SOLIDARIETÀ CON JENNIFER

Riceviamo e pubblichiamo

Jennifer è una donna trans di 38 anni, detenuta nella prigione di Seysses, a 30 km dalla città di Tolosa nel sud-ovest della Francia, da 7 mesi oramai.

Jennifer è una persona queer, militante per la difesa delle “sex workers” e anche star di quartiere amata da tutti/e. Jennifer è in arresto preventivo, in attesa del processo, nelle peggiori condizioni immaginabili: in una cella di isolamento nel reparto maschile del carcere di Seysses.

Il nome sul suo documento d’identità non corrisponde alla sua identità di genere. È circondata da secondini apertamente transfobici che la discriminano con vessazioni quotidiane, le impediscono di vestirsi come le pare, la chiamano sempre con il prenome maschile e fanno battute di cattivo gusto allo scopo di umiliarla. Eccetto i colloqui, Jennifer non ha alcun altro contatto umano che con loro.

Jennifer è in arresto preventivo con l’accusa di tentativo di omicidio del suo stupratore. Siamo tutte/i al corrente delle violenze quotidiane che i sex workers et le lavoratrici sessuali vivono quotidianamente e soprattutto della difficolta che queste persone hanno di denunciare. Perché se sono state violentate “se lo sono andate a cercare”, perché “è il rischio di questo lavoro” e soprattutto perché non saranno mai credute, come oggi accade ancora alle donne che vogliono denunciare il loro aggressore.

Infatti l’accusa di stupro antecedente ai fatti dell’aggressione, non è stata accolta dal giudice d’istruzione. Questo la dice lunga sulla possibilità di Jennifer di potersi difendere correttamente e di avere giustizia.

Le condizioni di prigionia di Jennifer e di tutte le persone trans sono pesantissime e disumanizzanti. L’isolamento e la transfobia che lei subisce, influiscono sulla sua salute mentale, lei che ha sempre affrontato la vita con coraggio e determinazione dall’alto dei suoi tacchi a spillo.

Il nostro obiettivo è di rompere il suo isolamento e di mostrarci solidali, ne va della sua sopravvivenza!

Il nostro è un appello a tutte le reti militanti è di diffondere la storia di Jennifer e di restare solidali. Come tutte i detenuti/e, Jennifer ha bisogno di un aiuto economico e di sostegno emozionale grazie a delle lettere, dei disegni, stikers, collage, foto etc. Tutti i pensieri di incoraggiamento e di amore saranno per lei un sostegno e le permetteranno di svagarsi e di pensare ad altro nelle lunghe ore di isolamento quotidiane.

Jennifer è una fun sfegatata di Mariah Carey.

La solidarietà è la nostra arma, rompiamo le gabbie che ci dividono dai nostri amici/e e cari/e!

Contattare il collettivo di amici/e e cari/e Cosco per avere le informazioni per scriverle e versarle un aiuto.

Il 1 febbraio facciamo rumore con tutte le detenute e i detenuti in lotta

Riceviamo e pubblichiamo

CACEROLADA SOLIDALE
CON TUTTI I DETENUTI E LE DETENUTE IN LOTTA

Al presidio dello scorso sabato 23 gennaio, le detenute della sezione femminile del Coroneo (Trieste) hanno proposto una battitura in protesta alla situazione che da ormai quasi un anno tutti i detenuti e le detenute delle carceri italiane sono costrette a vivere a causa dell’emergenza Covid. Le detenute propongono una battitura dentro le carceri alle 15.30 di LUNEDI 1 FEBBRAIO per dar voce  alle loro rivendicazioni.

Le rivendicazioni sono:
1) Essere sottoposte a tamponi ed esami del sangue sierologici, piuttosto che essere costrette alla vaccinazione.
2) Indulto
3) Domiciliari per le persone con problemi sanitari e gravi patologie e per i detenuti in residuo di pena

Ribadiamo che è in corso una strage di Stato, quella che da marzo 2020 sta avvenendo nelle carceri, dopo i morti della scorsa primavera tramite le botte e il piombo sparato, le persone detenute continuano a morire per le negligenze sanitarie o per le ripercussioni delle botte di un anno fa come è avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Per unire le proteste che stanno avvenendo nelle altre carceri di Vigevano, Torino, Varese…
Proponiamo di essere presenti sotto il carcere alle 15.30, con pentole, trombe e tutto ciò che possa far rumore, in modo tale da poter così dare voce anche fuori le mura alla loro lotta.

Assemblea permanente contro il carcere e la repressione
liberetutti@autistiche.org

PER L’EX ASILO OCCUPATO DI TORINO “ASSOCIAZIONE SOVVERSIVA” PER 18 COMPAGNI – Massima solidarietà ai compagni e compagne

In realtà l’oscena militarizzazione del quartiere e la repressione indiscriminata da parte della polizia che avvenne nei giorni dello sgombero dell’Asilo occupato dovrebbe, se la giustizia non fosse apertamente di parte/di classe, portare ad incriminare i poliziotti che fecero quell’occupazione militare nel quartiere.

