Egitto: prima gli interessi dei padroni, poi forse i diritti umani….

Con il silenzio assenso del governo italiano, l’Egitto rinnova la detenzione per Patrick Zaky per 45 giorni.
Non è un problema di “decisioni inumane”, ma di interessi economici e imperialisti che vengono messi al di sopra di tutto

L’entità del rinnovo, fino ad oggi di 15 giorni, ricorda anche che per lo studente e attivista egiziano è iniziata la seconda fase della carcerazione preventiva senza regolare processo, che in Egitto può avere una durata massima di due anni: quella in cui i rinnovi non sono più di 15 giorni, ma di un mese e mezzo

Non finisce il calvario di Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato il 7 febbraio scorso all’aeroporto del Cairo con l’accusa, tra le altre, di propaganda sovversiva su Facebook. Il tribunale della capitale, riferisce la rete di attivisti in contatto con i suoi legali, ha deciso di rinnovare la carcerazione preventiva per altri 45 giorni. “Avevamo veramente sperato in un esito diverso, ma la notizia che arriva dal Cairo è ulteriormente choccante e inumana“, ha commentato il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury, tra coloro che più di tutti si è speso, insieme all’organizzazione, per chiedere la liberazione del giovane.

L’entità del rinnovo, fino ad oggi di 15 giorni, ricorda anche che per lo studente e attivista egiziano è iniziata la seconda fase della carcerazione preventiva senza regolare processo, che in Egitto può avere una durata massima di due anni: la fase in cui i rinnovi non sono più di 15 giorni, ma di un mese e mezzo. Zaki si trova in carcere ormai da 158 giorni, rinchiuso nella famigerata Sezione II Scorpion della prigione di Tora dedicata agli oppositori del regime di Abdel Fattah al-Sisi.

Quest’ultimo rinnovo era ipotizzabile, visto che in tutte le occasioni precedenti i giudici non hanno mai dato l’impressione di prendere veramente in considerazione la sua liberazione, anche dopo la pandemia di coronavirus, nonostante il ragazzo sia asmatico. Ma l’ultima concessione del governo, che il 4 luglio, aveva fatto recapitare alla famiglia una sua lettera datata 21 giugno in cui rassicurava parenti, amici e sostenitori riguardo alle sue condizioni fisiche, aveva fatto sperare chi da mesi chiede la sua liberazione.

La decisione dei giudici, invece, non è cambiata: “Decisione inumana, arbitraria che consegna Patrick alla prigione di Tora per un tempo lungo nel quale le autorità egiziane immaginano che noi dimenticheremo la sua sorte. Sbagliano, questo è certo”, aggiunge Noury.

Carceri peruviane e prigionia politica. Intervista a Frieda Tarazona militante dell’ “ Asociación de Familiares de Desaparecidos y Víctimas de Genocidio”

Los grupos vinculados a Sendero Luminoso exigieron a la CIDH la libertad de Abimael Guzmán. (Foto: GEC)

Perù: “Ciò equivale a una condanna a morte effettiva

(junge Welt 11 luglio 2020)

Incontro con Frieda Tarazona militante dell’ “ Asociación de Familiares de Desaparecidos y Víctimas de Genocidio

Anche in Perù la Corona Pandemia per le persone in carcere rappresenta un rischio particolarmente elevato. Nelle prigioni, chiaramente, il Virus può estendersi più rapidamente. Qual’è la situazione attuale?

E’ assolutamente allarmante a causa del sovraffollamento e dell’isolamento. Lo stato peruviano è ampiamente distante dall’aver cura e dall’allestire le minime condizioni per combattere la Pandemia. Le persone in carcere vengono abbandonate al loro destino, senza cura medica, senza medicamenti. Ciò equivale a una condanna a morte effettiva, benchè una simile condizione non sia disposta dalla Costituzione peruviana. Le, i prigionier* politic* , nella lunga permanenza in carcere sono stat* e vengono colpit* da tante malattie che rafforzano i rischi per la salute.

Quanti prigionier* politic* ci sono attualmente in Perù?

In totale circa 200, di cui 30 sono in carccere da oltre 28 anni. Sono in prigione dai tempi dei movimenti di guerriglia del Partito Comunista del Perù, (PCP), più precisamente del Movimento Rivoluzionario Tùpac Amaru, MRTA, che sono meno numeros*. Dall’anno 2000 sono stat* imprigionat* sempre di più anche attivist* e sindacalist*.

