Soccorso Rosso Proletario

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Torture nel carcere di Torino: 21 agenti accusati dei pestaggi.

«Detenuti picchiati tra le risate». Indagato anche il direttore: «Sapeva ma nascose tutto»

TORINO. C’è un’inchiesta che scuote il carcere «Lo Russo e Cutugno» di Torino. Che racconta gli orrori che tra marzo 2017 e settembre 2019 si sarebbero consumati nei corridoi, nelle celle e negli spazi comuni dell’istituto. Con 21 agenti della polizia penitenziaria indagati per il reato di tortura. Con un direttore (anche lui indagato) che aveva ricevuto le denunce e avrebbe taciuto, consapevolmente. E – infine – con un comandante del personale che avrebbe addirittura fabbricato dossier falsi per «coprire» le condotte inumane dei suoi sottoposti.

Un’intera scala gerarchica avrebbe cercato di tacitare le precise segnalazioni che Monica Gallo, il garante dei diritti dei detenuti di Torino, aveva fatto dopo aver visitato i carcerati. «Numerose volte» scrive il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta, si era rivolta al direttore Domenico Minervini per chiedere un intervento. Quest’ultimo invece «aiutava gli agenti a eludere le indagini dell’autorità omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza». Che per i magistrati rappresentano «trattamenti inumani e degradanti». Torture. Da ieri ci sono le prime «carte» inviate ai legali degli imputati con l’avviso di chiusura indagini. Gli investigatori hanno ricostruito più di venti episodi di violenze inaudite e inaccettabili.

Garante dei detenuti di Torino: “Al ‘Lo Russo e Cutugno’ vicende che non potevano rimanere essere inascoltate”

Una lista nera: «Picchiavano e ridevano” scrive la procura nel capo di imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni sputi. Come nel caso di Amadou Ibrahim, detenuto, pestato dentro la cella da tre agenti mentre due secondini facevano il palo sull’uscio per accertarsi che nessuno vedesse. A Diego Sivera, altri colleghi «cagionavano acute sofferenze fisiche e un trauma psichico». Lo hanno costretto a rimanere in piedi nel corridoio della sezione a cui era assegnato per 40 lunghissimi minuti. Insultato e costretto a ripetere: «Sono un pezzo di merda». Sono entrati diverse volte nella sua cella «eseguendo perquisizioni arbitrarie, gettandogli i vestiti per terra, strappandogli le mensole dal muro, spruzzando detersivo per piatti sul suo materasso». Poi di nuovo pugni sulla schiena e schiaffi «indossando rigorosamente i guanti» annota il pm.

Altri colleghi dopo aver accompagnato il detenuto Daniele Caruso in infermeria, gli urlavano: «Figlio di puttana, ti devi impiccare». Gli hanno rotto il naso, rischiato di sfondare l’orbita di un occhio, spezzato di netto un incisivo superiore.

E’ capitato che dopo un pestaggio due secondini abbiano avvicinato la vittima minacciandola: «Se ti visiteranno per le lesioni – questo il senso del messaggio – devi dire che ti ha picchiato un altro detenuto». Altrimenti – chiosa la procura – «avrebbero usato nuovamente violenza su di lui di fatto costringendolo, il giorno dopo, a rendere dichiarazioni false ai sanitari».

A Daniele Caruso è andata peggio: «dopo averlo ammanettato e bloccato a terra in attesa che venisse eseguito nei cuoi confronti un Tso, lo colpivano ripetutamente con violenti pugni al costato e, mentre Caruso urlava per il dolore, loro ridevano». Due sindacalisti dell’Osapp sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio. Sono Gerardo Romano e Leo Beneduci. Grazie alle loro «soffiate» il comandante della polizia penitenziaria del carcere Giovanni Battista Alberotanza, aveva saputo di avere il cellulare sotto controllo nell’ambito di un’inchiesta sui pestaggi in carcere.

Lui stesso «Aiutava gli agenti Dario Celentano, Francesco Piscitelli, Luigi Longo, Gianluca Serafino, benedetto Demichelis, Simone Battisti e altri colleghi, ad eludere le investigazioni dell’Autorità, omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni e conducendo un’istruttoria interna dolosamente volta a smentire quanto accaduto».

Dalla Stampa

Criminali in divisa a Piacenza. Ma quali ‘mele marce’, tutto il sistema lo è!