Su questo – a seguire della notizia stampa – ripubblichiamo l’intervista all’Avv. Vitale su quei giorni.    

(dalla stampa) 

«Un’associazione sovversiva» all’ex Asilo occupato di Torino: 18 indagati
Chiusa l’inchiesta sull’operazione «Scintilla» che partì con il blitz del 7 febbraio 2019, quando fu sgomberato lo stabile di via Alessandria (occupato dal 1995)
C’era un’associazione sovversiva all’ex Asilo occupato di Torino, «idonea a influire sulle politiche in materia di immigrazione» tramite attentati di vario tipo, tra plichi esplosivi (15) e ordigni (6): è l’accusa che la Procura del capoluogo piemontese contesta a 16 persone dell’area anarchica (più altre due per istigazione a delinquere), nell’avviso di fine indagini notificato ai difensori. L’inchiesta della Digos di Torino — coordinata dal pm del pool antiterrorismo Manuela Pedrotta — partì con il blitz all’alba del 7 febbraio 2019, quando fu appunto sgomberato lo stabile, occupato dal 1995.
Tra i fini dell’associazione — sempre secondo le indagini, durate oltre due anni — c’era l’attacco ai centri di rimpatrio, piano «culminato in più episodi di danneggiamento». Contestata anche la fabbricazione e il posizionamento di tre ordigni presso uffici postali, a Torino e Genova. L’accusa di associazione sovversiva era stata bocciata dal tribunale del Riesame, ma gli inquirenti giudicano di aver raccolto altri indizi ed elementi in grado di sostenere l’imputazione, nel caso di richiesta di rinvio a giudizio: atto che, solitamente, segue l’avviso di fine indagini.
La ricostruzione difensiva dei legali — tra cui gli avvocati Claudio Novaro e Barbara Cattelan — contesta invece radicalmente tale imputazione, oltre al resto dell’ipotesi investigativa.

L’Intervista all’Avv. Gianluca Vitale  che il 1°Maggio ha avuto personalmente un assaggio di questo livello di repressione

Parlaci dei recenti avvenimenti della repressione a Torino, li collochiamo da quando hanno sgomberato l’Asilo occupato, le manifestazioni e la repressione che ne è seguita. Facciamo il punto.
La vicenda parte dalle misure cautelari che devono essere eseguite per i compagni dell’Asilo. L’accusa iniziale è di associazione sovversiva, i compagni vengono accusati di aver mandato “lettere esplosive” ad alcuni Cpr. Lo sgombero, quindi, viene fatto perchè devono arrestare le persone. Successivamente due persone sono rimaste dentro, altre sono state scarcerate, ma è caduta l’accusa di associazione sovversiva che era quella ovviamente più grave. Non è la prima volta che questa accusa viene utilizzata a Torino, e si riferisce ad alcune azioni – i cosiddetti “pacchi bomba”, ma molto di quello che viene sostenuto è di “istigazione”. I blog e i giornali d’area che in qualche modo propagandano queste azioni, sarebbero elementi che dimostrerebbero la associazione sovversiva. Tesi che contestiamo fortemente, perchè quella è “manifestazione del pensiero”, tantomeno può essere utilizzata per sostenere: l’associazione esiste perché tu inviti o fai parte di un’associazione sovversiva.
Dopo questo, parte la reazione del movimento. Vengono fatte manifestazioni, la sera stessa c’è una, poi il sabato c’è una grossa manifestazione, che contestano da una parte l’operazione degli arresti e lo sgombero dell’Asilo che era occupato da 25 anni, ma contestano anche il fatto che per sgomberare quell’Asilo viene fatta una operazione di militarizzazione in tutto il quartiere. Vengono bloccate le strade, non solo durante le operazioni di sgombero che durano la sera, la notte, fino al mattino dopo, alcuni compagni restano sul tetto, ma per vari giorni in cui intere vie e pezzi di quartiere sono state totalmente presidiati, con divieto di ingresso. Potevano entrare solamente i residenti mostrando un documento e venivano addirittura accompagnati uno per uno fino al portone di casa, tipo Palestina con i chekpoint. Questo è stato gravissimo. Ma questo ha portato anche a prendere coscienza del livello di repressione che sta agendo a Torino anche da parte di persone che non hanno mai fatto politica, che non sono interessate, ma visto il livello di questo genere, si chiedono che cosa sta succedendo.