Fra le-i prigionier* politic* di lunga durata bisogna tener conto anche di Manuel Rubèn Abimael Guzmàn Reinoso, fondatore della PCP-Scissione che ha preso il nome di Sendero Luminoso (SL). Si conoscono le condizioni della sua salute?

Su Guzmàn, che ha 86 anni, oggi non ci sono informazioni. I carcerieri rifiutano ogni informazione. Sua moglie Elena Iparraguirre, anche lei in carcere da 28 anni, a fine maggio si è rivolta al tribunale. Ha chiesto di poter disporre, data la sua età, dell’arresto domiciliare sotto controllo medico. La richiesta è stata respinta ed è ora affidata alla sentenza d’appello.

Abbiamo sicurezze rispetto ai prigionieri Margot Liendo, Osmàn Morote e della prigioniera Silvia Gonzales, colpita dal Coronavirus.

Tutt* hanno la salute molto aggravata. Fino ad ora si contano tre morti, ma sospettiamo che ci sono più trappole. La disposizione di condoni e liberazioni da parte del governo è dichiaratamente esclusa.

Questo è il retroscena dell’ergastolo?

In Perù dal 1980 fino al 1992 è infuriata la ‘Guerra Popular’ condotta dal PCP-SL. Anche dopo la sua fine i governi del Perù hanno proseguito la repressione militare e la persecuzione politica. Le leggi antiterrorismo sono state mantenute. In Perù c’è letteralmente persecuzione politica contro chi mette in dubbio il sistema politico e il governo. Da un punto di vista legale, i processi contro alcun* comunist* sono stati una farsa, che comunque impedisce di lasciare la prigione.

Negli anni novanta il governo non ha diposto un’amnistia, in seguito sono state liberate parecchie migliaia di prigionier* politic*?

L’amnistia non c’è mai stata. Guzmàn Reinoso nel 1993 propose di passare dalla lotta politica con le armi alla lotta politica senza armi, ma non ne è seguito alcun accordo con il governo. Le-I prigionier* politic* nel 2003 hanno ottenuto di affrontare nuovi processi e venir liberat* in migliaia. Una parte di loro è stata condannata ed è ancora in carcere. Invece di lavorare per una soluzione politica del conflitto, il governo ha adottato una politica di vendetta e continua a farlo oggi. Noi facciamo appello all’opinione pubblica internazionale ad impegnarsi in una campagna per la vita e il rilascio de* prigionier* politic* in Perù.

intervista a Olga Milano su carcere e pandemia – pubblichiamo per il dibattito

Soccorso Rosso Proletario ha avviato il 19 giugno una campagna unitaria volta a coinvolgere con il confronto, ma anche con la polemica se necessario tutte le aree che si occupano di carcere e repressione – con centralità della repressione delle lotte proletarie e la liberazione dei prigionieri politici – questa intervista la vediamo utile e ci ritorneremo nei prossimi giorni con un commento

carcere e la pandemia: intervista a OLGa Milano

 

Ci fai una panoramica della situazione nelle carceri all’alba della fase 3?

Il balzo in avanti nell’approfondimento dello “stato di eccezione” maturato con l’emergenza pandemica sta segnando in profondità tutti gli ambiti della vita sociale, non di meno le carceri. Le proteste e le rivolte scoppiate nella seconda settimana di marzo hanno riguardato numerosi istituti del paese; in molti casi i detenuti sono riusciti a salire sui tetti, ad ottenere il controllo di alcune parti della struttura, a trattenere alcune guardie come accaduto a Pavia o riuscendo addirittura ad uscire in massa dall’ingresso principale, come accaduto nel carcere di Foggia. Ci sono stati diversi morti, ad oggi se ne contano 14, in circostanze non chiarite, centinaia di trasferimenti punitivi in pieno “lockdown”, pestaggi sistematici di massa e vessazioni da parte di GOM e squadrette che ancora oggi continuano come dimostrano i recenti fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Una situazione del tutto inedita come non la si vedeva dalle rivolte carcerarie dei primi anni ’70.

