L’Italia pronta a rifinanziare l’accademia di polizia del dittatore Al-Sisi

Dal blog di Antonio Mazzeo

Il Ministero dell’Interno e la Polizia di Stato continueranno a fornire le risorse umane e finanziarie all’Accademia di Polizia egiziana per formare e addestrare le forze dell’ordine dei regimi africani partner della crociata contro il “terrorismo” e l’immigrazione “illegale”. Nonostante le schiaccianti prove sul coinvolgimento diretto nel sequestro e assassinio del giovane ricercatore Giulio Regeni e la lunghissima lista di crimini e violazioni dei diritti umani commessi dalla polizia del dittatore al-Sisi, le autorità italiane si apprestano a presentare alla Commissione europea una richiesta di contributo economico per prorogare almeno per un altro biennio il progetto ITEPA (International Training Centre at the Egyptian Police Academy), la cui prima tappa si è conclusa a Roma il 27 novembre 2019 con una conferenza presso la Scuola Superiore di Polizia.

Il 18 febbraio 2021, rispondendo a due distinte interrogazioni degli europarlamentari del GUE/NGL, Miguel Urbán Crespo e Özlem Demirel, Ylva Johansson (responsabile per gli Affari Interni della Commissione europea) ha confermato che il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno sta lavorando in vista del prolungamento delle attività del Centro di addestramento dell’Accademia di polizia dell‘Egitto, nell’ambito del nuovo piano finanziario pluriannuale Ue. “Le autorità italiane hanno beneficiato di un finanziamento europeo di 1.073.521 euro (Fondo Interno per la Sicurezza Internal Security Fund – ISF National Programme) per l’ITEPA 1”, scrive la commissaria Johansson. “Sulla seconda fase del progetto (ITEPA 2), in via di formulazione e il cui programma non è stato ancora sottoposto al vaglio della Commissione, non si è in grado di fornire tutti i dettagli richiesti dagli interroganti. Sulla base delle informazioni in nostro possesso, le autorità italiane intendono finanziare il progetto tramite l’Internal Security Fund Borders and Visa (ISF-BV), previsto dal nuovo piano finanziario 2021-2027”.

Sulla base di una nota emessa dalla Polizia di Stato a fine 2019 relativa alla firma di un memorandum che estende la validità del protocollo di cooperazione tra Italia ed Egitto sottoscritto nel 2017 per implementare le attività di addestramento internazionale presso l’Accademia di Polizia del Cairo, gli europarlamentari Miguel Urbán Crespo e Özlem Demirel avevano chiesto alla Commissione di conoscere i contenuti e i termini contrattuali dei programmi ITEPA 1 e ITEPA 2, i responsabili e i beneficiari diretti della formazione e soprattutto se la stessa rispettasse gli standard internazionali in tema di difesa dei diritti umani e protezione dei migranti.

“La Commissione è pienamente consapevole del cambiamento della situazione dei diritti umani in Egitto e queste questioni sono regolarmente poste dall’Unione Europea nei contatti bilaterali con le autorità egiziane e nei forum internazionali”, la controversa risposta di Ylva Johansson. “Pertanto, la protezione dei diritti umani è stato un elemento trasversale in ogni settore addestrativo in quanto ITEPA era finalizzato a fornire modelli operativi per gestire il fenomeno migratorio assicurando la piena protezione dei diritti dei migranti (…) La qualità dei formatori è stata assicurata con il coinvolgimento di persone provenienti dalle maggiori organizzazioni internazionali responsabili dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati (UNHCR e OIM). I risultati e le lezioni di ITEPA sono stati presentati nel corso dell’evento conclusivo e saranno utilizzati per ITEPA 2”.