Da il Fatto quotidiano

“Torture, estorsione, spaccio e arresti illegali”. Carabinieri arrestati e caserma sequestrata a Piacenza: “Schiaffoni come in Gomorra”

“Torture, estorsione, spaccio e arresti illegali”. Carabinieri arrestati e caserma sequestrata a Piacenza: “Schiaffoni come in Gomorra”

Le indagini hanno svelato una serie di episodi avvenuti a partire dal 2017 ai danni di spacciatori, immigrati e cittadini innocenti. Tra i militari coinvolti ci sono il maresciallo luogotenente della stazione Levante, ai domiciliari, e un capitano colpito da obbligo di dimora. “Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi nel lockdown, con il più totale disprezzo dei decreti emanati dalla presidenza del consiglio”, ha dichiarato la procuratrice Grazia Pradella

Un uomo a terra scalzo, il sangue che gli cola dal naso e che macchia quello che sembra il pavimento di un cortile. È racchiusa in questa immagine che sembra giungere da lontano, da carceri irachene in piena guerra, l’accusa di tortura contestata a un gruppo di carabinieri a cui la procura di Piacenza contesta una lunghissima serie di reati – dalla ricettazione al falso, dal traffico e spaccio di droga al peculato e poi lesioni, violenza privata, perquisizioni e ispezioni personali, arresto illegali, estorsione. E per la prima volta in Italia una caserma dell’Arma è stata sequestrata e tutti i militari in servizio, eccetto uno, risultano indagati. In totale sono 22 le misure emesse dal giudice per le indagini preliminari di Piacenza, Luca Milani: 12 indagati – tra cui cinque carabinieri – sono finiti in carcere, per cinque persone – tra cui il maresciallo comandante della stazione di Piacenza Levante – il giudice ha disposto gli arresti domiciliari, altri quattro – 3 carabinieri e un finanziere – hanno l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria. Per un altro militare è stato deciso l’obbligo di dimora e un cittadino italiano è stato denunciato. A chiusura dell’ordinanza il giudice che parla di “risposta dello Stato” a quelli che la procura definisce una serie di reati “impressionanti” dedica il lavoro che definisce “atto di giustizia” a chi 28 anni fa, in via D’Amelio a Palermo, perse la vita nell’attentato in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli uomini della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina “servitori dello Stato di tutt’altro spessore rispetto agli odierni indagati” morti “compiendo il loro dovere”.

L’intercettazione: “Ho fatto un’associazione a delinquere” – E basta anche una sola delle intercettazioni degli indagati per capire come fossero lontani da quel modello: “Ho fatto un’associazione a delinquere ragazzi (…) in poche parole abbiamo fatto una piramide (…) noi siamo irraggiungibili. Abbiamo trovato un’altra persona – prosegue l’intercettazione – che sta sotto di noi. Questa persona qua va tutti da questi gli spacciatori e gli dice: ‘Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori!’ e la roba gliela diamo noi!”. La caserma, atto mai disposto prima, è stata sequestrata. L’immobile di via Caccialupo, a pochi passi dal Duomo, è stato “sottoposto a sequestro penale” perché è lì che venivano portate le persone, secondo gli inquirenti, arrestate illegalmente. E dove si sono compiute, per l’accusa, torture, lesioni, estorsioni e spaccio di droga. L’operazione, soprannominata “Odysseus” è stata condotta dalla Guardia di finanza, in collaborazione con la polizia locale, ed è partita nel 2017. L’inchiesta è coordinata dal neo procuratore della Repubblica Grazia Pradella ed è durata sei mesi, durante i quali è stato utilizzato anche il trojan informatico per captare spostamenti e discussioni delle persone coinvolte. Un cittadino sarebbe stato accusato ingiustamente di spaccio di stupefacenti attraverso prove false. Tutto è partito dalla segnalazione di un alto ufficiale dei carabinieri – non in servizio a Piacenza – che ha denunciato i fatti ai magistrati. Una segnalazione arrivata dopo una convocazione da parte degli uomini della polizia locale che lo avevano citato come teste in un caso di maltrattamenti e hanno raccolto le sue dichiarazioni spontanee.