Le misure prese dal Governo per sfoltire la popolazione carceraria e favorire così un contenimento del rischio di contagio non hanno avuto invece nulla di eccezionale, in sostanza: è stata snellita la procedura vigente per l’ottenimento degli arresti domiciliari e sono stati concessi dei permessi più lunghi per i semiliberi. Al 15 maggio le detenzioni domiciliari successive al 18 marzo sono state 3.282 a fronte di 52.679 detenuti presenti ed erano 61 mila il 18 marzo. Dunque a distanza di tre mesi la diminuzione del numero complessivo dei detenuti è dovuta soprattutto al fatto che ci sono state meno incarcerazioni, meno processi, meno carcere preventivo disposto dei giudici.

L’11 maggio il DAP ha diffuso una circolare in vista della riapertura dei colloqui in “presenza”. Quello che si denota è la solita impronta disorientante dovuta alle varie sovrapposizioni tra leggi, circolari e regolamenti che in questo caso riguardano l’autorità sanitaria e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stesso. Il risultato e che ogni carcere farà da sé, scegliendo tra le diverse indicazioni quelle più congeniali per mantenere il proprio ordine interno. Tra tutte spiccano i suggerimenti in merito al vetro divisore: “quanto alle modalità di svolgimento dei colloqui, il comma 5 dell’art. 37 in oggetto prevede, come regola generale, che i colloqui avvengano senza ‘mezzi divisori’, tuttavia è anche previsto che per ‘ragioni sanitarie’ i predetti vi possano essere”.

carcere prigione copia

Ad ogni direzione di istituto spetterà la “valutazione sia quanto al numero di colloqui in presenza effettuabili sia quanto al numero di coloro che vi possono essere ammessi, ciò in relazione alle specificità logistiche e strutturali dell’istituto, da esaminare unitamente all’Autorità Sanitaria Locale”. Inoltre, “le direzioni potranno limitare sino ad uno il numero dei colloqui mensili”, anzi è proprio il DAP ad indicare “in modo orientativo” un massimo di due colloqui al mese ed una sola persona presente.

In ogni caso, fino al 30 giugno i colloqui potranno essere “svolti a distanza mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria o mediante corrispondenza telefonica che può essere autorizzata anche oltre i limiti di cui all’art. 39 comma 2 del d.p.r. n. 230 del 2000”.
Per quanto riguarda il pacco, viene suggerito di favorire le spedizioni tramite corriere, ad ogni modo, “ove il congiunto intenda comunque consegnare personalmente il pacco, ciò dovrà avvenire secondo modalità precauzionali individuate d’intesa con l’autorità sanitaria e in modo tale da non rallentare le operazioni di accesso ai colloqui”.
Dunque, in sintesi, l’alba della cosiddetta Fase 3 rappresenta una stabilizzazione delle modalità eccezionali con cui si sono svolti i colloqui in fase emergenziale.  Il colloquio “a distanza” diviene la modalità prevalente rispetto a quella definita “in presenza” che si svolge attraverso barriere in plexiglas, ad una distanza e con una confusione tali da renderlo inutile e frustrante come riportato da diversi familiari che l’hanno provato sulla loro pelle.

Sebbene in diverse carceri, durante il “lockdown”, sia stato introdotto l’uso delle chiamate e delle videochiamate, anche incrementandone la frequenza e la durata, si capisce ad oggi come tale modello stia diventando sostitutivo del colloquio vero e proprio e non un’alternativa temporanea o integrativa. Una tendenza questa già emersa ad esempio con l’estensione progressiva, in questi ultimi anni, del “processo a distanza”, in videoconferenza, e che l’emergenza pandemica ha accelerato in diversi ambiti sia dal punto di vista lavorativo che sociale (dai processi alla scuola educazione, smart working).

Ci descriveresti quale è stata secondo voi la dinamica che ha portato all’esplosione delle rivolte all’inizio della pandemia, quali sono stati i presupposti? Quali le conseguenze ad oggi?

Il carcere è una delle istituzioni che rappresenta meglio l’apparato autoritario dello stato. La violenza è questione molto più frequente e palpabile rispetto alla società fuori che si può dire più pacificata. Per questa ragione il mantenimento dell’ordine assume delle dinamiche diverse. Infatti, quel che succede in carcere può essere rappresentato da un pendolo che si muove tra la crisi e l’equilibrio: col passare del tempo accumula piccole crisi che portano prima o poi ad un punto di rottura.