Lodevoli intenti quelli delle autorità di polizia italiana e della Commissione Ue, peccato che i più recenti report delle maggiori organizzazioni non governative e di alcuni degli stessi governi Ue abbiano documentato il completo fallimento della formazione italo-egiziana a favore delle polizie africane partner. Le operazioni di contrasto dei flussi migratori sono state realizzate infatti violando i più elementari diritti umani ed è lunghissimo l’elenco di crimini, abusi, torture, deportazioni, detenzioni, sparizioni forzate perpetrate in tutto il continente. Basta un’occhiata ai paesi le cui forze di polizia hanno “beneficiato” delle attività addestrative presso l’Accademia di Polizia del Cairo nell’ambito di ITEPA per documentare l’insostenibilità e l’immoralità del progetto Italia-Ue: oltre all’Egitto, compaiono infatti Algeria, Burkina Faso, Ciad, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Gambia, Gibuti, Ghana, Guinea, Kenya, Libia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan, Sudan del Sud, Tunisia.

Continue reading

Strage di stato nelle carceri: i familiari si oppongono all’archiviazione

I familiari di Chouchane Hafedh, uno dei detenuti morti durante la rivolta scoppiata un anno fa in carcere a Modena, si sono opposti alla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura.
A spiegarlo è l’avvocato Luca Sebastiani, che li assiste. “E’ un atto complesso, frutto di un lavoro lungo e copioso dove abbiamo avuto modo di affrontare ogni singolo aspetto che la Procura non ha considerato. Siamo fiduciosi che le nostre perplessità, che sono tante ed anche molto rilevanti, possano essere considerate dal Giudice per le indagini preliminari”.
Secondo il pm tutti gli otto decessi sarebbero da ricondurre a un’overdose di metadone e benzodiazepine dopo il saccheggio della farmacia del Sant’Anna.
Per l’avvocato, che dice di condividere la causa della morte individuata dai pm, ci sono però altre questioni: “Oltre al tema della responsabilità omissiva, che andava esplorato con maggiore dovizia come avviene ogni giorno quando tragedie come queste accadono in posti di lavoro, in ospedali o in altre strutture, vi è un tema molto rilevante relativo al ritardo nei soccorsi, così come segnalato dal nostro consulente medico legale specializzato proprio in tossicologia”. (ANSA).

E’ morto Sante Notarnicola, “un bandito” come si definì. Ma lo vogliamo ricordare per quello che fu: operaio ribelle, comunista rivoluzionario, prigioniero politico, poeta e scrittore. Un’inguaribile combattente

“Sono nato a Castellaneta, nel tarantino, il 15 dicembre 1938. Anni tristi, anni di fame per il Sud: il fascismo, la guerra d’Africa, la guerra di Spagna non avevano risolto nulla, avevano succhiato solo uomini. E la guerra mondiale era già nell’aria. Castellaneta è nell’entroterra, a una trentina di chilometri da Taranto. Uno di quei paesoni agricoli, tipici del Sud, né villaggio né città, poverissimi, ricchi solo di bocche da sfamare. Case vecchie, una sola strada decente, in mezzo al paese, qualche villetta dei notabili: le sanguisughe. In campagna i miei nonni lavoravano ancora con l’aratro a braccia. L’unica industria era l’emigrazione. Il fascismo provò a sostituirla con la guerra: a casa invece delle rimesse degli emigranti, cominciarono ad arrivare poche lire sottratte alla “deca”. Il paese era noto nel mondo per una sola gloria: Rodolfo Valentino. Ma i dirigenti locali non seppero sfruttare neppure quella, puntando sulle americane fanatiche dell’amante latino. Mio padre era figlio di contadini. I nonni conducevano a mezzadria una cascina a Lizzano, un altro paesone come Castellaneta. Di tanto in tanto anche mio padre andava a lavorare nella cascina dei vecchi. Ho ricordi molto vaghi di quel tempo, almeno fino al giorno in cui mio padre se ne andò con una vicina di casa anche lei sposata. Tra tutti e due abbandonarono una decina di figli. Com’è costume dalle mie parti, queste cose toccano il limite della tragedia. Il disonore ricade su tutta la famiglia, figli compresi. E naturalmente è la parte più debole, la donna e i figli, che ne porta il peso maggiore. Per me fu un duro colpo. Mio padre era estremamente severo, tra lui e noi non ci fu mai confidenza, ma distacco. Nel paese era uno dei pochi che portava la camicia bianca, si dava un contegno, ci teneva a dimostrare che era un educatore rigido. Quando se ne andò non perse il mio affetto, che non aveva potuto nascere, ma il mio rispetto; tutta la sua austerità era naufragata miseramente. Mia madre non trovò lavoro, i pregiudizi erano troppo forti. Non venne assunta neppure nell’unica azienda del paese, che era diretta da un suo zio. Anzi fu proprio lui a opporsi: temeva il pettegolezzo. E così mia madre dovette andare a Torino, con l’aiuto di una sua sorella che, sposandosi, era andata là. Trovò lavoro come cameriera. Io fui spedito in un “collegio” a Bari, i due figli più piccoli rimasero al paese con la nonna materna, così la “famiglia unita” andò a ramengo.”*

