Finalmente una buona notizia: Dana esce dal carcere!

Dopo 7 mesi di detenzione Dana ottiene gli arresti domiciliari.
L’attivista NoTav era stata arrestata a settembre 2020 in seguito a una condanna definitiva a due anni di reclusione per una manifestazione di otto anni fa al casello di Avigliana. La sua unica colpa è quella di aver usato un megafono.
I giudici del Tribunale di sorveglianza avevano respinto tutte le richieste di misure alternative giudicandola “incapace di percepire la funzione rieducativa di espiazione della pena in forma alternativa alla detenzione”.
Gli arresti domiciliari sono una piccola vittoria aspettando la completa libertà di Dana che anche dal carcere non ha mai smesso di lottare per migliorare le condizioni di vita delle detenute all’interno delle case circondariali.
da Globalproject.info

Contro l’ergastolo ostativo

Perché l’ergastolo ostativo non è ammissibile

La insistente campagna a difesa dell’ergastolo ostativo, che sta proseguendo anche dopo l’udienza della Corte costituzionale tenutasi il 23 marzo, in vista della decisione finale, è forse già per questo inopportuna: la discussione c’è stata, e la Corte è ormai riunita per decidere. In ogni modo, a fronte della continua riproposizione di argomenti contrari all’accoglimento della questione, vorrei ricordare solo tre punti essenziali e irrinunciabili.

Primo: si dimentica che non si tratta di giustificare un aggravamento di pena, ma di legittimare una pena (l’ergastolo) di per sé incostituzionale, perché esclude ogni possibilità di darvi fine. Il “diritto alla speranza” nella liberazione non può essere negato a nessuno.

Secondo: non vale dire che la possibilità di porre fine alla detenzione c’è sempre, perché dipende dalla libera scelta del condannato di collaborare attivamente con la giustizia, quando ciò è ancora possibile. In realtà la collaborazione in questo modo non è più una libera scelta, se è il solo modo per ottenere la liberazione. Il reo ha l’obbligo di sottostare alla pena legale stabilita (che non può essere perpetua), e di abbandonare i vincoli di partecipazione e di obbedienza all’associazione criminale, ma non può essere obbligato ad accusare né altri né sé stesso per esercitare i propri diritti.

Terzo: supporre che i vincoli di appartenenza all’associazione criminale siano necessariamente perpetui, e che quindi solo una “rottura” pubblicamente compiuta con la scelta di collaborare con la giustizia possa far guadagnare la liberazione, contraddice la natura e la dignità dell’essere umano.

Vuol dire considerare il condannato un soggetto incapace di esercitare la propria libertà secondo le leggi comuni a tutti, non accusando altri (o sé stesso) di reati, ma recidendo i legami di dipendenza dall’associazione criminale in vista del recupero sociale cui la pena, per Costituzione, deve tendere.

Questi sono principi fondamentali di un diritto penale conforme alla Costituzione: non c’è e non ci può essere eccezione, nemmeno in nome di una pretesa singolarità della società italiana e del suo diritto penale. Se si crede nell’essere umano, nella sua libertà e nella sua dignità, non si può ammettere né la pena di morte, né una pena senza fine come l’ergastolo ostativo.

Valerio Onida

da Corriere della Sera

46 detenuti rinviati a giudizio per la rivolta di marzo 2020 nel carcere di Rebibbia. Intanto il carcere assassino uccide ancora

Per i disordini avvenuti nel carcere di Rebibbia, il 9 marzo del 2020 a seguito delle misure disposte per contenere la diffusione del Covid, 46 detenuti sono stati rinviati a giudizio. Lo ha deciso il gup di Roma fissando il processo al 30 giugno prossimo. Altri quattro imputati hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato.

