Torino – ancora ‘carcere assassino’ e i responsabili guardavano la partita

Cronaca in carcere di un suicidio annunciato: sul monitor di sorveglianza gli agenti guardavano la partita

Roberto Del Gaudio, detenuto da controllare a vista, si è impiccato con i suoi pantaloni del pigiama: 12 minuti di buio durante Juve-Milan
Dodici minuti per morire indisturbato, impiccato ai pantaloni del pigiama, in una cella del Sestante della Vallette, braccio dei detenuti a rischio di atti di autolesionismo dove l’immagine di un girone dantesco non appare poi metafora troppo azzardata.

Non per il fratello dell’uomo ripreso, fermo immobile, con il cappio intorno al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta per quei dodici interminabili minuti, prima che nella cella entri un primo agente della polizia penitenziaria e si renda conto di che cosa è accaduto mentre chi doveva sorvegliare era distratto altrove. “Sei colpevole e lo Stato ti manda lì, ma è solo una finta pena di morte”: dice con amarezza Giuseppe Del Gaudio, come rassegnato a questo tragico epilogo. Che Roberto, suo fratello, aveva ucciso la moglie, e la sua fine non solleva pena né indignazione.


Quei pantaloni glieli aveva portati lui senza poter immaginare che uso ne avrebbe fatto il 10 novembre 2019. E adesso vuole poter vedere le immagini crude di quella sera, quando mezza Italia era davanti alla partita tra Juventus e Milan, e Roberto Del Gaudio rinchiuso nella cella meditava come farla finita rannicchiato su una squallida brandina. Quelle immagini hanno incastrato i tre agenti della polizia penitenziaria che non avrebbero dovuto perderlo di vista nemmeno per un secondo. E che si sospetta, a quella partita non abbiano voluto rinunciare.
Sono le 21.05 quando Del Gaudio si raggomitola sotto la coperta scura che gli hanno lasciato e toglie i pantaloni del pigiama. Sono pantaloni lunghi, del tipo che un detenuto come lui non dovrebbe avere perché è considerato ad alto rischio di suicidio. Ha ammazzato la moglie tre mesi prima, è in cura per problemi psichici, e il giorno successivo deve incontrare lo psichiatra per la perizia che dovrà stabilire la sua capacità di intendere e volere, dunque anche il suo destino processuale.
In quello stesso momento, 21.05, Juventus-Milan è al quindicesimo del primo tempo, occasione per Higuain dopo un passaggio di Ronaldo. Sono le 21.37 quando le telecamere inquadrano le gambe di Del Gaudio senza pantaloni. Qualcuno dei tre agenti dovrebbe accorgersene. Ma l’arbitro ha fischiato l’intervallo e nelle interviste tra primo e secondo tempo il dirigente bianconero Fabio Paratici sta annunciando il rinnovo di Cuadrado fino al 2022.
Alle 22.28 Del Gaudio si siede sul bordo del letto e ha già il cappio attorcigliato al collo, fatto con il pigiama, lo aggancia all’angolo battente della finestra. Stesso minuto, un’altra stanza: Calhanoglu tenta di recuperare al gol di Dybala di quattro minuti prima. In campo sono fasi concitate mentre nella cella si sta per consumare il dramma di Roberto Del Gaudio. Alle 22.29 si lascia cadere dal letto e resta appeso alla finestra. Nessuno se ne accorge fino alle 22.41 quando le telecamere registrano l’ingresso del primo agente nella cella.
Bisogna tornare indietro, ma solo di 60 secondi per assistere al fischio finale. Appena il tempo utile a estrarre la scheda di Sky dal monitor e riattivare le immagini in diretta. Non dal campo ma questa volta dalla cella del detenuto. Il suo corpo penzola a pochi centimetri da terra. “Dodici minuti di buco sono un’eternità – commenterà il direttore del carcere parlando con Pietro Buffa il giorno dopo – hanno fatto una minchiata grossa”. Non c’è più nulla da fare.
La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio dei tre agenti che erano in servizio quella sera nella settima sezione del reparto psichiatrico Sestante, Giuseppe Picone, Vittorio Cataldo e Marco Spinella. Il 5 maggio inizierà il processo nel quale i pm Francesco Pelosi e Giulia Marchetti hanno contestato loro l’omicidio colposo e la negligenza per non aver tenuto sotto costante osservazione Del Gaudio.
A uno di loro hanno contestato anche il falso, per aver dichiarato che il monitor si è staccato da solo dalla staffa nel muro, versione palesemente contraddetta da una perizia tecnica. E le intercettazioni del nucleo di polizia penitenziaria sono una rassegna di tentativi di depistaggi e distruzione di prove. “Se devono fare la cosa se la devono sudare… (risata) Vaffanculo se ci dovete inc… almeno dovete sudarla” – e si affannano a crearsi degli alibi cercando di anticipare, nella ricostruzione dei tempi, il guasto del monitor.
Che fossero davanti alla partita quando Roberto Del Gaudio si impiccava è rimasto un sospetto senza prova tanto che gli inquirenti non ne hanno fatto parola nel capo di imputazione. Ma è nella coincidenza chirurgica dei tempi che gli indizi si rafforzano. C’è un’intercettazione dell’11 novembre in cui due colleghi parlano tra di loro della tragedia. “Ma come hanno fatto in tre”, “Eh, indovina”, “Cosa c’era ieri sera?”, “Juve-Milan”, “E lì dentro si vede?”, “Lo vedono sì, si portano le schede e si vedono la partita. E vabbè, non lo diciamo questo”.
“Aspettiamo che si faccia giustizia – commenta l’avvocato Riccardo Magarelli, che assisteva Del Gaudio per l’omicidio e ora assiste il fratello come parte civile in questo nuovo processo – Ma restiamo basiti dal clima di totale omertà che emerge dagli atti e dal tentativo di autoassolversi. Ci sono dati e orari oggettivi e solo con una forzatura si può pensare che siano coincidenze”.