Che atteggiamento hanno avuto gli abitanti della zona?
Gli abitanti del quartiere sono stati molto solidali con i compagni dell’Asilo, anche se non frequentavano l’Asilo e forse gli dava anche fastidio la festa che fino a tarda sera faceva rumore, ma si rendono conto che quella è una azione totalmente al di fuori da ogni comprensibilità democratica. Per fare un esempio del livello. Il giorno dello sgombero alcuni compagni che hanno un appartamento prospiciente l’Asilo – l’Asilo è un vecchio fabbricato dell’ottocento/primi novecento, un palazzotto circondato da palazzi degli anni ’70 – hanno messo le casse fuori per far sentire Radio Blackout anche fuori. Ha telefonato poi una compagna che ha detto: ci hanno staccato la luce e non andiamo a riattaccarla perché ci sono poliziotti dentro il palazzo. Io sono andato lì e ho riattaccato la luce, accompagnato una delle compagne che doveva portare a spasso il cane…, c’era questa paura palpabile. Comunque, viene fatta la manifestazione di sabato, dove vengono fatti arresti; manifestazione molto dura, ma anche lì la risposta della polizia è stata molto simile alla risposta di Genova G8: cariche sostanzialmente da “rete a strascico”, fai la carica e tutto quello che trovi in mezzo, lo prendi e lo porti via. Uno dei ragazzi che sono stati arrestati era appena uscito di casa per vedere quello che stava succedendo e si è trovato in mezzo alla carica ed è stato pestato in maniera significativa. Ancora qualche giorno dopo c’è stata una piccola manifestazione nella zona di Porta Palazzo (il mercato di Torino) e la risposta è stata, mentre alcuni compagni andavano a questa manifestazione su un tram pubblico di quelli grossi, è stato fatto fermare il tram, la Digos è entrata e, mi ricordo come l’ha descritto una compagna che stava su quel tram, hanno fatto uscire i civili e hanno bloccato in fondo i compagni. Un’operazione anche di immagine, della serie: tu scendi, tu no. Anche qua con un metodo da rastrellamento. Anche qui poi in pochi minuti hanno chiuso completamente la zona. Ricordo, quando sono arrivato – lì c’è anche una galleria interna con negozi  e c’era una signora che diceva: “ma lì c’è una stiratrice, devo andare a ritirare gli abiti…”, “No, non si può passare…” Ed era una signora tranquillissima, che non gliene fregava niente della manifestazione. Quindi, è continuata per qualche ora questa militarizzazione improvvisa, da scacchiera.
Questo è il livello di repressione che finora a Torino non si era visto. Sì,ci sono state manifestazioni, scontri, ma questo tipo di livello di controllo del territorio in realtà è una novità anche per Torino. Tanto più che non è fatto in occasione per esempio di un Vertice. E’ già successo a Torino che c’è il Vertice all’Università e viene chiusa tutta l’area – un po’ come è successo a Taranto quando è venuto Renzi – e tu ti fai la tua iniziativa. Qui, invece, diventa una sfiducia nella popolazione, al di là di chi c’è. E quindi devi bloccare tutto, devi congelare la situazione, occupare il territorio. Truppe di occupazione, praticamente .
Devo dire che quello che è stato abbastanza significativo e positivo è la risposta, che non è stata divisa. Forse l’auspicio di chi ha organizzato questa operazione era anche di dividere il movimento, della serie: “lì ci sono gli anarchici che stanno un po’ sulle scatole…”, No, la risposta è stata molto compatta. Tutto il movimento, tutti i compagni si è mosso e la risposta è andata oltre il movimento,  perchè quella modalità di gestione non è stata accettata dalla città
In tutto questo, ovviamente, la prima persona che si è complimentata, ha esultato per lo sgombero dell’Asilo è stata la Sindaca Appendino, che ha creato anche delle contraddizioni all’interno del M5S, che per il momento però non mi sembra che abbiano avuto grandi ricadute sulla tenuta interna del movimento.

A cosa è dovuto principalmente questo livello di repressione, c’è un legame con la situazione generale, il governo?
Io credo sicuramente, sì. Mi ricorda il periodo di Genova, dove subito dopo le cariche del sabato in cui erano state massacrate una serie di persone, quello che ci dicevano i poliziotti era: “guardate che sono cambiate le cose. La potete finire di fare i comunisti…”. Ora ogni tanto l’impressione è quella, un senso di impunità maggiore da parte delle Forze dell’ordine c’è. La situazione generale non influisce solo sul ‘liberi tutti nell’aggressione al nero, al migrante, ecc.”, “se lo dice e fa il razzista un ministro, lo posso fare anch’io…, sentirmi libero di dire e fare quello che voglio…”. Anche le Forze dell’ordine hanno molto più un senso di copertura. Effettivamente non c’è mai stato niente di strano, di anomalo nel pestaggio in piazza, così non c’è mai stato niente di strano nello sgombero duro di un posto occupato. L’occupazione militare di un territorio, di interi isolati, è la novità. E la novità mi sembra più facile leggerla come dici tu, con un clima complessivo che consente anche di sentirsi liberi di fare le “truppe di occupazioni” che magari prima avevi più remore a farlo.
A questo si accompagna un clima cittadino che. Nonostante quello che anche alcuni compagni speravano potesse succedere, non è successo, è stato un fallimento totale; alcuni speravano che il M5S a Torino fosse in qualche modo legato al movimento antagonista – e in parte lo era – e desse una sponda a questi movimenti, in realtà c’è una linea di continuità totale con il progetto cittadino che aveva anche la Giunta del PD, sta seguendo pedissequamente anche questi progetti di gentrificazione, di espulsione della popolazione, ecc. I 5 stelle di Torino sono più minnitiani che salviniani, alla fine più il “decoro” di Minniti sia la loro bandiera.