Intanto a Uta un altro detenuto è stato suicidato dallo stato. Il corpo, come riporta oggi l’Unione Sarda, è stato scoperto dai compagni di cella. L’uomo si è tagliato la gola durante un momento di solitudine, troppo forte evidentemente la depressione in un momento come questo, in piena emergenza Covid, dove le carceri stanno diventando sempre più pericolose. L’uomo era stato condannato per una serie di furti, in una vicenda che non sembrava ancora chiusa. Sulla vicenda è stata comunque aperta una inchiesta.

No Tav – A San Didero la polizia spara lacrimogeni ad altezza d’uomo, ma la Valle resiste. Avanti No Tav! Dana libera, liber* tutt*

Alla vigilia del 14 aprile, quando il Tribunale di Sorveglianza di Torino deciderà sulle sorti di Dana, questa notte a San Didero sono arrivati più di 1000 agenti delle forze dell’ordine per occupare la zona interessata ai lavori per la costruzione del nuovo autoporto.

Le truppe d’occupazione, con la loro solita “discrezione”, si sono fatti largo tra i tanti manifestanti accorsi in difesa del territorio, lanciando lacrimogeni ad altezza uomo e, nonostante alcuni feriti tra i No Tav, i resistenti si sono poi recati verso il Presidio ex- Autoporto per trovare riparo e ricompattarsi nella lotta.

Senza nessuna vergogna, con l’Italia che urla alle terapie intensive e un Governo che non si preoccupa della salute e della tutela dei suoi cittadini, ormai anche in grave crisi economica e sociale, lo Stato sostiene Telt nell’avanzamento di quest’opera scellerata ed ecocida.

Una manciata di operai, difesi dalle forze di Polizia in tenuta antisommossa, infatti, sono lentamente avanzati nei lavori di distruzione di un nuovo pezzo del territorio Valsusino.

A seguito di una partecipata assemblea indetta per le 18, un corteo di oltre 500 No Tav è partito dal piazzale del Polivalente di San Didero
I No Tav si sono diretti, lungo la statale, con l’intento di raggiungere il presidio Ex-Autoporto di San Didero, dove alcuni resistono ancora sul tetto.
Le forze dell’ordine hanno quindi caricato i manifesti e utilizzato l’idrante, oltre un fitto lancio di lacrimogeni. Peccato che questi ultimi siano tornati al mittente visto che il vento della Valsusa soffia contro chi cerca di distruggere il territorio. Come sempre la natura è #notav.
Adesso statale e ferrovia sono bloccati dai No TAV che resistono.
La giornata prosegue!
A sarà düra, si, ma per loro!
Avanti No Tav!

DOCUMENTI PER TUTT* e REPRESSIONE PER NESSUN*!!! LA LOTTA CONTINUA

Ieri in molte città d’Italia si sono svolti presidi di fronte a questure e prefetture per chiedere un radicale cambiamento delle leggi sull’immigrazione e per condannare il razzismo e la repressione che colpisce chi lotta.

A Roma, Milano, Bergamo, Torino, Modena, Viterbo, Taranto e Napoli, gruppi numerosi e determinati di immigrati/e e non hanno gridato a gran voce la loro rabbia ed esposto una precisa lista di rivendicazioni, tra cui la regolarizzazione di chiunque sia sprovvisto di permesso di soggiorno, lo sblocco delle domande di sanatoria, l’istituzione di un permesso unico europeo, l’abolizione del legame fra permesso di soggiorno, contratto di lavoro e residenza, l’abolizione dei decreti sicurezza, l’abolizione del costo dei rinnovi, la cittadinanza per chi è nato in Italia, la fine degli abusi delle questure, la chiusura dei centri di detenzione per immigrati e la fine dei rimpatri coatti. A Palermo e Teramo, compagne e compagni hanno affisso striscioni in solidarietà in città. Oltre a questo, in molte piazze si è messo l’accento sull’accesso alla salute (come nel caso di chi, col permesso in proroga, si vede respinto dagli uffici dell’ASL) e sulla situazione pandemica che, con la sua scriteriata gestione ha influito duramente soprattutto sulla vita dei lavoratori immigrati. Si è chiesto per questo che il piano vaccinale prenda al più presto in considerazione anche coloro che, a causa delle politiche razziste italiane ed europee in tema di immigrazione, sono al momento privi di documenti.
Molte di queste delegazioni sono state ricevute dai prefetti delle loro città ed hanno consegnato la piattaforma rivendicativa, mentre nelle piazze sottostanti si dava vita ad assemblee e discussioni. La risposta dello Stato, come sempre, è stata vaga ed elusiva. Molti prefetti si sono nascosti dietro la scusa della scarsità di organico (adesso risolta, secondo loro, con l’assunzione di lavoratori interinali), o dietro altre scuse di simile, scarsa consistenza.

