NON POSSIAMO RESTARE A GUARDARE. BASTA RAZZISMO E MORTI DI STATO!

Comitato Lavoratori delle Campagne

Negli ultimi giorni, da nord a sud, un fitto elenco di violenze, uccisioni e aggressioni nei confronti di persone immigrate è saltato agli onori della cronaca.

L’ultima strage in mare in cui hanno perso la vita 130 persone, con la complicità assassina dell’ Unione Europea e della guardia costiera Libica, ha dimostrato ancora una volta quanto, per le autorità che ci governano, alcune vite siano sacrificabili senza problemi, per onorare accordi criminali e mantenere equilibri politici. L’ennesima aggressione ai danni di lavoratori che vivono nel Gran ghetto di Rignano Garganico, uno dei quali ha perso un occhio in seguito a questo agguato, mostra ancora una volta come il razzismo di stato legittimi nei fatti violenze gravissime verso le persone immigrate, che da nord a sud imperversano da tempo.

Cosa ci aspettiamo da uno stato le cui forze di polizia non esitano ad aggredire e togliere la vita, soprattutto chi qui non ha una famiglia o rete che può pretendere giustizia a suo nome?

Sono proprio i rappresentanti dello stato, infatti, a mostrare come si fa.

Il 16 aprile è morta nell’ospedale di Alzano Lombardo Mame Dikone Samb, donna senegalese, dopo un fermo dei carabinieri in una banca con l’uso di taser e che si è concluso con un trattamento sanitario obbligatorio (TSO). La notizia è girata su internet con informazioni distorte, e ancora una volta, rispetto alla dinamica dell’accaduto, i testimoni e la famiglia della vittima non sono stati ascoltati e creduti (per informazioni più dettagliate su questa vicenda

https://hurriya.noblogs.org/post/2021/04/29/morti-invisibili-persone-immigrate-italia/).

Nella notte tra il 24 e il 25 aprile a Livorno  Fares Shgater, originario della Tunisia,  è morto in circostanze non ancora chiarite in seguito a un “controllo di polizia”: il  suo corpo è stato ritrovato dai Vigili del Fuoco a circa quattro metri di profondità nel Fosso Reale. Il giorno dopo tante persone si sono ritrovate in protesta e sono partite in corteo raccontando di tanti episodi di violenza subiti dalla polizia, urlando con forza per la fine degli abusi e del razzismo.

La sera del 25 aprile, a Padova, un giovane immigrato, per non essersi fermato ad un posto di blocco in bicicletta viene spintonato dalla polizia municipale, atterrato e bloccato alla schiena da uno degli agenti, che con un braccio gli stringe collo. La tragedia è sventata soltanto dalle urla e dall’intervento di persone che passavano da lì e si sono opposte con forza, mentre l’assessore alla sicurezza dell’amministrazione comunale ha difeso l’operato delle forze dell’ordine.

E’ di ieri la notizia dell’ennesimo incendio nel ghetto di Borgo Mezzanone, in cui una donna ha perso la sua casa e la sua attività commerciale: ancora una volta un incidente, potenzialmente fatale, conseguenza delle condizioni di vita a cui sono costrette queste persone, nonostante da anni lottino per avere documenti, case e una vita normale. Stesse condizioni imposte dalle leggi razziste di questo paese portano alla morte ieri di quattro persone a Ragusa in un tragico incidente stradale. Si chiamavano Konate Saidou, Ceesay Lamin, Dallo Thierno Souleymane e Barry Modou, lavoravano come braccianti o ambulanti nella zona.

Quanti altri morti dovremo piangere prima di svegliarci? Perché ci si ritrova ad inneggiare sui social alle proteste di Portland o Minneapolis, e non ci si riversa nelle strade per il razzismo e le violenze dello stato che ogni giorno mietono vittime in Italia, soprattutto tra le persone immigrate?

Sta a ognuno decidere se essere complici o opporci a questa tragedia.

Per chi sta a Roma, il 30 aprile alle 18 a Piazza dei Mirti sarà un momento per incontrarsi e confrontarsi su tutte queste questioni, e non stare in silenzio.

BASTA RAZZISMO E MORTI DI STATO! NOI NON SIAMO COMPLICI.

Pasquale trovato morto nel carcere di Cuneo, una lettera anonima accusa: “Picchiato ogni notte”

Pasquale Amato, 42 anni, è stato trovato morto la mattina del 20 marzo nella sua cella del carcere di Cuneo. La sorella Lucia, qualche giorno dopo, riceve una lettera anonima proveniente dal carcere che denuncia i presunti pestaggi subiti da Pasquale e il suo suicidio per impiccagione. La famiglia ha dei dubbi, la Procura di Cuneo ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. L’autopsia è stata effettuata il 24 marzo ma ci vogliono 60 giorni per i risultati: “E’ un mistero, mio fratello non si sarebbe mai suicidato” racconta Lucia.