Ci sono delle avvisaglie di repressione verso altre realtà di centri sociali o antagoniste?
Si dice che vi sia già un cronoprogramma, perchè Salvini ha chiesto un cronoprogramma degli sgomberi. Per ora quello che sta andando avanti è il progetto di trasferimento dell’ex Palazzina Olimpica, occupata dai migranti. La settimana scorsa è stato sgomberata un’altra di queste palazzine. Lì con trasferimenti programmati degli occupanti in altre sedi. Sicuramente hanno cominciato quello che vuole essere una serie di sgomberi, da quello che ritenevano essere “più semplice, meno difendibile”, è ovvio che se vorranno andare a mettere le mani sull’Askatasuna, il problema militare, di fattibilità concreta immagino che sarà molto maggiore. In realtà altri CS, come il Gabrio, hanno un tessuto sul territorio maggiore e questo crea dei problemi. L’obiettivo sicuramente è quello di fare piazza pulita, d’altra parte questo sta nel decreto Salvini. In questo senso stanno “semplicemente” ottemperando alla legge.

Prima dicevi che, diversamente da come si poteva pensare, c’è stata una solidarietà, un’unità immediata tra le varie componenti del movimento, anche da parte dell’area anarchica c’è stato un atteggiamento più aperto…
Sì, sicuramente. C’è stata per esempio una grossa assemblea, come non ce n’erano da anni all’Università, che è partita da una serie di docenti universitari, la maxi aula dell’Università era piena, e non c’era una prevalenza di compagni di Askatasuna, che è l’unica che segue l’Università; c’erano tantissimi compagni di area comunista, di area anarchica, ma anche tantissime persone, studenti, docenti, che  erano arrabbiate, dicono che non si può tranquillamente accettare questo tipo di repressione. A me sembra che ci sia stata una voglia di dialogo, anche da parte di realtà che sono più portate a ragionare al loro interno e a rapportarsi poco con le altre realtà, come l’area anarchica.

Abbiamo letto, in effetti, dopo la repressione per i fatti dell’Asilo occupato delle prese di posizione individuali di alcuni intellettuali, che sono significative in una situazione in cui tutta la campagna stampa era tesa ad indicare i compagni come “terroristi”, sono state  controcorrente.
Probabilmente c’è stato un eccesso di sicurezza. Chi ha gestito questa operazione repressiva probabilmente pensava che in questa fase storica avrebbe avuto solamente il consenso popolare. Fortunatamente così non è stato. Forse per gli eccessi con cui hanno portato avanti queste misure repressive. Quindi, la risposta non è stata quella che loro speravano potesse esserci.
In questo momento, secondo me, sono eccessivamente sicuri di avere il 90% dei consensi e quindi di poter fare qualunque cosa, in realtà non funziona così, almeno nelle grandi città, almeno a Torino, neanche nei confronti dei migranti, perchè comunque un minimo di solidarietà continua ad esserci. Pur seè ovvio che la fase storica non è particolarmente brillante.

Abbiamo letto che c’è stata da parte tua una denuncia nel processo ai No Tav della presenza di poliziotti che hanno esplicitamente dichiarato di essere fascisti.
Si, nel corso di un processo per resistenza ma anche per oltraggio; l’oltraggio sarebbe perchè uno dei manifestanti ha detto “fascista”  a un carabiniere in un’operazione in Val di Susa. In realtà casualmente dei colleghi avvocati si sono accorti che nel profilo facebook di uno dei soggetti coinvolti, un maresciallo, c’erano delle frasi che inneggiavano alla X Mas, a Junio Valerio Borghese, così come è venuto fuori che c’erano delle immagini del periodo fascista, di Mussolini dentro la caserma dei carabinieri. Gli avvocati hanno chiesto in udienza, e non sono stati smentiti. Anche il Comandante della Stazione ha detto: Sì, c’erano quelle immagini, ma poi ho chiesto di toglierle; della serie, forze non erano opportune, ma non è niente di significativo. Adesso aspettiamo la sentenza, per vedere se il Tribunale terrà conto del fatto che dire “fascista” ad uno che rivendica di essere fascista non dovrebbe essere considerato reato; d’altra parte, non ha detto: no, quanto mai…, ha detto: sì quelle frasi ci sono. Poi le ha tolte da fb. Io non ho mai avuto risposta, ovviamente. ho chiesto al comandante dei carabinieri conto di questa cosa, dicendo anche che questa cosa era gravissima e si sarebbero dovuti prendere dei provvedimenti; se nell’Arma dei carabinieri, persone che si dichiarano fasciste evidentemente c’è un problema di tenuta democratica. L’Arma si vanta di essere fedele allo Stato, il fascismo è fuori da questo Stato… Non mi hanno risposto e non credo che mi risponderanno mai…