Sante Notarnicola trascorre la prima infanzia fra miseria ed emarginazione sociale. Abbandonato dal padre, è costretto a subire lo sfascio della propria famiglia in un Istituto per l’Infanzia Abbandonata, dal quale uscirà a 13 anni per raggiungere la madre, nel frattempo emigrata a Torino. Nella capitale industriale del Nord va a vivere alla “Barriera di Milano”, nota per essere un quartiere nevralgico per tutto il mondo operaio e sede di una delle più importanti e storiche sezioni del PCI della città di Torino; la famosa sezione “Antonio Banfo” che custodiva una minuta con appunti di una riunione a cui parteciparono Gramsci, Togliatti, Tasca ed altri e questo cimelio era l’orgoglio di tutti i suoi militanti insieme agli innumerevoli racconti di chi fu testimone di eventi storici importanti. Notarnicola inizia la sua militanza politica sotto l’influenza dello zio ex partigiano; frequenta gruppi di operai e di ex partigiani e con loro milita prima nella FGCI, poi nel PCI: sono gli anni del dopoguerra, anni in cui negli ambienti della sinistra italiana si continuano a nutrire speranze rivoluzionarie e in modo particolare il sogno di continuare la lotta condotta durante la Resistenza, per portare a termine quella trasformazione che si era bruscamente interrotta con la fine della seconda guerra mondiale; sono gli anni in cui, di fronte ai sogni di una generazione, si delinea la svolta istituzionale del Partito Comunista che prende sempre più le distanze dalle idee rivoluzionarie. È fra le quinte di questo complesso scenario che matura l’esperienza politica e umana di Notarnicola.

“Cominciai a rendermi conto che anche la condizione operaia era intollerabile per un rivoluzionario. Certo la classe operaia è rivoluzionaria per ragioni storiche, l’avanguardia del proletariato, senza di essa non si fa molta strada, tuttavia, pensavo, è attraverso lo sfruttamento degli operai che il padrone accumula capitali e se ne serve per schiacciare loro e tutti gli oppressi. Me ne accorgevo ogni giorno di più, del trucco. Ogni giorno provavo a fare i conti: ho lavorato tanto, a me danno tanto di paga e il resto lo becca il padrone; ogni giorno io e i miei compagni diamo denaro al nostro nemico. Lavoriamo per arricchirlo, farlo più forte e prepotente; e con la lotta economica gli abbiamo piccole briciole, nient’altro. Alla fine della giornata mi dicevo, incazzandomi: anche oggi ho dato una mano al padrone perché resti sempre padrone. E anche se facevo lavoro sindacale e politico ero insoddisfatto, capivo che non riuscivo comunque a bilanciare quello che facevo per il padrone. Sentivo che stavo facendo la parte del fesso [… ] Comunque continuai ancora l’attività sindacale e politica in fabbrica. Sia per non sentirmi un vinto, almeno in questo, sia perché lì non si poteva mollare, volenti o nolenti, anche se non si era d’accordo col sindacato, anche se si era stanchi e sfiduciati; e poi non c’era altro da fare: o lottare o cadere nella completa inazione.”*

È il ’59 quando inizia con alcuni compagni una serie di espropri, organizzando rapine in banche e gioiellerie per raccogliere denaro a favore dei movimenti di liberazione nei paesi coloniali; è durante una di queste rapine (la sanguinosa rapina di Largo Zandonai a Milano) che nel ’67 viene arrestato insieme a Piero Cavallero e altri due compagni e condannato all’ergastolo.