Focolaio nel femminile di rebibbia

Nella sezione femminile del carcere di Rebibbia c’è un vero e proprio focolaio di Covid-19.

Dopo aver saputo che i pacchi e i colloqui erano stati sospesi, il 27 marzo alcune persone hanno portato un saluto di affetto e solidarietà alle detenute per ascoltare dalla loro voce com’era la situazione all’interno e come stavano.

Le donne hanno risposto raccontando che la sezione”Cellulare” (che si affaccia sul parco) era stata chiusa proprio quel giorno: in cella h24, niente più pacchi né colloqui. Nella sezione “Camerotti”, invece, queste misure erano state già prese da una settimana.

Hanno parlato della scarsità di mascherine e del ritardo nell’effettuare i tamponi.

Le persone contagiate si trovano attualmente nelle celle d’isolamento al primo piano; sembra che nessuna di loro sia in ospedale e, a quanto ci dicono, il ricovero è stato negato anche ai casi più gravi.

A tutto questo si aggiungono le costanti minacce di sanzioni disciplinari se mettono in atto azioni di protesta come la battitura o interagiscono con le persone solidali all’esterno per raccontare quello che succede dentro.

Esasperate dalla condizione che vivono in carcere, arrabbiate per il fatto di non poter più vedere le persone care, preoccupate per l’altissima diffusione del contagio e le scarsissime misure preventive messe in atto, le donne detenute ci chiedono la massima diffusione di questa situazione.

Chiedono, come dall’inizio della pandemia, amnistia e indulto!

Non lasciamole sole, non lasciamo che cada il silenzio sulle loro voci.

L’unica sicurezza è la libertà

Assemblea parenti e solidali delle persone detenute

storie di ordinaria repressione Perugia: processo per imbrattamento,

Pochi giorni fa si è tenuta la prima udienza del processo per imbrattamento che vede coinvolto un militante del nostro collettivo politico
Circa un anno fa abbiamo raccontato in maniera approfondita tutta la vicenda: https://bit.ly/3fAPmxY

Il nostro comunicato Fin da subito è apparso chiaro il tentativo di colpire l’attività politica del nostro collettivo, di attaccare non il singolo compagno ma tutta l’esperienza costruita in città a partire dalla vertenza contro Arci passando per lo sportello sociale e le lotte dei lavoratori che abbiamo sostenuto e alimentato.

Nel nostro percorso di lotta abbiamo da sempre denunciato e criticato duramente il sistema consociativo di potere costituito in primis da CGIL – Partito Democratico – mondo della cooperative.

Ci troviamo oggi a dover sostenere le spese legali di un procedimento penale che ha davvero dell’assurdo: perizie grafologiche, biometriche, cefaloscopiche, analisi delle celle telefoniche, delle scarpe, dei post pubblicati sulla nostra pagina facebook e tanto altro ancora.

Il nostro collettivo è composto da precari e disoccupati ed è per questo che non potendoci intimorire diversamente cercano di colpirci nella maniera più vigliacca possibile: ovvero sulla capacità economica di sostenere le elevate spese legali.