Chi però stamattina è sceso in piazza, nonostante la pioggia, sa bene che la giornata di oggi è solo l’inizio. Già nei prossimi giorni riprenderanno i movimenti assembleari per organizzare nuove sempre più determinate mobilitazioni. Perché non possiamo più aspettare e continueremo a lottare ed unirci, da nord a sud, dalle città alle campagne.

Perché solo la lotta paga e non ci fermeremo finché non avremo DOCUMENTI PER TUTT* e REPRESSIONE PER NESSUN*!!!

A Roma la forte testimonianza di una donna proletaria che ha il marito in carcere perché per sopravvivere in Italia senza documenti ha dovuto arrangiarsi vendendo CD. Di seguito il suo intervento:

Libertà per Patrick Zaki

 “Ancora resistendo, grazie per il supporto di tutti”. Questo è il messaggio che Patrick Zaki, il ricercatore egiziano che studia all’Università di Bologna, fa arrivare dal carcere di Tora in Egitto dove è rinchiuso da più di un anno. 

Patrick ha consegnato il libro Cent’anni di solitudine, con all’interno il biglietto scritto in italiano. La notizia è stata riportata su Facebook dagli attivisti della campagna Patrick Libero: “Sembrava stare bene in generale – hanno scritto – ma era confuso su ciò che è successo nell’ultima udienza, sapeva che la sua detenzione era stata rinnovata di 45 giorni, ma non che i suoi avvocati avevano presentato appello per far cambiare la Corte che si occupa del suo caso. La fidanzata gli ha detto che l’appello era stato respinto” hanno scritto gli attivisti sul social. Il messaggio di Patrick ha colpito molti in Italia.

“Questa resistenza di Patrick, perché così dobbiamo chiamarla, dovrebbe trasmettere a tutte le persone che da 14 mesi si stanno mobilitando per lui un’energia ancora maggiore per continuare a fare tutto il possibile perché Patrick sia rilasciato e naturalmente pretendere che chi può fare qualcosa di decisivo lo faccia” ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Il riferimento – ha aggiunto Noury- è ovviamente al governo italiano”.

la Francia pone una nuova condizione inaccettabile per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah

L a Francia ha puesto como condición que el preso se arrepienta para conceder en contrapartida un “indulto presidencial”. Un indulto y no una liberación sin condiciones ya que el preso de Lannemezan ha cumplido con creces su pena.

Traducido del francés para Rebelioń por Beatriz Morales Bastos

Non intendo negoziare la mia innocenza, nè rinunciare alla mia posizione

Francia ha puesto una nueva condición a la liberación de Georges Ibrahim Abdallah. Esta información, que se publicó en el diario libanés Al Akhbar el pasado 1 de abril de 2021, no era una inocentada (1). Incluso sería risible si no fuera trágicamente reveladora de las infamias francesas y de la dependencia de Francia respecto a Israel y Estados Unidos.

Más allá de la denegación de derecho que constituye el encarcelamiento prolongado de Georges Ibrahim Abdallah, Francia ha puesto una nueva condición a su liberación, que haga acto de contrición, en suma, que muestre arrepentimiento, exige Francia, que tanto está tardando en arrepentirse de sus crímenes coloniales. Una condición suplementaria que se añade a la condición sangrante de que a su regreso a Líbano no se produzca ningún recibimiento popular, que vuelva a su país avergonzado y que no sea acogido como un héroe.