Il carcere non spegne il suo spirito rivoluzionario, infatti insieme agli altri detenuti si batte, rivoltandosi contro le condizioni carcerarie nelle quali i detenuti erano costretti a vivere, riuscendo a conquistare con queste prime rivolte, una serie di diritti loro negati, dall’avere carta e matita per poter scrivere o avere più di un libro in cella a proteste contro il sistema penitenziario, le condizioni detentive, i decreti legge sulle carceri; come la lotta sul decreto di amnistia per i detenuti politici incarcerati durante “l’autunno caldo” o le condizioni detentive in massima sicurezza e l’introduzione delle carceri speciali e del regime in 41bis. Partecipò alle rivolte in carcere, che segnarono la storia carceraria italiana e nel novembre 1976 tentò di evadere con altri quattro detenuti dal carcere di Favignana. Nel 1978 è il primo nella lista dei 13 nomi indicati dalle Brigate rosse come detenuti da liberare in cambio del rilascio di Aldo Moro.

In carcere Sante studia, legge e scrive:  pubblica il suo primo libro nel 1972 “L’evasione impossibile” ed è autore di diversi scritti poetici. Alla sua prima raccolta poetica, Con quest’anima inquieta (Torino, Senza galere, 1979), seguirà La nostalgia e la memoria (Milano, G. Maj, 1986). Dal 1995, in regime di semilibertà, gestisce il pub Mutenye dedicandosi ai più giovani e a numerosi progetti sociali, solidali, culturali. Libero dal 21 gennaio 2000, trascorre a Bologna gli ultimi anni della sua vita. Ci lascia a 82 anni il 22 marzo 2021 dopo aver vinto la sua ultima battaglia con il Covid, “guarendo praticamente da solo”, come hanno detto i medici, perché a 83 anni e con i diversi problemi che aveva avuto, anche il dosaggio dei medicinali doveva essere cauto.

“A poco a poco cominciavo a trasformarmi, mi sentivo migliore, più risoluto. Anche oggi tutto questo, maturato e rivissuto, mi aiuta a vivere, a lottare, così come posso. Oggi guardo indietro, a quei tempi, e misuro il distacco, la strada percorsa e sento che senza quell’esperienza forse non sarei in galera, ma sento pure che se non fossi diventato comunista, l’intera mia vita non avrebbe avuto senso. E per me essere comunisti è l’unico modo di essere uomini. Il futuro, vada come vada, ma le cose giuste della mia vita non posso rifiutarle, respingerle, neppure per rendere più tollerabile la mia situazione: vada come vada, sono stato e sono un comunista. Dicano quel che gli pare, i fottuti borghesi, me ne sono sempre sbattuto di loro, in modo giusto o sbagliato gli ho sempre sputato in faccia. E ora più che mai. A maggior ragione ora che li conosco meglio, ora che ho conosciuto le loro galere, ho visto ciò che fanno ogni giorno ai poveri cristi.”*

Ciao Sante, che la terra ti sia lieve

*L’evasione impossibile, 1972

Rivolte nelle carceri: lo stato si assolve dalla strage e processa chi ha lottato per la propria salute e dignità