Sia ben chiaro, non ci siamo mai fatti spaventare da questo tipo di attacchi e non succederà nemmeno stavolta.

Chiaramente questo attacco repressivo è poca cosa rispetto a quello che stanno subendo tante realtà di lotta in tutta Italia in questi ultimi anni, ma è altrettanto importante non abbassare la guardia e rispondere con l’unica arma che abbiamo a disposizione: la solidarietà!

Chiediamo a tutte e tutti i solidali un piccolo aiuto economico

TOCCANO UNO – TOCCANO TUTTI

storia di ordinario sorpruso poliziesco Napoli. Risvegliato dalla pistola della Digos

Napoli. Risvegliato dalla pistola della Digos

Ho conosciuto Elia Gargiulo il giorno in cui abbiamo occupato il Teatro Stabile Nazionale di Napoli come Coordinamento Arte e Spettacolo Campania. Siamo, dal 27 Marzo, in Assemblea Permanente.

Ci siamo fermati a fare due chiacchiere ed Elia mi ha subito colpito per la sua cultura e la sua sensibilità.

Oltre che per la sua passione politica. Ovviamente, di fede comunista, tendente all’anarchico.

È un ragazzo poco più che ventenne, Elia. Un giovane compagno dai lineamenti dolci e dall’aria tranquilla.

Ma determinato e dal carattere deciso. Già indurito dalla vita e poco incline a fare sconti a quel sistema che vorrebbe rubargli il futuro.

Lui, insieme ai suoi colleghi, studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, avevano, 35 giorni orsono, occupato la loro Università.

Rivendicavano non solo il diritto allo studio, oramai penalizzato, quasi fisiologicamente, da un anno di pandemia. Ma soprattutto il diritto alla vita.

Quella vita che il Moloch del mercato, con il volto insanguinato del Profitto, sta sottraendo a tanti, troppi giovani.

Ancor di più, sembrerebbe, agli studenti di quelle Belle Arti che, nel paese di Michelangelo, Brunelleschi, Dante, Eduardo, Paganini, saranno oramai condannati all’invisibilità.

Invisibili in un paese che ha proceduto, negli ultimi quarant’anni, ad una desertificazione culturale tale da portare il livello di maturità emotiva, artistica e intellettuale dei propri cittadini fino all’anoressia del pensiero e della coscienza critica.

Un paese che non legge ma guarda Pornhub. O peggio Non è la Durso…

Un paese che continua sempre più a virare a destra, soprattutto nelle sue frazioni “sinistre”.

Un paese che ha fatto della repressione, della galera e della criminalizzazione del dissenso il suo Credo.

E di questa indegna cultura securitaria e criminalizzante, abbracciata con ardore anche dagli pseudo intellettuali di sinistra, e dai professori dell’Accademia, hanno fatto le spese i giovani studenti che occupavano il complesso universitario.

Sgomberati l’altra mattina dalla Digos. Con i soliti metodi da Dina cilena.

E ne ha fatte le spese Elia. Che rischia di pagare un prezzo troppo alto alla sua giustissima, appassionata, orgogliosa contestazione.

Contestazione collettiva che, ricordiamolo, contemplava anche la denuncia, da parte di tante studentesse – ieri incazzate ed in corteo dopo lo sgombero – delle molestie subite da uno dei docenti. Il regista napoletano Stefano Incerti.

Noto nell’ambiente accademico e cinematografico per questo suo, come dire, vizietto.

Denuncia che s’indirizza anche verso l’ambiguità di gran parte del corpo docente.

Il quale, di fronte alle molestie subite da una studentessa che ha a sua volta denunciato il noto regista/professore, ha tenuto un atteggiamento inaccettabile.

Fino ad arrivare a dichiarare, al momento delle indagini aperte dalla magistratura inquirente – che hanno necessariamente costretto la direzione dell’Accademia a sospendere Incerti – «Abbiamo perso un grande professore».

Una frase che si commenta da sé.

Incerti è stato poi scagionato. Ma è solo la verità giudiziaria. Che va sempre come va….

Orbene, vi lascio al racconto di Elia. Che ci descrive il momento dello sgombero avvenuto l’altro ieri all’alba.

Buona lettura!

*****

Ieri, al 35esimo giorno di occupazione in cui dormivo in Accademia, siamo stati svegliati da 40 Digos che hanno fatto irruzione in accademia, attuando uno sgombero coatto.

Sono stato circondato da 10 Digos attorno al letto dove dormivo, puntandomi telecamere e torce in faccia e chiamandomi per nome e cognome.