Ancora sulla strage di marzo, a che punto siamo

Dal Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri

Morti in carcere e rivolte. Le novità, i dubbi

di Lorenza Pleuteri *

Le nuove carte e i documenti inediti pubblicati dal quotidiano “la Repubblica” (il dossier multimediale integrale è visibile nell’edizione online, riservato però ai soli abbondati) ha portato alla luce altre tessere fondamentali del puzzle da ricomporre per sapere che cosa è successo a marzo 2020 nelle patrie galere e come e perché tredici detenuti sono morti durante e dopo le rivolte. La trasmissione “Report” della RAI ha rilanciato. E altri interrogativi, tasselli che non entrano più nel quadro tratteggiato inizialmente, si sono aggiunti alle troppe domande rimaste senza risposta dopo dieci mesi e mezzo di indagini (a Bologna carenti, come dimostra il fascicolo depositato dal GIP) e di interrogazioni parlamentari cadute nel vuoto.

L’uso delle armi
In questi mesi “solo” alcuni detenuti di Modena e alcuni familiari hanno parlato di uso delle armi, da parte della polizia penitenziaria o forse anche di altre forze di polizia, e hanno portato come “prova” l’audio di un filmato girato fuori dal carcere emiliano durante le fasi più critiche della violenta sommossa (www.youtube.com/watch?v=auzr2B0435I&t=108s, minuto 1.36, sempre che non sia una porta di ferro che sbatte). Alle armi non avevano invece fatto alcun cenno, nelle prime comunicazioni al Parlamento, né il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede né l’allora direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini. Perché? Si temeva che qualcuno avrebbe sollevato obiezioni o chiesto approfondimenti? O si pensava che si stabilisse una correlazione con i decessi, come hanno fatto gli anarchici, sebbene l’esame dei cadaveri e le autopsie avessero escluso ferite e lesioni? Si è taciuto il “dettaglio”. Eppure, la possibilità di ricorrere alle armi è ammessa dall’ordinamento penitenziario, in specifiche e limitate situazioni (ad esempio per sventare tentativi di fuga). Ora si apprende che nelle relazioni di servizio del personale del carcere, inoltrate al DAP e quindi a conoscenza di referenti politici e amministrativi, non è stato possibile omettere questo “particolare”. I rapporti parlano di «colpi sparati in aria» per evitare una evasione di massa. Anche l’uso della forza fisica è ammesso, sempre in casi estremi. E qui un attento ed equilibrato dirigente sindacale, Gennarino De Fazio, responsabile nazionale della Uilpa, fa un lapsus, tremendo. In una dichiarazione all’agenzia AGI, ripresa dalla “Gazzetta di Modena”, dice «violenza», come se fosse un sinonimo di forza e non un andare oltre. «Mi sento di escludere – affermazioni sue, mai rettificate – che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che si tratta di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire “legittima” perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni».

Chi stava male consegnato agli agenti
Almeno due detenuti di Modena che stavano male – e che ci hanno rimesso la vita – sono stati affidati alla polpenitenziaria da altri reclusi. Erano già morti? O si potevano salvare, come è successo con i reclusi assistiti e portati in ospedale? Sono stati picchiati, anche loro, se è vero quel che ha detto un loro compagno in TV? Nei rapporti di servizio su Slim Agredi, quarantenne tunisino in attesa di giudizio, c’è scritto: «Dopo aver assunto imprecisati quantitativi di metadone con altri detenuti della sezione, perde conoscenza. Alcuni dei presenti tentano di rianimarlo, prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale della polizia penitenziaria».
Per Chouchane Hafdeh, un connazionale di 36 anni, prossimo a uscire per fine pena, le indicazioni sono simili: «Dopo aver assunto quantitativi di metadone perde conoscenza. Altri detenuti tentano di rianimarlo prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale di polizia penitenziaria». Le due consulenti della procura di Modena dopo l’autopsia confermano che l’uomo – l’orario e il luogo preciso ancora non si conoscono – è morto per edema polmonare acuto, con insufficienza respiratoria, presumibilmente provocato da una intossicazione da metadone.
«Si dice che detenuti ignoti – rileva l’avvocato dei familiari, Luca Sebastiani – hanno consegnato Hafedh agli agenti della polizia penitenziaria, che a loro volta lo hanno affidato ai sanitari. I reclusi non erano mascherati eppure sono rimasti ignoti, come se fosse impossibile riconoscerli. Dai pochi atti che girano – ipotizza il legale – non sembra che sia proceduto alla loro identificazione, seppur necessaria ai fini investigativi. Invece andavano individuati e sentiti a verbale, per ricostruire meglio l’accaduto e anche dal loro punto di vista, fondamentale». La procura di Modena – per ammissione del procuratore reggente, Giuseppe di Giorgio – non ha chiesto neppure di procedere all’identificazione dei reclusi che viaggiarono assieme ai quattro compagni di Modena morti durante o dopo il trasferimento ad Ascoli, Parma, Alessandria, Verona. Sono stati sentiti a verbale unicamente i cinque ragazzi che a fine novembre hanno firmato un esposto per denunciare spari, pestaggi, abusi e l’omissione di soccorso di Salvatore “Sasà” Piscitelli, un pesantissimo atto di accusa per cui si cercano riscontri o smentite. Gli investigatori della squadra Mobile non sono riusciti a identificare i due stranieri che in estate hanno mandato lettere a due giornaliste, con testimonianze altrettanto inquietanti. Troppo complicato? I compagni di viaggio erano appena 40, non 400, e i non italiani ancora di meno. «Se e quando arriveranno altre segnalazioni – promette Di Giorgio – le approfondiremo e convocheremo chi le ha scritte. Già subito dopo la rivolta – ricorda – erano pervenute due denunce su presunti maltrattamenti, prese accuratamente in considerazione». Continua a leggere