A un anno di distanza si è infine arrivati a quanto era annunciato dall’inizio: per la locale procura l’inchiesta giudiziaria sui fatti di Modena si spegne in una richiesta di archiviazione. Come annunciavano già da subito, dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, ministri, procure, giornali, i detenuti si sono suicidati imbottendosi di metadone e farmaci. Non c’è altra verità possibile.
Nessun responsabile. Nessuna negligenza. L’unica colpa è quella dei detenuti, che si sono ribellati e che si sono ingozzati di farmaci. A sostegno di tale conclusione vi sono le autocertificazioni della polizia penitenziaria e dei medici che, pur dipendendo dal sistema sanitario pubblico, si sono dimostrati succubi delle logiche securitarie e degli apparati militari.
Ma la battaglia per la verità e la giustizia continua, a maggior ragione. Alcune associazioni hanno già annunciato opposizione alla richiesta della procura di Modena, consapevoli di come vi sia un dato che accomuna le carceri di ogni luogo e ogni tempo: ovvero che il carcere non solo produce ma è violenza, proprio mentre pretende di esserne risposta. E mentre la violenza di questo stato imperialista si traduce costantemente in impunità, quando la violenza viene agita dagli oppressi, dai detenuti, fioccano presto i processi e le condanne: è del 12 marzo 2021 la sentenza con le prime condanne ai detenuti di Venezia, mentre è di fine febbraio la condanna sino a due anni e mezzo di prigione dei primi 17 imputati, detenuti nel carcere di Opera. Il 18 marzo 2021 54 detenuti di Rebibbia sono stati processati per la rivolta del 9 marzo 2020 e 20 prigioniere sono tuttora sotto indagine per una protesta avvenuta in contemporanea nella sezione femminile. Ma sono molti altri i processi in corso contro decine e decine di altri reclusi accusati per le proteste del marzo scorso.
Un anno fa le persone detenute hanno indicato l’unica soluzione possibile per evitare il contagio di massa in celle sovraffollate: svuotare le galere.
Alle proteste, dilagate poi nelle carceri di mezzo mondo, lo Stato ha risposto con pestaggi, trasferimenti punitivi, morti e torture.
Il tracollo sanitario che ha trasformato le carceri in focolai era prevedibile, ma lo Stato ha predisposto manganelli, lacrimogeni, muscoli e processi.
Viceversa, non risulta sinora alcun imputato per i 13 reclusi ufficialmente morti.

Carceri, storie di ordinaria violenza

Proponiamo 2 documenti, uno dei genitori di un ragazzo fino a un mese fa detenuto nel carcere di Torino, l’altro è un video di Antigone, a cura di Fanpage, sul carcere di Mammagialla di Viterbo:

Dal corriere di Torino

«Mio figlio in isolamento per mesi. Nudo, con la luce sempre accesa e senza acqua corrente»

Il diario drammatico narrato dalla famiglia del giovane, 24 anni, in carcere per una tentata rapina. Poi il trasferimento in una cella di osservazione del reparto psichiatrico, dove avrebbe dovuto trascorrere solo poche notti

«Mio figlio in isolamento per mesi. Nudo, con la luce sempre accesa e senza acqua corrente»

La «liscia», così la chiamano al carcere Lorusso e Cutugno. Non è una cella come le altre: è la numero 150 e si trova all’interno del Sestante, il reparto psichiatrico. Una stanza completamente vuota, priva di mobili e suppellettili. Le uniche parvenze di arredo sono un materasso, una coperta e il bagno a vista con lo scarico attivato dall’esterno. M., 24 anni, nella «liscia» avrebbe dovuto trascorrere solo poche notti, invece vi sarebbe rimasto per molto più tempo: oltre i limiti stabiliti dai regolamenti. «È rimasto nudo, con la luce sempre accesa e senza acqua corrente», denuncia il padre.