La sospensione dei colloqui è sicuramente il motivo scatenante. Le misure prese per applicare il “distanziamento sociale” in carcere si sono tradotte ben presto, fin dai primissimi giorni di marzo, nella sospensione dei colloqui sia con i familiari che con gli avvocati. Venendo meno anche il rapporto con insegnanti, educatori e volontari si è verificata una situazione di totale esclusione dai contatti con l’esterno, in un clima di forte tensione per il fondato rischio di contagio reciproco all’interno di sezioni sovraffollate e prive di tutto. A ciò va aggiunto l’inasprirsi delle già gravi mancanze nell’accesso a benefici penitenziari, libertà anticipata, cure mediche e sopravvitto dovute al congelamento delle relazioni con l’esterno e all’applicazione all’interno degli istituti di procedure speciali di restringimento della socialità interna.

Il carcere italiano al tempo del Coronavirus

Le rivolte hanno aperto una fenditura nel velo che nasconde le condizioni dei carcerati all’opinione pubblica. Ad oggi però nessuno parla più della situazione delle carceri. Come mai questo dibattito è completamente scomparso?

Sicuramente quanto accaduto a cavallo fra la prima e la seconda settimana di marzo ha avuto un impatto molto forte. L’estensione e la radicalità delle lotte avvenute all’interno e in parte anche all’esterno delle carceri, così come la repressione che ne è seguita, non potevano di certo essere taciute. Il ripristino dell’ordine interno è avvenuto attraverso trasferimenti, isolamenti, pestaggi e morti, con la garanzia che il tutto potesse svolgersi indisturbato all’interno di sezioni svuotate da tutto il personale civile esterno. All’esterno delle carceri, fra amici, parenti e solidali con le lotte dei detenuti, non si è riusciti ad avere la forza necessaria per rappresentare un elemento di deterrenza nei confronti della rappresaglia poliziesca, anche a causa del divieto di radunarsi e di manifestare.
In quei giorni abbiamo assistito e contribuito a discussioni, confronti e iniziative che ancora  continuano benché oggi, in mancanza di momenti di rottura così evidenti come quelli avvenuti, coinvolgano perlopiù chi ha una internità al tema delle carceri.

Non si può dire però che in generale non se ne parli più perché sulla stampa e sui media si trovano ogni giorno notizie e dibattiti sul tema. Tuttavia in assenza di un forte protagonismo delle lotte tutta la questione viene affrontata secondo gli interessi specifici e corporativi dei diversi settori istituzionali coinvolti.

Sui giornali ha tenuto banco per qualche settimana la polemica tra il ministro Bonafede e Di Matteo. Cosa ne pensate?

E’ una questione tutta interna alle istituzioni. In superficie è un’espressione dello scontro fra partiti e fazioni politiche volto a guadagnare consensi attraverso la delegittimazione dell’operato del ministro di turno. Più in profondità rappresenta uno scontro di potere all’interno dell’istituzione stessa che prefigura il consolidamento di una linea di tendenza storica che si presenta come rafforzamento del potere esecutivo a scapito di quello giudiziario e legislativo.

In questo caso, oggetto del contendere sono state una serie di scarcerazioni di detenuti in regime di detenzione speciale, peraltro avvenute sulla base della normativa vigente, su cui è stato sollevato clamore, la cui responsabilità è ricaduta sul capo del DAP, Basentini. La polemica ha riguardato il ministro Bonafede perché responsabile della sua nomina al vertice dell’amministrazione penitenziaria e non invece di tal Di Matteo, anch’egli candidato a ricoprire quel ruolo. Per rendere più efficace l’attacco si è parlato della trattativa Stato-mafia alludendo che tale nomina rispondesse all’obiettivo di assecondare i diktat mafiosi circa l’abolizione del regime 41 bis, insinuando così che il ministro della Giustizia in carica avesse agito in favore di tali interessi. Ciò è bastato non tanto per un riassetto dei vertici del DAP – non di certo alla rimozione di un comprovato forcaiolo come Bonafede – ma per l’introduzione di nuove disposizioni in merito all’ottenimento di permessi e arresti domiciliari.