Sulla strage di marzo: i segreti di una rivolta e un video da rivedere

I segreti di una rivolta

di Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Lorenza Pleuteri e Fabio Tonacci

La Repubblica, 17 gennaio 2021

La storia taciuta delle violenze del marzo 2020 nelle carceri italiane alla vigilia e nei primi giorni del lockdown. Quando i detenuti di 21 penitenziari misero in atto proteste, saccheggi ed evasioni. Con il bilancio di tredici morti. Dimenticati.

Domenica 8 marzo 2020, il cielo di Modena promette pioggia. L’Italia si risveglia da una notte difficile. Che non dimenticherà. Circolano le bozze del drammatico decreto con cui il presidente del Consiglio si prepara a chiudere a tempo indeterminato il Paese per proteggerlo dalla prima ondata della pandemia Covid che ha cominciato a fare strage negli ospedali e nelle residenze per anziani. Tocca per prima alla Lombardia diventare zona rossa. Il resto dell’Italia la seguirà ad horas.

Alle 13.15, nella Casa circondariale “Sant’Anna”, il grande carcere modenese, scoppia una rivolta. E così cominciano le sessanta ore più difficili della storia penitenziaria italiana. Vengono divelti i cancelli, branditi gli estintori, smontati i letti per farne mazze di ferro, un centinaio di detenuti assale i poliziotti della penitenziaria distruggendo tutto quello che capita a tiro. Telecamere di sorveglianza comprese. Modena, però, non è né un fuoco isolato, né un fuoco di paglia. È la scintilla che innesca una polveriera. La rivolta che travolge il “Sant’Anna” ha avuto infatti un prologo il giorno prima, nel carcere di Salerno. Un’esplosione di violenza sedata la sera stessa del 7 marzo, con il ritorno all’ordine. E che ora, a Modena, riprende vigore. Diventa incontenibile. Si prende le galere di tutta Italia. Dalla Puglia alla Lombardia, da San Vittore a Rebibbia.

Alla fine, le carceri coinvolte saranno 21. Scontri, incendi, violenze, devastazioni, furti, evasioni di massa. Per un bilancio che conta 107 agenti feriti, 69 detenuti ricoverati in ospedale. E, soprattutto, tredici detenuti, tredici uomini che si trovavano nella custodia dello Stato, morti. Tre i deceduti a Rieti, uno a Bologna, cinque a Modena, altri quattro, trasferiti da Modena, e deceduti ad Alessandria, Parma, Verona e Ascoli. Si chiamavano Marco Boattini (40 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni), Hafedh Chouchane (37 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Slim Agrebi (40 anni), Ali Bakili (52 anni), Lofti Ben Mesmia (40 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Artur Iuzu (42 anni), Ghazi Hadidi (36 anni), Salvatore Cuono Piscitelli (40 anni). È una strage che si consuma all’interno e a ridosso delle mura di cinta delle carceri. Una rivolta collettiva che, nei numeri, fa impallidire anche quella rimasta nella storia e nell’immaginario del circuito penitenziario italiano. Quella che, 40 anni prima, il 28 dicembre 1980, ha messo a ferro e fuoco il carcere speciale di Trani.