Stando ai fatti, a quello che la polizia e la Procura hanno dichiarato ufficialmente, Lucia Amato sa soltanto che la mattina del 20 marzo suo fratello Pasquale è stato trovato morto in cella, nient’altro. Soltanto una settimana dopo, quando è andata di fronte al carcere di Cuneo per una manifestazione, ha ricevuto una lettera anonima da parte di un detenuto che le ha rivelato che suo fratello sarebbe stato trovato impiccato in cella, dopo giornate e nottate di continui pestaggi. La versione dell’impiccagione trova per ora conferme nella dichiarazione del garante dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano, che ha dichiarato di aver ricevuto la notizia del suicidio di Pasquale Amato nella mattina del 20 marzo.

“Ho raccolto le notizie e sto cercando di farmene un’idea – spiega Bruno Mellano in una nota video – una ricostruzione che abbia il senso sicuramente di un percorso che ha visto il fallimento del carcere, della presa in carico del soggetto e di noi, varie istituzioni che non siamo riusciti a proteggere Pasquale Amato forse da sè stesso”.

Pasquale era al carcere di Cuneo da appena venti giorni però ed era un paziente affetto da una malattia psichiatrica cronica: “Era affetto da schizofrenia – racconta Lucia Amato – e aveva bisogno di cure continue, di parlare con uno psicologo. Noi nemmeno sapevamo che era lì, pensavamo fosse a Biella, non ci hanno detto nulla. Io non riesco più a dormire, mi immedesimo nei suoi ultimi giorni e vado fuori di testa a pensare a cosa possa essergli successo”.

Più di un dubbio infatti affligge la famiglia Amato, che ha chiesto che un consulente di parte fosse presente all’autopsia, effettuata il 24 marzo. La procura di Cuneo infatti, come atto dovuto per permettere le indagini, ha aperto un’inchiesta contro ignoti per omicidio colposo. “L’autopsia, quando usciranno i risultati tra 60 giorni – spiega l’avvocato degli Amato Andrea Lichinchi – sarà in grado di darci ulteriori elementi”.

“Vogliamo sapere – insiste Lucia Amato – se mio fratello riceveva le cure che doveva ricevere per la sua malattia, se ha subito delle percosse, se gli è successo qualcosa prima. Non crediamo che si possa essere suicidato”.

Gianluca Orrù

da fanpage.it

Gli anni 70 non si processano!

Il bombardamento mediatico di revisione della storia che sta facendo carta straccia di quella contemporanea del 900 con gli arresti di Parigi, impone di soffermarci a riflettere su quelle che sono le vere ragioni dell’operazione repressiva “ombre rosse” e sul filo nero che lega ieri, oggi e domani.

Lo facciamo oggi con il contributo di Silvia De Bernardinis e di un articolo di Frank Cimini

Contro chi e cosa lottavano i militanti delle organizzazioni combattenti degli anni Settanta, che per i dati forniti dallo Stato stesso non sono liquidabili come sparuto gruppo di assassini, e soprattutto che stavano all’interno di uno scontro sociale che viene sistematicamente omesso nella narrazione “condivisa”?

Dall’altra parte c’era chi aveva compiuto stragi, defenestrato (a proposito, chi è stato?), depredato risorse ed esistenze, fatto della politica una compravendita di favori, avvelenato d’amianto, ucciso di fame, di lavoro, rischiando ben poco e senza mai risponderne direttamente di persona. Contro quelli che, vittoriosi allora, di emergenza in emergenza ci hanno portato ad un oggi che fa orrore, che puzza di sopraffazione e morte. Contro questo lottavano. Il mondo di oggi è forse meno violento di quello di ieri?

Eppure la “violenza degli anni ’70” viene narrata come la più feroce. La mostrificazione creata ad hoc sui protagonisti dell’ultimo scontro di classe del XX secolo – dai folli omicidi isolati dalla società, agli infiltrati, agli sciocchi eterodiretti – serve a coprire il vero nervo scoperto di quel periodo storico, e cioè, la messa in discussione, pratica e teorica, del monopolio della violenza dello Stato da parte delle classi subalterne. La violenza degli anni ’70 che non si vuole amnistiare è la violenza dei dominati verso i dominanti, lo scontro di classe.

Silvia De Bernardinis