La droga recuperata in divisa – Tra i vari episodi legati allo spaccio che vengono contestati all’appuntato dei carabinieri in servizio alla stazione di Piacenza Levante, ora in carcere, c’è anche il fatto di essere andato insieme a un collega a recuperare un “quantitativo non accertato di marijuana” durante l’orario lavorativo, in divisa e a bordo di un’auto dei carabinieri con i colori d’istituto, lo scorso 4 marzo. La droga era stata portata nella caserma di via Caccialupo e lì consegnata a uno spacciatore della zona affinché la vendesse. I quantitativi di stupefacenti sequestrati venivano infatti presi dai carabinieri e dati in parte agli informatori per ricompensarli delle soffiate e in parte ai pusher con i quali poi dividere i guadagni. In diverse occasioni, inoltre, l’appuntato indagato trasportava la droga anche nella propria auto di proprietà: è capitato, per esempio, a metà marzo che il militare portasse hashish “nell’ordine di alcuni chilogrammi per volta” dal Milanese, dove la droga veniva acquistata da un altro degli indagati, fino a Piacenza, “sfruttando il suo ruolo di appartenente all’Arma che maggiormente garantiva da eventuali controlli”, come scrive il gip Luca Milani nell’ordinanza.

Il racconto dello spacciatore e informatore: “Festini con droga e prostitute”- Uno dei primi testimoni dell’indagine è stato uno spacciatore marocchino che era diventato informatore dei carabinieri. La testimonianza dell’uomo è stata raccolta dalla polizia locale e all’inizio gli stessi investigatori stentavano a credere a quel racconto. “I carabinieri tenevano altri comportamenti sopra le righe, come organizzare festini a base di stupefacente ai quali partecipavano diverse prostitute, tra le quali un transessuale che abitava a Piacenza(…) Uno di loro, poi, in più occasioni aveva sottratto parte del denaro sequestrato agli spacciatori che venivano arrestati nel corso di regolari operazioni di polizia”. Ma non solo esisteva in caserma, una sorta di nascondiglio della droga – chiamata la scatola della terapia – dove i complici potevano prendere la droga.

Il pusher che piange mentre viene picchiato – Nel corso della conferenza stampa è stato mostrato un video di un minuto in cui si sente in modo chiaro un cittadino a piede libero piangere per le percosse subite dai carabinieri. Uno degli arresti illegali risale al 27 marzo 2020: si tratta di un pusher percosso “in modo violento” nonostante avesse ancora “le manette alle mani”. C’è poi il caso di un altro spacciatore a cui viene consegnato un documento con timbro ufficiale per poter “uscire fuori Regione” durante l’emergenza coronavirus e recuperare la droga. “Piacenza stava ancora contando i suoi morti“, ha dichiarato Pradella, “e questo signore firma e controfirma un’autocertificazione per permettere allo spacciatore di muoversi verso la Lombardia”. Tutti gli illeciti più gravi “sono stati commessi nel lockdown”, aggiunge il procuratore, “con il più totale disprezzo dei decreti emanati dalla presidenza del consiglio. Solo un militare della caserma non è coinvolto. Faccio fatica a definire questi soggetti ‘carabinieri’ perché i comportamenti sono criminali. Non c’è nulla di lecito” nelle loro azioni. “Quello che la procura deve chiedersi e che deve chiedersi anche l’Arma è come sia stato possibile che un appuntato dei carabinieri con un atteggiamento in stile Gomorra abbia acquisito tutto questo potere”. In un’intercettazione, infatti, è lui stesso a citare la serie tv: “Guarda che è stato uguale, tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato“. Per quanto riguarda il ruolo del comandante della compagnia, Pradella ha spiegato che a suo carico è stata accertata una “spinta” ad eseguire gli arresti illeciti “costi quel che costi”. Il comandante di stazione, invece, “era presente in caserma quando si sono verificati gli episodi di presunte torture e percosse” e avrebbe “partecipato ai falsi arresti”. Gli indagati sono accusati a vario titolo di peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Nel corso dell’operazione, scattata all’alba, sono stati sequestrati una villa con piscina, degli automezzi e numerosi conti correnti. “Le indagini patrimoniali hanno evidenziato un tenore di vita che mai avrebbe potuto essere appartenente all’Arma dei carabinieri” ha detto la pm Grazia Pradella nel corso della conferenza stampa.

