pubblica. Ad oggi però nessuno parla più della situazione delle carceri. Come mai questo dibattito è completamente scomparso?
Sicuramente quanto accaduto a cavallo fra la prima e la seconda settimana di marzo ha avuto un impatto molto forte. L’estensione e la radicalità delle lotte avvenute all’interno e in parte anche all’esterno delle carceri, così come la repressione che ne è seguita, non potevano di certo essere taciute. Il ripristino dell’ordine interno è avvenuto attraverso trasferimenti, isolamenti, pestaggi e morti, con la garanzia che il tutto potesse svolgersi indisturbato all’interno di sezioni svuotate da tutto il personale civile esterno. All’esterno delle carceri, fra amici, parenti e solidali con le lotte dei detenuti, non si è riusciti ad avere la forza necessaria per rappresentare un elemento di deterrenza nei confronti della rappresaglia poliziesca, anche a causa del divieto di radunarsi e di manifestare.
In quei giorni abbiamo assistito e contribuito a discussioni, confronti e iniziative che ancora continuano benché oggi, in mancanza di momenti di rottura così evidenti come quelli avvenuti, coinvolgano perlopiù chi ha una internità al tema delle carceri.
Non si può dire però che in generale non se ne parli più perché sulla stampa e sui media si trovano ogni giorno notizie e dibattiti sul tema. Tuttavia in assenza di un forte protagonismo delle lotte tutta la questione viene affrontata secondo gli interessi specifici e corporativi dei diversi settori istituzionali coinvolti.
Sui giornali ha tenuto banco per qualche settimana la polemica tra il ministro Bonafede e Di Matteo. Cosa ne pensate?
E’ una questione tutta interna alle istituzioni. In superficie è un’espressione dello scontro fra partiti e fazioni politiche volto a guadagnare consensi attraverso la delegittimazione dell’operato del ministro di turno. Più in profondità rappresenta uno scontro di potere all’interno dell’istituzione stessa che prefigura il consolidamento di una linea di tendenza storica che si presenta come rafforzamento del potere esecutivo a scapito di quello giudiziario e legislativo.
In questo caso, oggetto del contendere sono state una serie di scarcerazioni di detenuti in regime di detenzione speciale, peraltro avvenute sulla base della normativa vigente, su cui è stato sollevato clamore, la cui responsabilità è ricaduta sul capo del DAP, Basentini. La polemica ha riguardato il ministro Bonafede perché responsabile della sua nomina al vertice dell’amministrazione penitenziaria e non invece di tal Di Matteo, anch’egli candidato a ricoprire quel ruolo. Per rendere più efficace l’attacco si è parlato della trattativa Stato-mafia alludendo che tale nomina rispondesse all’obiettivo di assecondare i diktat mafiosi circa l’abolizione del regime 41 bis, insinuando così che il ministro della Giustizia in carica avesse agito in favore di tali interessi. Ciò è bastato non tanto per un riassetto dei vertici del DAP – non di certo alla rimozione di un comprovato forcaiolo come Bonafede – ma per l’introduzione di nuove disposizioni in merito all’ottenimento di permessi e arresti domiciliari.
Il 30 aprile il governo emette un decreto, il n.28, che all’art. 2 dispone che per le fattispecie di reato per cui si viene reclusi nei circuiti di Alta Sicurezza o nel regime del 41 bis, la possibilità di ottenere permessi temporanei di uscita o di scontare la pena agli arresti domiciliari è soggetta al parere, rispettivamente, della procura del tribunale che ha emesso la sentenza o del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Con ciò subordinando il potere decisionale della Magistratura di Sorveglianza alle procure inquirenti e, più in generale, al tribunale speciale antimafia e antiterrorismo, rafforzando così la tendenza a una centralizzazione dell’esercizio del potere penale ben radicata nella storia recente. E’ del 2009, ad esempio, il “pacchetto sicurezza” che ha attribuito al solo Tribunale di Sorveglianza di Roma il potere di decidere in merito alla disapplicazione del regime detentivo speciale del 41 bis.
Per comprendere meglio il quadro generale in cui si innesta la vicenda bisogna ricordare che nel giugno 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia contestando il vincolo che lega l’accesso ai benefici penitenziari per i detenuti per reati elencati nell’art. 4 bis o.p. alla loro “collaborazione”. Decisione che la CEDU ha confermato in ottobre rigettando il ricorso presentato dall’Italia. Così, la Corte Costituzionale ha dovuto stabilire l’incostituzionalità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento “nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata – come spiega il comunicato della Corte -. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”.
In tale contesto si inserisce la vicenda citata, la forte pressione esercitata dalla politica e dai media hanno poi portato al decreto-legge del 30 aprile 2020 di cui poco prima abbiamo parlato.
Lo scandalo Palamara continua a sollevare le dinamiche di spartizione delle poltrone, di gestione privatistica della giustizia e di corruzione dentro la magistratura. Il re è nudo, per quanto i media cerchino di nascondere la polvere sotto il tappeto. Cosa ci dice questo evidente deterioramento del piano istituzionale per quanto riguarda l’amministrazione della “giustizia”?
Una risposta più ragionata la potrebbe forse dare un avvocato… Quello che si può dire, fermo restando quanto detto per la vicenda cui prima si è accennato, che non è certo una dinamica sconosciuta quella delle correnti, delle influenze, delle nomine… insomma della presenza di attività lobbistiche all’interno dell’apparato istituzionale che esprimono gli interessi specifici di determinate cordate politico-economiche e possibili interferenze fra esecutivo e magistratura.