Quando ho aperto gli occhi, la prima cosa che ho visto è stata la fondina con la pistola e la telecamera.

Lì ho realizzato che, a differenza delle altre mattine, non erano i compagni a svegliarmi.

Sveglia Gargiulo, mani in alto, spostati.

Mi alzo da letto ed alzando le mani rispondo “sono innocuo, mi sono appena svegliato, proviamo a fare gli artisti qua dentro… E sono in mutande!.

La mia risposta tragicomica non lascia trasparire la crisi che stavo avendo in quel momento: dovermi rivestire con una telecamera addosso, sentire la pressione di 10 Digos che sai benissimo cosa stanno per fare, sei consapevole di quello che sta per succedere e tremi, ti immobilizzi, non riesci a mettere i vestiti.

Gargiulo, il telefono grazie“, mi dice uno degli ufficiali.

Mi viene impedito qualsiasi contatto con l’esterno che in quel momento mi sarebbe stato fondamentale.

Scendo scortato e mi rendo conto che l’Accademia era piena di forze dell’ordine che seguivano i miei compagn* per l’identificazione.

Vengo filmato contro un muro documento alla mano e mi viene fatta firmare la copia della denuncia.

I reati di cui vengo accusato sono gli articoli 633, 635, 639 bis e 170: Occupazione, uso improprio di bene culturale, danneggiamento e vandalismo.

Abbiamo occupato un bene culturale, un bene culturale che dovrebbe essere fruibile e comune, al cui interno vi sono una gipsoteca e la sala Palizzi, chiusi ormai da anni.

Uno spazio chiuso da un anno che veniva negato all* student* a causa di ritardi nella gestione della pandemia.

Uno spazio dove ci è stato detto che il giardino non era agibile, il teatro non era agibile, i laboratori necessitavano di un piano rientri non esistente ed infine aule chiuse non fruibili come aule studio.

La Digos ha anche preteso le chiavi dell’Aula Giuliani, che è stata di fatto sgomberata anch’essa, probabilmente l’unica certezza che avevamo ottenuto in questi 35 giorni di occupazione.

“Uso illecito di un bene culturale” perché abbiamo riaperto un bene culturale per (appunto) farlo tornare ad essere uno spazio in cui si fa arte, cultura, politica ed autoformazione.

Questa accusa è gravissima ed in alcuni casi prevede anni di carcere.

Non vi sembra assurdo ed anche incoerente accusarci di tutto ciò?

Danneggiamento e vandalismo per aver riaperto un teatro che verte in condizioni strutturali pessime e per aver eseguito un’opera al terzo piano che vede protagonisti i corpi delle studentesse molestate.

Opera eseguita su un muro su cui erano presenti scritte decennali di Casapound, Forza Nuova, frasi goliardiche a sfondo sessuale, insulti sessisti e disegni di vario tipo.

Vi fanno davvero così paura quei corpi? Vi fa davvero così paura l’arte quando non è bella (perché, parliamoci chiaro, smettiamola di dire che l’arte è solo bello perché non lo è)?

Vi fa paura quando vi si incide sulle mura di un’istituzione la violenza che avete perpetuato per 10 anni? Allora beh, siamo tutt* vandal*.

Non saranno le denunce a fermarci, non saranno le intimidazioni subite a farci fare passi indietro, non sarà la direzione che non ci ascolta ma anzi saranno motivo in più per alzare la posta in gioco, per farci sentire e per portare avanti un percorso di lotta che è appena iniziato.

DENUNCIAT* PER AVER DENUNCIATO LA VIOLENZA!

DA CONTROPIANO

Déclaration de Georges Abdallah à l’occasion de la célébration de la Journée de la terre

Cher(e)s Camarades, Cher(e) Ami(e)s,

Le peuple palestinien commémore tous les ans « la journée de la terre ». Ce n’est certainement pas seulement en souvenir d’une grève générale en 1976, réunissant le peuple palestinien des territoires de 48 contre la confiscation de sa terre. Certes, cette grève a suscité une mobilisation solidaire significative aussi bien en Cisjordanie qu’à Gaza ainsi que dans les divers camps palestiniens au Liban. Il n’en demeure pas moins. L’acquisition par tous les moyens à la disposition des envahisseurs sionistes, de la terre de Palestine n’a pas commencé le 19 janvier 1976 avec la décision du gouvernement israélien de confisquer 25 km2 en Galilée tout près de la ville de Sakhnin.