Ilgiovane entra in carcere nel dicembre del 2019: deve scontare due anni di reclusione per una tentata rapina. Prima viene mandato all’istituto penitenziario di Verbania, poi trasferito a Torino perché ha problemi psichici: la diagnosi è disturbo borderline della personalità. «Una patologia che è possibile curare con la psicoterapia», racconta il papà. In carcere, però, le sue condizioni di salute si aggravano ed M. tenta il suicidio. Basta questo per trasferirlo in una cella di osservazione del reparto psichiatrico: lì non c’è nulla con cui possa provare a mettere fine alla propria vita. Quel trasferimento avrebbe dovuto essere temporaneo. Invece M. ci rimane per diversi mesi. Uscirà nel febbraio del 2021, quando i genitori riescono a riportarlo a casa (sta scontando il resto della pena ai domiciliari). Un risultato raggiunto al temine di una strenua battaglia a suon di carte bollate, istanze davanti al giudice di Sorveglianza, perizie psichiatriche e interventi del garante dei detenuti.

«Mio figlio è stato sottoposto a un trattamento disumano. È stato denudato e abbandonato in una cella – spiega il padre -. Per calmarlo lo hanno imbottito di psicotici. A nulla è servito insistere sul fatto che avesse bisogno di psicoterapia e non di trattamenti farmacologici, che per altro come effetti collaterali portano a depressione e suicidio». È un diario drammatico quello narrato dalla famiglia del giovane. «Mio figlio ha riportato anche alcune ustioni: si era rotta la finestra e non l’hanno riparata. Così in pieno inverno e con solo una coperta addosso per scaldarsi, si è rannicchiato vicino al termosifone fino a bruciarsi. Per quattro giorni, poi, non gli hanno fornito acqua in bottiglia e così quando dall’esterno attivavano lo scarico dei bagni, lui la raccoglieva prima che finesse negli escrementi. Lo hanno mortificato, insultato, umiliato».

Una perizia psichiatrica ha anche stabilito che M. era sottoposto a trattamento psicofarmacologico «esagerato» e «abnorme», con il rischio «non solo di aggravare e perpetuare la sintomatologia psichica e comportamentale, ma anche di ostacolare e compromettere le possibilità di recupero». «Da quando è a casa sta meglio, ma è uscito distrutto dal carcere. Ancora adesso ha gli incubi per quello che ha subito». Della vicenda di M. si è occupata anche Emilia Rossi, componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti. Nel luglio dello scorso anno ha fatto un’ispezione. «Abbiamo riscontrato il disagio di questo giovane – spiega –. Sono anni che denunciamo l’inadeguatezza del Sestante e soprattutto della camera liscia».

In un rapporto del 2017, il Garante ne chiedeva l’abolizione rilevando non solo le pessime condizioni igienico-sanitarie, ma anche «l’illegittimità dello stato di isolamento del detenuto» per un periodo superiore al limite di 15 giorni previsto dalla legge. E ora la storia di questo ragazzo è anche racchiusa nell’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che dagli anni Ottanta si occupa di diritti nell’ambito del sistema carcerario e alla quale la famiglia si è rivolta per chiedere aiuto. È stata scelta perché rappresenta un caso limite, la cui crudezza mette a nudo «quanta strada ancora c’è da fare per garantire diritti e protezione a chi vive all’interno delle carceri italiane», si legge nel documento.

Il video di Fanpage

‘Ho subito aggressioni, ho cicatrici in faccia e su tutto il corpo’, ‘Vi scongiuro aiutatemi, ho paura di morire’. Queste sono solo alcune delle frasi contenute nelle lettere scritte dai detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo. Richieste di aiuto e racconti del terrore indirizzati all’Associazione Antigone che da anni si occupa di tutela dei diritti umani nel sistema penale e penitenziario.   (le immagini del carcere ‘Mammagialla’ sono state gentilmente concesse dall’Associazione Antigone) https://youmedia.fanpage.it/video/aa/…

Continue reading

Torino – grave operazione repressiva contro i NO TAV a torino – tutti liberi subito

Torino: Si sa, procura e questura torinesi non smettono mai di stupire. A quasi due anni dai fatti questa mattina la polizia ha eseguito tredici misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav e giovani impegnati nelle lotte sociali in città nell’ambito di un’indagine sul Primo Maggio del 2019.