La procuratrice Grazia Pradella: “Hanno disonorato la loro divisa” – “La figura di spicco come spacciatore era sicuramente un appuntato”, ha spiegato la pm. Per quanto riscontrato i comportamenti illeciti esistono a partire dal 2017, ha aggiunto. “Questi appartenenti all’Arma sono appartenenti figurativamente, hanno disonorato la divisa e hanno commesso atti al pari di criminali veri e propri e credo che questo non costituisca un fatto meritato dalla maggioranza dei carabinieri che svolgono con onestà e lealtà il loro lavoro tutti i giorni”. “Totale sostegno all’autorità giudiziaria”, è il commento del comando generale dell’Arma dei arabinieri alla vicenda. “I gravissimi episodi oggetto di indagine – dicono gli inquirenti – sono ulteriormente aggravati dall’incommensurabile discredito che gettano sull’impegno quotidianamente assicurato dai carabinieri al servizio dei cittadini e a tutela della legalità“. Per questo, è stata disposta “l’immediata sospensione dall’impiego” per i militari coinvolti nell’inchiesta e l’arrivo di “rigorosi provvedimenti disciplinari a loro carico”. “Accuse gravissime rispetto a degli episodi inauditi e inqualificabili. Fatti inaccettabili, che rischiano di infangare l’immagine dell’Arma, che invece è composta da 110.000 uomini e donne che ogni giorno lavorano con altissimo senso delle Istituzioni al fianco dei cittadini – afferma il ministro della Difesa Lorenzo Guerini -. Sono loro il volto della legalità, a ciascuno di loro oggi esprimo la più profonda riconoscenza e vicinanza. Da subito sia l’Arma dei Carabinieri che il Ministero della Difesa hanno dato la massima disponibilità a collaborare con la magistratura affinché si faccia completa luce sulla vicenda – aggiunge Guerini – Il Comandante Nistri mi ha confermato di aver immediatamente assunto tutti i provvedimenti possibili e consentiti dalla normativa vigente nei confronti del personale coinvolto“.

Solo uno dei carabinieri in servizio alla stazione di Piacenza Levante non risulta indagat. Ed è proprio il giovane maresciallo assegnato negli ultimi tempi alla caserma, oggi finita sotto sequestro, a sfogarsi con il padre sulle cattive condotte dei colleghi a cui lui non voleva adeguarsi. “Se lo possono permettere perché portano i risultati, portano un sacco di arresti l’anno – sbotta il carabiniere in un’intercettazione riportata nell’ordinanza di custodia cautelare -. Ma perché? Perché c’hanno i ganci”. Parole che, secondo quanto scrive nell’ordinanza il gip Luca Milani, mettono in luce “lo sfondo cupo e inquietante” della vicenda e cioè che “in presenza di risultati in termini di arresti eseguiti, gli ufficiali di grado superiore erano disposti a chiudere un occhio sulle intemperanze e sulle irregolarità compiute dai militari loro sottoposti”.

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Ancora sul lager di Gradisca d’Isonzo