En los 37 años en que ha estado preso ninguno de los sucesivos gobiernos franceses ha calibrado todavía al personaje: orgulloso como un roble, duro como una roca, de una límpida claridad, incorruptible.

Su respuesta, que recogió el diario Al Akhbar, fue como él: “nunca negociaré mi inocencia. No renunciaré a mi postura”, declaró Georges Ibrahim Abdallah al terminar su encuentro con la ministra libanesa de Justicia, Marie Claude Najm, en la cárcel de Lannemezan, en el departamento de los Altos Pirineos de la región de Occitania, en el sudoeste de Francia.

Marie Claude Najm es la primera persona perteneciente al gobierno libanés que se ha entrevistado con su compatriota, el preso libanés, en dos ocasiones durante tres horas en total. Al Akhbar precisa que estuvo acompañada por el Director General de Seguridad libanés, el general Abbas Ibrahim.

Al Akhbar recuerda que en las dos visitas que Macron hizo a Líbano en 2020 tras la explosión que en el puerto de Beirut el 4 de agosto de 2020 multiplicó sus consejos y amonestaciones a la clase política libanesa y dio lecciones sobre el proceso de construcción del Estado, aunque, destaca el diario libanés, el presidente francés omitió totalmente hablar de “las fragantes violaciones de los derechos humanos que comete Francia en el caso de Georges Ibrahim Abdallah”. Y el diario libanés añade: “Francia ejecuta las órdenes de Estados Unidos e Israel, aunque Georges Ibrahim Abdallah ha cumplido su pena”.

En 2018 el Estado libanés decidió por fin ocuparse del caso de Georges Ibrahim Abdallah, que desde entonces se ha convertido en el preso político más antiguo de Europa. El presidente [libanés] había planteado en caso de Georges Ibrahim Abdallah a Emmanuel Macron durante la visita del presidente francés a Bairut.

Francia había autorizado la visita de la ministra libanesa de Justicia a Lannemezan a condición de que se hiciera discretamente “sin publicidad”, como si el Estado francés se sintiera incómodo, avergonzado de su prevaricación.

Además, Francia ha puesto como condición que el preso se arrepienta para conceder en contrapartida un “indulto presidencial”. Un indulto y no una liberación sin condiciones ya que el preso de Lannemezan ha cumplido con creces su pena.

Georges Ibrahim Abdallah ha comunicado que “no tenía la intención de negociar sobre la base de las condiciones francesas” ya que se considera un “preso político” y que como tal Francia debe “asumir sus responsabilidades”, añade Al Akhbar

El diario libanés destaca también que Georges Ibrahim Abdallah “nunca atacó los intereses franceses puesto que llevó a cabo su lucha contra la dominación imperialista y las fuerzas coloniales para la defensa de los pueblos”.

Por último, Al Akhbar recuerda las palabras pronunciadas por Macron durante su viaje a Líbano con ocasión de su campaña presidencial de 2017: “Macron se había pronunciado desde Beirut en contra de que Francia reconociera un Estado palestino sin un acuerdo entre ambas partes (palestina e israelí)” y “contra toda presión sobre Israel”.

Durante su anterior reunión con responsables libaneses en diciembre de 2018 Georges Ibrahim Abdallah ofreció una lección de dignidad y de valor a sus compatriotas al exhortarles en los siguientes términos: “No mendiguen mi libertad. No se sitúen en una posición de debilidad. Ahora existe en Líbano un liderazgo combativo. […] Francia no tiene influencia en Oriente Próximo, excepto en Iraq y Líbano”».

El diario Al Akhbar publicó esta información la víspera del 70 aniversario, el 2 de abril, de Georges Ibrahim Abdallah, un hombre que habrá pasado más de la mitad de su vida en la cárcel por permanecer fiel a sus ideas. Larga vida a Georges Ibrahim Abdallah. Que su ejemplo de fidelidad a sus convicciones y de determinación en su lucha sirva de lección a las generaciones venideras.