Eppure, in quei giorni di fine inverno, in una sorta di nemesi simbolica, schiacciata come è dall’enormità dell’inedita esperienza collettiva della segregazione sanitaria, quella storia di carcerati che arriva dalle galere – quelle vere – si perde nelle cronache delle edizioni cartacee dei quotidiani, annega nei siti web, scivola in coda ai notiziari radiofonici. Quelle tredici morti vengono liquidate con la superficialità che si riserva a vicende che si ritiene non meritino domande, a maggior ragione se incrociano un’umanità di serie B quale viene considerata quella dei detenuti, e per le quali, dunque, la prima e più innocua delle spiegazioni è quella destinata a fare fede. “Erano tossicodipendenti in astinenza”, si dice. “Hanno assaltato le infermerie delle carceri e sono morti per overdose di farmaci”.

Per giorni, dei morti non si conoscono neanche i nomi. “Ciò che più mi sconvolge – osserva oggi Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti – è che questa strage, in tempi di Covid, sia stata considerata come un effetto collaterale.

I protagonisti

Tuttavia, in questi dieci mesi, qualcosa si è mosso. Qualcuno delle domande ha cominciato a farle. Diverse procure hanno aperto indagini e stanno ancora investigando. Francesco Basentini, l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si è dimesso, e al suo posto il ministro Alfonso Bonafede ha scelto il magistrato antimafia Bernardo Papalia. Si sono mobilitate le associazioni e gli attivisti che hanno a cuore il presente, e dunque il futuro, di chi è costretto in prigione. Quei 13 detenuti sono davvero morti tutti per overdose? A nessuno di loro poteva essere risparmiato quel destino? E se qualcuno ha sbagliato, chi? Chi ha taciuto e continua a tacere una parte di verità? Abbiamo deciso anche noi di riavvolgere il nastro tornando a quei giorni di marzo. Abbiamo fatto domande, raccolto testimonianze inedite, documenti ufficiali, tra cui i rapporti dei direttori degli istituti penitenziari inviati al Dap e alcuni atti d’indagine. Ne emergono una ricostruzione inedita, molte omissioni, e la cattiva coscienza di chi, da quasi un anno, continua a volgere altrove lo sguardo. Continua a leggere

La lotta paga, le detenute in lotta nel carcere di Torino vincono la battaglia e sospendono lo sciopero della fame!

da https://www.notav.info/

COMUNICATO DELLE DETENUTE IN SCIOPERO DELLA FAME

In data odierna, a seguito dell’impegno concreto da parte dell’Amministrazione carceraria di garantire, ad effetto immediato, la possibilità di usufruire delle 6 ore ministeriali previste per i contatti con i propri familiari e a seguito delle notizie pubbliche rispetto al piano prevenzione Covid che da marzo riguarderà tutta la popolazione detenuta, decidiamo di sospendere lo sciopero della fame giunto oggi al 6° giorno.

Nonostante siano innumerevoli le evidenze del fallimento del sistema carcerario, siamo soddisfatte oggi del piccolo ma importante risultato raggiunto.

Abbiamo oggi, in presenza della Garante dei detenuti del Comune di Torino, stilato un elenco di tutto ciò che con urgenza dev’essere affrontato al fine di garantire una detenzione almeno dignitosa.

Gli argomenti esposti sono stati i seguenti:

  • carenza dei percorsi rieducativi di formazione all’interno del carcere e di reinserimento lavorativo e abitativo all’esterno di esso;
  • eccezionalità del Tribunale di Sorveglianza di Torino, ma a livello nazionale per la severità dei provvedimenti presi circa le misure alternative;
  • gravi carenze strutturali e igieniche all’interno della Casa Circondariale;
  • assenso totale di un precorso di sostegno alle donne vittima di violenza;
  • dotazione a tutte le detenute in ingresso e già presenti in carcere di un regolamento penitenziario;
  • miglioramento del vitto quotidiano;
  • rimozione griglie strette oltre le sbarre delle finestre;
  • acqua calda in cella;
  • ristrutturazione docce comuni;
  • maggiore garanzia serale di rapido intervento in caso di criticità;
  • garanzia circa il rispetto delle regole della sezione aperta (ore di apertura).

Concludiamo auspicando che si possa al più presto rendere ammissibile la proposta di scarcerazione anticipata (75 gg retroattivi) a tutte le tipologie di reato compreso il 4-BIS.

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenute in questi giorni faticosi, non facendoci sentire sole e dando voce alla nostra protesta.

Dana, Fabiola, Stefania, Emanuela.