Una nuova morte al CPR di Gradisca d’Isonzo, riaperto a fine dicembre 2019.
Già il 19 gennaio era morto Vakhtang Enukidze, secondo l’autopsia per edema polmonare, a termine di un autentico calvario di trasferimenti tra CPR, ospedale, carcere, CPR, ospedale. Gli esiti degli accertamenti istologici e tossicologici non si conoscono a tutt’oggi, perché il 30 giugno è stata concessa una proroga per i periti.
Il 14 luglio alle 8.30 è stato trovato morto nella propria cella un cittadino albanese di 28 anni, arrivato a Gradisca il giorno 10, proveniente da Bolzano, ove era stato fermato per litigi e trovato con permesso di soggiorno scaduto; era in cella d’isolamento per le misure anti-Covid con altri cinque compagni. Di questi uno, marocchino di 34 anni, è stato trovato anche lui in gravi condizioni e trasferito d’urgenza in ospedale, ove è stato ricoverato in terapia intensiva, dalla quale è stato dimesso con trasferimento alla medicina la sera del 18.
Anche in questa occasione si è assistita alla consueta sfilata di motivazioni: prima l’ipotesi di un omicidio-suicidio, poi di una overdose farmacologica e di sostanze. Solo la mobilitazione immediata da parte delle espressioni di opposizione ai CPR ha consentito di tenere aperta la necessità di indagine. La stessa sera del 14 c’è stato un riuscito presidio fuori dal CPR, che ha consentito di allacciare relazioni con i reclusi.
Il CPR di Gradisca da settimane ormai registrava frequenti episodi di autolesionismo, di scioperi della fame con anche accenni di rivolte e incendio di materassi e materiali vari. Sotto accusa da parte dei migranti lì incarcerati era in particolare la pessima qualità del cibo e la scarsa assistenza medica.
Tale situazione si è aggravata con l’esplodere della emergenza Covid; il protocollo tra Ente gestore (cooperativa Edeco) e la locale Azienda sanitaria prevedeva la presenza programmata di operatori della salute mentale e delle dipendenze, oltreché della prevenzione. La crisi Covid ha interrotto anche l’applicazione di tale protocollo con conseguenti residui colloqui via virtuale.
Il CPR si conferma quale struttura di contenimento anche sanitario, con il consueto corredo di uso diffuso e incontrollato di psicofarmaci; l’approccio clinico, assicurato per sole cinque ore al giorno da medici in presenza transitoria e spesso molto breve con l’ausilio di pochi infermieri a partita IVA, senza mediazioni culturali, è di tipo pre-tecnologico. La diagnosi è fatta con la sola visita senza accertamenti strumentali o di laboratorio, in quanto il compito del medico è di contenere al minimo gli invii ad accertamenti strumentali e/o a visite specialistiche in ospedale, per il rischio di fughe.
Inoltre, a differenza delle carceri, l’azienda sanitaria non ha competenza sulla salute all’interno del centro, per cui i soggetti incarcerati per motivi amministrativi rappresentano una eccezione rispetto al principio costituzionale che prevede l’obbligo dell’assistenza sanitaria pubblica a chiunque, senza distinzioni (proprio per rispettare tale mandato l’onere dell’assistenza sanitaria nelle carceri è stato trasferito ai servizi sanitari regionali).
Il CPR, quindi, anche dal punto di vista della salute rappresenta una anomalia, in grado esclusivamente di produrre malattia e morte. I cittadini migranti lì reclusi non hanno diritto di accesso libero alle cure, ma devono sottostare al controllo esercitato da una struttura sanitaria privata, precaria, intermittente, sostanzialmente rispondente a ragioni di polizia e non a ragioni di salute.
Non sono operativi protocolli che prevedano neppure screening all’ingresso; non esistono percorsi assistenziali mediati da una appropriata mediazione culturale, in grado di intercettare bisogni, paure, necessità di prospettive; si consideri che la maggior parte dei reclusi sono da anni presenti nel territorio italiano; hanno attraversato esperienze lavorative precarie, mal pagate, con esposizioni professionali mal governate. L’esperienza sanitaria di questi anni, confermata da numerosi lavori scientifici, sottolinea come la popolazione migrante dopo alcuni anni di permanenza in Italia assume il profilo epidemiologico della popolazione italiana. Pertanto, è diffusa tra i migranti la presenza di malattie croniche, così come anche di esiti di infortuni sul lavoro.
Tutto ciò richiama la necessità di assicurare a questi soggetti una adeguata assistenza sanitaria, perché come spesso loro stessi dicono «non sono solo braccia, ma esseri umani».

Gianni Cavallini, medico e attivista

al CPR di Gradisca – Gorizia repressione razzista contro i migranti

Scriviamo quest’articolo per spiegare la tragedia che sta dietro all’arresto di un recluso nel CPR di Gradisca, apparso ieri su un quotidiano sotto l’ignobile sottotitolo «Lì dentro delinquenti ex carcerati». Invitiamo a leggere fino in fondo e diffondere. Ci troviamo ormai senza parole per descrivere quanto la realtà dentro i CPR venga storpiata dai media, che, descrivendola attraverso la voce di poliziotti o altre persone di parte, assumono un ruolo essenziale nella costruzione di un immaginario falso attorno al lager e alle persone recluse, legittimando quindi la sua esistenza e concimando il razzismo più becero.

Cos’è successo?

I reclusi ci raccontano che da alcune settimane sono entrate molte persone nel CPR “appena arrivate in Italia” e che non parlano italiano. Da alcuni quotidiani locali leggiamo che si potrebbe trattare di persone in arrivo dalla rotta balcanica, da dentro invece ci dicono che vengono da Lampedusa.