Il 30 aprile il governo emette un decreto, il n.28, che all’art. 2 dispone che per le fattispecie di reato per cui si viene reclusi nei circuiti di Alta Sicurezza o nel regime del 41 bis, la possibilità di ottenere permessi temporanei di uscita o di scontare la pena agli arresti domiciliari è soggetta al parere, rispettivamente, della procura del tribunale che ha emesso  la sentenza o del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Con ciò subordinando il potere decisionale della Magistratura di Sorveglianza alle procure inquirenti e, più in generale, al tribunale speciale antimafia e antiterrorismo, rafforzando così la tendenza a una centralizzazione dell’esercizio del potere penale ben radicata nella storia recente. E’ del 2009, ad esempio, il “pacchetto sicurezza” che ha attribuito al solo Tribunale di Sorveglianza di Roma il potere di decidere in merito alla disapplicazione del regime detentivo speciale del 41 bis.

Per comprendere meglio il quadro generale in cui si innesta la vicenda bisogna ricordare che nel giugno 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia contestando il vincolo che lega l’accesso ai benefici penitenziari  per i detenuti per reati elencati nell’art. 4 bis o.p. alla loro “collaborazione”. Decisione che la CEDU ha confermato in ottobre rigettando il ricorso presentato dall’Italia. Così, la Corte Costituzionale ha dovuto stabilire l’incostituzionalità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento “nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata – come spiega il comunicato della Corte -. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”.

In tale contesto si inserisce la vicenda citata, la forte pressione esercitata dalla politica e dai media hanno poi portato al decreto-legge del 30 aprile 2020 di cui poco prima abbiamo parlato.

Lo scandalo Palamara continua a sollevare le dinamiche di spartizione delle poltrone, di gestione privatistica della giustizia e di corruzione dentro la magistratura. Il re è nudo, per quanto i media cerchino di nascondere la polvere sotto il tappeto. Cosa ci dice questo evidente deterioramento del piano istituzionale per quanto riguarda l’amministrazione della “giustizia”?

Una risposta più ragionata la potrebbe forse dare un avvocato… Quello che si può dire, fermo restando quanto detto per la vicenda  cui prima si è accennato, che non è certo una dinamica sconosciuta quella delle correnti, delle influenze, delle nomine… insomma della presenza di attività lobbistiche all’interno dell’apparato istituzionale che esprimono gli interessi specifici di determinate cordate politico-economiche e possibili interferenze fra esecutivo e magistratura.

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liberare Georges Ibrahim Abdallah – una lettera del Comitato

Bonjour camarade,
nombreuses ont été ces derniers mois encore les initiatives de chacun pour exiger la libération de notre camarade Georges Abdallah. Certaines de ces dernières se sont faites de manière parfois coordonnée – durant les mois de confinement et notamment lors de la semaine internationale d’actions. Pour continuer à maintenir cette pression, et si possible frapper tous ensembles, dans ce contexte particulier de ces mois d’été, il nous a paru opportun de nous saisir de la journée de célébration du 14 juillet – symbole même de l’hypocrisie de l’Etat français et des valeurs de sa République – pour agir :
– d’une part en diffusant largement, ce jour-là, sur les réseaux sociaux un hashtag “Libérons nos embastillés ! Libérons Georges Abdallah ! ” 
– d’autre part, en profitant aussi de cette date pour lancer la campagne de mobilisation pour la manifestation à Lannemezan, devant la prison où est détenu notre camarade : nous tous, soutiens à Georges Abdallah, pourrions ainsi faire cette annonce de manière coordonnée et unitaire autour d’un même mot d’ordre pour l’événement : “Georges Abdallah, tes camarades sont là ! Tous à Lannemezan, le 24 octobre 2020 !”
Salutations rouges internationalistes et solidaires

difendere uno spazio sociale con tutti i mezzi necessari è giusto – solidarietà ai compagni di ex-Asilo Occupato -Torino

un processo interessante e pieno di risvolti su cui Soccorso Rosso proletario si occuperà a fondo