L’expropriation du peuple palestinien de tous ses biens en vu de sa destruction et non seulement la confiscation d’une part importante de sa terre, est consubstantielle à l’existence même de l’entité sioniste. Elle ne s’est jamais arrêtée et elle ne s’arrêtera qu’avec la dissolution / la destruction de cette entité qui, en réalité, n’est qu’un prolongement organique de l’impérialisme occidental.

La grève générale dont il est question et que l’on commémore aujourd’hui, s’inscrit dans un long processus de lutte dont le centre de gravité se déplaçait au gré des rapports de force à l’œuvre dans le monde arabe et dans ce Machrek arabe en particulier. Peut-être faut-il rappeler que moins de dix ans auparavant, à savoir en 1968, il y a eu la bataille d’Al Karamé et juste un an après la révolte des camps au Liban et les accords du Caire entre le gouvernement libanais et la Résistance palestinienne et deux ans plus tard Septembre Noir et les massacres en Jordanie…

C’est dans cette dynamique révolutionnaire à l’œuvre dans cet espace géopolitique de la Palestine que se recrée et se restructure l’identité et l’unité des masses populaires palestiniennes. Il a fallu du temps (1948 -1976) pour les Palestinen(ne)s du territoire de 48 pour émerger du gouffre de la Nakba et commencer à occuper une part du devant de la scène politique. Certainement aborder la question de la lutte des masses populaires palestiniennes du territoire de 1948 n’est pas du tout facile pour quiconque ne vivant pas en Palestine directement.

C’est bien pourquoi, je suppose, que le Camarade Adel Samara peut nous être d’une précieuse aide à ce propos. Nous expliquer quelque peu ce que l’on entend ces jours-ci quant au poids du « gangstérisme » et des gangs des trafiquants de tout genre, entre autres à la solde des sionistes et qui impacteraient apparemment les principales localités et villes comme Umm-Al-Fahm par exemple.

Certainement les masses populaires ici ne sont pas, et ne peuvent pas être, indifférentes à ce qui se passe aussi en Cisjordanie et à Gaza. Les protagonistes de la lutte révolutionnaire ne peuvent plus faire abstraction de la dégénérescence de cette direction bourgeoise à la tête de ladite « Autorité Palestinienne », sous prétexte de la nécessité de la sauvegarde de « l’unité nationale ». Il faut sans cesse rappeler que le « Bloc Social » appelé à assumer les tâches de la révolution se construit et se structure dans la dynamique de la lutte et non pas dans les considérations qui s’apparentent de plus en plus à la compromission…

Rejetons les compromissions et toutes les manœuvres de camouflage.

Ensemble, Camarades, et seulement ensemble, nous vaincrons.

A vous tous, Camarades, mes salutations communistes !

Votre camarade Georges Abdallah

Lannemezan, le 30/03/2021

solidali con i detenuti che resistono e si ribellano nel carcere

Ciao,
vi mandiamo un manifesto chiedendo di dargli visibilità con le seguenti righe di presentazione. Grazie.

Dopo il marzo 2020 se la situazione nelle carceri non è migliorata, nemmeno il fermento e la rabbia sono cessati. Episodi in cui singoli o gruppi di detenuti e detenute alzano la testa e prendono coraggio contro i loro aguzzini si sono susseguiti numerosi in quest’anno. Fra questi c’è Paolo.
Paolo è un compagno sardo che vive e lotta a Cagliari da molti anni, il 31 ottobre 2017 è stato arrestato immediatamente dopo aver rapinato un ufficio postale insieme a due altri complici. In secondo grado è stato condannato a 5 anni di reclusione. In qesti primi tre anni e mezzo di carcerazione a Uta non è riuscito a godere nenache una volta del beneficio dei 45 giorni di sconto di pena previsti per ogni sei mesi senza rapporti. La sua instancabile tenacia a non voltare lo sguardo di fronte ai soprusi delle guardie oltre ai rapporti gli è costata anche la denuncia per cui il 12 aprile verrà portato a giudizio.
Pochi giorni fa il direttore del carcere ha sottoposto la sua corrispondenza a censura perché “corrisponde con anarchici e organizzatori di presidi al carcere”.
Non abbiamo intenzione di lasciarlo solo. Storie simili alla sua nelle galere sono il quotidiano. Se qualcuno, un compagno questa volta, ha deciso di non lasciar correre e lottare avrà allora tutto il nostro sostegno. Alzare la testa contro l’abominio carcerario è un atto di coraggio. Sostenere questo coraggio è il minimo che chi sta fuori può fare per riconoscerlo.
Paolo libero!

Solidali contro il carcere