Fu un Primo Maggio particolare quello del 2019, il TAV era un tema centrale del dibattito politico di quei mesi. Nell’autunno precedente erano venute allo scoperto le “madamine”, operazione a freddo del sistema Si Tav per rappresentare un’inesistente base sociale favorevole all’opera. Il bluff era stato svelato e ridicolizzato con la grande manifestazione dell’8 dicembre a Torino che aveva visto decine di migliaia di persone riempire le strade della città per gridare forte il proprio NO.

La retorica che andava per la maggiore e che vedeva tra i suoi promotori il PD e i sindacati confederali nella loro interezza, insieme alle destre di ogni colore e alla Confindustria, era che la grande opera inutile avrebbe portato lavoro e progresso, pura propaganda smentita dai fatti (e persino da alcuni ormai noti rapporti europei). A quella retorica il movimento No Tav ha sempre opposto la considerazione per cui “c’è lavoro e lavoro”, cioè esistono lavori degni che si prendono cura del territorio, della salute collettiva, di ciò che è utile, bello e giusto e ci sono lavori che invece devastano, inquinano, sfruttano e riproducono la violenza dell’uomo sull’uomo e sulla natura.

Quel Primo Maggio del 2019 voleva essere usato dal sistema SI TAV come palcoscenico per la propaganda della grande opera, con tanto di madamine, esponenti di fratelli d’Italia e berlusconiani di ferro scesi in piazza in quella data forse per la prima volta in vita loro, ma non avevano fatto i conti con la valle che resiste e con le centinaia e centinaia di lavoratori e lavoratrici precari, studenti, riders e facchini della logistica che ogni anno si ritrovano in piazza all’interno dello spezzone sociale per portare avanti lo spirito originario di lotta del Primo Maggio. Quel Primo Maggio era la fotografia plastica di due Torino radicalmente diverse, da un lato le consorterie di speculatori, imprenditori e lobbies con i loro partiti politici di riferimento e i sindacati gialli a fare da sussidiari, dall’altra la Torino di chi lotta per sopravvivere, quella del sudore, delle pedalate in bicicletta per consegnare la cena, degli scarponi allacciati sui sentieri, dei giovani che si oppongono al cambiamento climatico e pretendono un futuro migliore.

lo spezzone sociale di quel Primo Maggio fu partecipato da migliaia di persone, era probabilmente lo spezzone sociale più grande che si ricordi negli ultimi anni, sicuramente era lo spezzone del corteo più folto e numeroso, tale da superare i numeri del resto della manifestazione nel suo complesso. In un primo maggio che progressivamente da giornata di lotta per i diritti degli oppressi si è trasformato prima in “festa dei lavoratori” e poi in “festa del lavoro” (come si legge nelle carte dell’inchiesta redatte in questura), gli spezzoni istituzionali si sono progressivamente svuotati, mentre la coda del corteo si è arricchita di nuove istanze, nuovi bisogni, nuove visioni sul futuro.

Questa evidenza probabilmente non poteva essere tollerata. Già dai giorni prima della manifestazione era evidente che si sarebbe tentato di relegare le voci di dissenso lontane dai responsabili delle politiche sociali, ambientali e sindacali che hanno falcidiato territori e generazioni di giovani e meno giovani del nostro paese. La polizia ha più volte tentato di bloccare lo spezzone sociale, di costringerlo al fondo del corteo, di provocarne il ridimensionamento, ma i numeri sono cresciuti, così come la determinazione e la volontà di portare avanti le proprie rivendicazioni. Nonostante tre violente cariche il corteo è arrivato in piazza San Carlo e finalmente la voce del paese reale ha potuto esprimersi su quel palco che fino a pochi minuti prima era stato il teatro della sfilata politico-sindacale.

Adesso a quasi due anni di distanza arriva la vendetta dello Stato per quella giornata di lotta, con delle misure cautelari assolutamente insensate dato il lungo periodo intercorso ed utilizzate unicamente per “punire” chi ha partecipato con generosità allo spezzone sociale.