Anarchici a processo per guerriglia urbana: il Comune è parte civile

Sotto la lente il corteo del 9 febbraio 2019 in centro a Torino

Non c’è più l’accusa di devastazione — caduta già davanti al gip dei primi 11 arresti — anche se per oltre due ore di quel 9 febbraio 2019 le scene di guerriglia urbana che sconvolsero il centro ci somigliarono molto, tra lancio di pietre, cassonetti incendiati e un bus distrutto; ma restano le imputazioni di resistenza aggravata, lesioni e danneggiamento. Per le quali andranno a processo 23 anarchici (uno ha patteggiato), come ha deciso il gup, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Manuela Pedrotta. Furono tutti coinvolti — secondo le indagini della Digos — nelle azioni violente seguite al corteo di protesta indetto contro lo sgombero dell’ex Asilo occupato. Con alcuni agenti feriti e circa 250.000 euro di danni, per i quali il Comune si è costituto parte civile. Una ricostruzione contestata dai difensori degli imputati, tra cui l’avvocato Claudio Novaro.
È stata un’indagine complessa, che culminò con le misure cautelari del settembre scorso, e che ha visto gli investigatori impegnati nel tentativo di identificare i manifestanti coinvolti in azioni violente. Nonostante lunghe e precise ricostruzioni — anche del momento in cui quelli del centro sociale Askatasuna lasciarono il corteo, senza partecipare ai raid — non sempre la polizia è riuscita a dare un nome ai volti: del resto, oltre che attivisti torinese, al corteo presero parte antagonisti provenienti da Ivrea, Rovereto, Pinerolo, Trento, Milano, oltre che da altri Paesi. Durante la guerriglia urbana, cui non partecipò la maggior parte del corteo, decine di black bloc lanciarono pietre contro le forze dell’ordine, spaccarono auto e distrussero un bus di linea, a pochi passi dalla Mole. Agendo — secondo gli inquirenti — con tecniche militari e consigli contenuti nell’opuscolo intitolato «Piccole dritte per un Corteo. Prima, durante e dopo». Tra i quali, indossare caschi e bruciare i vestiti subito dopo l’azione: per molti, si deduce, è servito.

Carcere di Udine – Astensione dal vitto scadente

Una nuova lettera giunta alla casella postale “Ass. Senza Sbarre” (cp 129 – 34121 Trieste) e firmata da 22 detenuti, i quali desiderano che essa venga divulgata con la ricezione più ampia. Un documento importante principalmente perché testimonia di uno spirito vivo di iniziativa, collettiva e autonoma, di alcuni prigionieri.

Udine, giugno 2020
Alla attenzione dell’Associazione “Senza sbarre”

Noi detenuti del carcere di via Spalato […] dichiariamo che è da mesi che ci lamentiamo per la piccola quantità di cibo che viene distribuita, e anche, altra cosa grave, che alcuni di noi hanno portato in visione all’ispettore di turno cibo crudo, cibo scaduto e maleodorante.
Non solo: alcuni detenuti hanno trovato nel loro piatto di spinaci e gnocchi anche scarafaggi morti. Tutto questo lo lamentiamo da mesi, e anche veniva portato in visione il mangiare scaduto e avariato ad un ispettore di turno, e lui lo segnalava anche, ma continua tutt’ora lo stesso; addirittura persone che hanno avuto problemi alla pancia, chi vomito ed alcuni, più fortunati, si astengono al ritiro del vitto. Ma chi non può purtroppo farlo, deve avere la fortuna di farcela, quanto meno avere culo, che alcune volte [il vitto] arriva in condizioni discrete, ma sempre cibo scaduto e con forti odori, tipo pesce, uova, e sughi con pasta cruda, e sughi non cotti bene.
Purtroppo tanti di noi abbiamo reclamato ed alcuni non ritirano più il vitto, poi troviamo fuori dalle porte della cucina molti scarafaggi, che vengono poi anche trovati negli spinaci e nelle zuppe di verdura.
Poi i continui nidi di scarafaggi, formiche, piccoli topi e addirittura scorpioni, che fuoriescono dai lavabi, bagno, wc, doccia. Siamo invasi da ogni forma di insetti che portano malattia, non c’è igiene nelle celle, sono muri sporchi, bagni con muffa e privi di aerazione, non c’è sanificazione di nessun genere, gente malata che ha problemi igienici sanitari. […]
Seguono 22 firme
[…]
Noi siamo quelli che aderiamo con voi
[…]
Gli amici di via Spalato
[…]
Grazie