Tra questi c’era R. un ragazzo egiziano, ora in arresto. Molti detenuti ci parlano di lui da giorni, preoccupati per la sua sorte. Finora non siamo riuscite a riportare le loro voci riguardo a questa storia, perché nel frattempo nel CPR è morto Orgest Turia e il suo compagno di cella, H., è stato salvato in extremis. H. ora si trova in ospedale, ma vogliono rinchiuderlo di nuovo dentro il CPR, contro la sua volontà e quella di tutti i familiari, che sono certi che non mangerebbe niente se entrasse, per lo shock e la paura che gli succeda un’altra volta la stessa cosa.

Torniamo a R. Da quello che ci raccontano, R. è uscito dalla zona di quarantena verso l’11 luglio, non parlava italiano, era appena riuscito ad arrivare in Italia ed era molto stressato per due ragioni: gli era stato tolto il cellulare e aveva un forte dolore ai denti ma, a quanto ci dicono, le sue richieste non venivano ascoltate.

Ci dicono che il 15 luglio R. inizia a protestare vivacemente e che per questo gli viene finalmente data attenzione, ci riferiscono che gli viene detto che verrà avvisato il capo e quindi lui aspetta questo colloquio.

Il colloquio però non sembra arrivare. Tra il 16 e il 18 luglio, ci raccontano che nella sua cella scoppiano dei piccoli incendi, in cui lui si brucia un braccio. Ci dicono che viene denunciato per danneggiamento e gli altri detenuti continuano a dire che lui non deve stare lì, che non ha senso perché è appena arrivato in Italia e che ha bisogno del suo cellulare.

Il 19, durante il giorno, la rabbia di R. esplode, ci raccontano che si trova nella cella con gli altri reclusi, mentre gli operatori e i militari si trovano protetti dall’altra parte delle sbarre. Nei video di quei momenti si sente chiaramente qualcuno tra questi ultimi che gli dice “Adesso ti arriva il telefono, va bene? […] se io ti prometto qualcosa la mantengo va bene?”; i reclusi vicini a R. invece cercano di tranquillizzarlo: “Non ti preoccupare, va bene”, sanno che R. è psicologicamente instabile per la situazione in cui si trova. Ripetono che R. sta impazzendo e che ha iniziato anche a dormire fuori, per terra.

Ci raccontano che nelle prime ore del 20 luglio nella stanza di R. scoppia un nuovo incendio. Altri reclusi si svegliano e qualcuno esce dalla cella per il fumo. A quel punto, da quello che ci raccontano, un operatore aziona l’estintore sul volto di M., un altro recluso, che perde i sensi e viene trasportato in Pronto soccorso assieme ad altri. 

Con la rabbia in corpo, perché abbiamo sentito un’altra storia ingiusta, 

…che i muri di quel lager possano crollare!

Brescia: Ennesimo processo contro le lotte sociali. 14 condanne e 7mila euro di sanzione

La casa è un diritto, criminale è chi lo nega non chi lo difende. Massima solidarietà dal Soccorso rosso proletario.

 

Due condanne a 9 mesi e dodici a 5 mesi, più una sanzione di 7mila euro. Tre le assoluzioni.

E’ la sentenza di primo grado pronunciata oggi dal Tribunale di Brescia contro le lotte sociali nel nostro territorio. I 17 attivisti dell’Associazione Diritti per Tutti e del movimento di lotta per la casa bresciano erano accusati di occupazione e interruzione di pubblico servizio per l’iniziativa di massa all’interno del comune di Capriolo, in provincia di Brescia, avvenuta dopo al termine del picchetto antisfratto dell’11 dicembre 2014 a Capriolo, in provincia, quando decine di compagne e compagni impedirono lo sfratto della famiglia di Moncef, allora 57enne, da quarant’anni in Italia, dove ha preso la cittadinanza, con moglie e tre figli minori, di cui uno disabile al 100 per cento e lui stesso invalido al 75% per problemi di cuore e diabete. Dopo il picchetto gli attivisti e gli inquilini resistenti occuparono il municipio del paese per chiedere soluzioni per la famiglia, dal momento che la stessa avrebbe avuto diritto a un alloggio ALER già da un paio di anni.

Stamattina l’udienza nella quale il pm aveva chiesto condanne di 1 anno e 3 mesi per due compagni per interruzione di pubblico servizio, e di 6 mesi per tutti gli altri.

Il collegamento dal Tribunale di Brescia appena giunta la sentenza con le voci degli avvocati dell’Associazione Diritti per tutti, Sergio Pezzucchi e Manlio Vicini insieme alla testimonianza di Moncef. Ascolta o Scarica.