MA LA LOTTA CONTINUA, PER LA LIBERTA’ DI TUTTE E TUTTI

La lettera, importante, di Fabiola De Costanzo, che ci risponde dal carcere di Torino: un esempio per tutte e tutti della necessità della solidarietà proletaria, dell’unità delle lotte, di come, unit*, si possano rompere muri e catene

Oggi ci è arrivata la risposta di Fabiola; nella giornata di azione del 15 gennaio lei ha fatto sciopero. Questa la sua lettera:

Ciao

ho ricevuto le tue lettere il 12 gennaio. Solo allora sono stata al corrente dello sciopero. Qui alle nuove giunte la situazione è drammatica, il livello di solidarietà è minimale e quello di una coscienza di lotta è inesistente. Cercando “complicità” in sezione, non ho avuto risposte che potevano aiutarmi a capire come essere attiva/e o come partecipare a questo sciopero e così ho deciso per un’azione individuale per essere comunque presente. DOMANI SCIOPERERO’. Ho scritto un breve testo che domani attaccherò alle sbarre della cella che ti riporto:

“OGGI, VENERDÌ 15/1/21 NELLE CARCERI ITALIANE È STATO INDETTO UNO SCIOPERO PER DENUNCIARE E PROTESTARE CONTRO LE CONDIZIONI ABERRANTI CHE SIAMO COSTRETTE A VIVERE. NON CREDO IN UN MIGLIORAMENTO DELLO STATO DETENTIVO, LE PRIGIONI SONO UNO STRUMENTO DI TORTURA PSICOLOGICA E FISICA DELLO STATO CHE VUOLE REPRIMERE OGNI FORMA DI LOTTA, DISSENSO E DIGNITOSA VITA. LA METÀ DA RAGGIUNGERE È QUELLA DELLA DISTRUZIONE DELLE GALERE E DELLE ALTRE UMILIANTI FORME DI DETENZIONE. OGGI SCIOPERO, NON MANGIO, NON ESCO ALL’ARIA, NON FACCIO LA DOCCIA, NON MI SOTTOPONGO AI RITMI IMPOSTI DALLA CONDIZIONE DI PRIGIONIERA.
LIBERTÀ PER TUTTE E TUTTI
Fabiola nuove giunte F cella 6″

Questo per ora sarà il mio contributo allo sciopero, minimo, lo riconosco ma mi auguro ancora di poter essere sorpresa da un atteggiamento meno remissivo delle altre detenute che sono qui con me. Un abbraccio forte e solidale e buona lotta

Fabiola

14 gennaio 2021.

Ora Fabiola ha incontrato altre compagne di lotta: con Dana, Stefania, Maria Emanuela e un’altra detenuta del carcere Lorusso-Cotugno di Torino (di cui ancora non sappiamo il nome), da 6 giorni sta portando avanti uno sciopero della fame per rivendicare diritti fondamentali negati a tutte le persone detenute, il diritto all’affettività e il diritto alla salute.

  • Chiedono che venga immediatamente ripristinato il rispetto del monte ore settimanale delle videochiamate con le proprie/propri care/e, sia la telefonata ordinaria che quella aggiuntiva introdotta dopo la sospensione dei colloqui in presenza, escludendo le telefonate con i propri legali dal monte ore a disposizione.
  • Inoltre chiedono che le limitazioni allo spostamento tra comuni, previste dal dpcm, non impediscano ai parenti che risiedono fuori Torino di potersi recare al carcere per le visite e le prenotazioni dei colloqui. Non è accettabile che questo non sia ritenuto un motivo valido per uscire dal proprio comune! Andare all’IKEA, è possibile, andare a trovare i propri cari e le proprie care recluse No!
  • L’altra importante rivendicazione riguarda il diritto alla salute: si chiede che vengano immediatamente attuate reali e concreti misure sanitarie riguardo alla pandemia covid 19. Informazione, prevenzione, mappature dei contagi sono misure di vitale importanza che il carcere di Torino non ancora non ha adottato.
Il 15 gennaio, nella giornata di azione indetta dalle donne proletarie, Fabiola, anche da sola, ha fatto sciopero, grazie alla solidarietà che è riuscita a raggiungerla. E questo la dice lunga sull’importanza della solidarietà e sull’unione delle lotte.
Queste donne, che con coraggio portano avanti una battaglia per la dignità, nonostante le difficoltà e le paure che devono affrontare dentro un’istituzione totale come il carcere, unite stanno facendo qualcosa di molto importante anche per tutte e tutti noi che siamo fuori.
Il movimento No Tav sarà in presidio permanente a Bussoleno: tutti i giorni in Piazza Del Moro 10. Al mattino dalle 10 alle 12 e al pomeriggio dalle 16 alle 19.
Facciamo che cresca questa solidarietà e questa unione. Sosteniamo queste detenute e non lasciamole sole
Chiediamo a tutte e tutti di essere con loro in tutte le mobilitazioni popolari. Il 29 gennaio, per lo sciopero generale, il 1 febbraio per la battitura nazionale lanciata dalle detenute di Trieste ecc.
Portiamo anche nel buio delle carceri dove sono costrette le nostre sorelle, il vento di liberazione, la dignità della ribellione alla voce del padrone
SCIOPERIAMO TUTTE/I, ANCHE CON LORO, E SCRIVIAMOGLI!

Casa Circondariale Lorusso e Cutugno

Via Maria Adelaide Aglietta, 35, 10151 Torino TO