Ancora una volta tra l’altro siamo di fronte ad un’inchiesta “selettiva” in cui ad essere colpiti e colpite sono compagni e compagne noti per la loro generosità e partecipazione alle lotte. L’obbiettivo di questura e procura è naturalmente quello di offrire alla stampa dei ritratti deformati di chi si spende per contrapporsi alla barbarie istituzionale, alla devastazione ed allo sfruttamento.

In particolare ancora una volta nel mirino degli inquirenti è finita Dana, in carcere da mesi per aver parlato ad un megafono, che guarda caso è nuovamente accusata di un reato di opinione e cioè di aver raccontato dal microfono del furgone dello spezzone sociale quanto stava accadendo in piazza, di aver rincuorato chi resisteva alle cariche, di aver ricordato ai partiti ed ai sindacati le loro responsabilità. E’ evidente che ormai a Torino non si puniscono unicamente i comportamenti legittimi o meno, ma è in corso una vera è propria caccia alle idee di chi non è allineato con il dettato dominante.

Tutt* liber* subito!

Da notav.info

 Genova – lo Stato borghese lancia una grave operazione repressiva contro i lavoratori portuali

 a difesa del commercio di armi a favore del regime assassino e genocida dell’Arabia saudita e a difesa dei fascisti

Genova. Cinque lavoratori del collettivo autonomo lavoratori portuali sono indagati dalla procura di Genova per associazione per delinquere finalizzata a reati che vanno dalla resistenza all’accensione di fumogeni al lancio di oggetti pericolosi e, perfino, all’attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti.
All’alba del 24 febbraio le loro abitazioni, così come il luogo di lavoro, sono stati perquisiti dalla Digos che ha sequestrato telefoni, tablet e pc per trovare conferma di ‘azioni’ che il Calp ha sempre reso pubbliche sulla sua pagina Facebook. Due le tipologie di condotte contestate, da un lato quella antimilitarista in particolare con le manifestazioni e i presidi contro le navi della flotta Bahri, accusata di trasportare armi per rifornire l’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, traffico recentemente bandito anche dall’Italia con lo stop alla vendita di bombe, dall’altra quella antifascista con blitz davanti alle sedi di Casapound, Forza Nuova e Lealtà azione, che di fatto sono consistiti in scritte e portoni sigillati con la colla.
“Per molti di questi reati, che nella maggior parte dei casi si riducono a semplici contravvenzioni gli attivisti del Calp sono stati assolti – spiega l’avvocato Laura Tartarini – oppure si tratta di processi, come la protesta di Corvetto contro il comizio di Casapound, che devono ancora cominciare”. Tra i fatti contestati la trasferta ad Arezzo, in particolare a Castiglion Fibiocchi dove i militanti del Calp erano andati ad appendere uno striscione e a fare scritte contro l’assoluzione dei due aretini condannati in primo grado e assolti in appello per la morte di Martina Rossi, figlia di Bruno, membro storico del collettivo.
  “La Procura di Genova sostiene che il Calp si è reso colpevole di avere strumentalizzato la protesta con ‘dispositivi modificati in modo da renderli micidiali’ – spiegano gli attivisti in un video facendo riferimento a uno degli episodi contestati – I bengala e i fumogeni utilizzati dai portuali per attirare l’attenzione sulle navi dalle stive e i ponti piene di armi e esplosivi diretti a fare stragi sarebbero “micidiali”, non le armi e gli esplosivi caricati sulle navi. In realtà il Calp ha usato un’arma “micidiale”, ossia lo sciopero. Questo ha fatto tremare gli armatori e i terminalisti: non i razzi luminosi e i fumi colorati, ma che il traffico criminale di armi non sia solo criticato idealmente ma sia bloccato materialmente dai lavoratori” proseguono ricordando la protesta che aveva visto protagonisti sindacati e associazioni cittadine per evitare l’imbarco nel porto di Genova di generatori destinati a un uso militare.