Ancora sulla strage di marzo, a che punto siamo

Dal Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri

Morti in carcere e rivolte. Le novità, i dubbi

di Lorenza Pleuteri *

Le nuove carte e i documenti inediti pubblicati dal quotidiano “la Repubblica” (il dossier multimediale integrale è visibile nell’edizione online, riservato però ai soli abbondati) ha portato alla luce altre tessere fondamentali del puzzle da ricomporre per sapere che cosa è successo a marzo 2020 nelle patrie galere e come e perché tredici detenuti sono morti durante e dopo le rivolte. La trasmissione “Report” della RAI ha rilanciato. E altri interrogativi, tasselli che non entrano più nel quadro tratteggiato inizialmente, si sono aggiunti alle troppe domande rimaste senza risposta dopo dieci mesi e mezzo di indagini (a Bologna carenti, come dimostra il fascicolo depositato dal GIP) e di interrogazioni parlamentari cadute nel vuoto.

L’uso delle armi
In questi mesi “solo” alcuni detenuti di Modena e alcuni familiari hanno parlato di uso delle armi, da parte della polizia penitenziaria o forse anche di altre forze di polizia, e hanno portato come “prova” l’audio di un filmato girato fuori dal carcere emiliano durante le fasi più critiche della violenta sommossa (www.youtube.com/watch?v=auzr2B0435I&t=108s, minuto 1.36, sempre che non sia una porta di ferro che sbatte). Alle armi non avevano invece fatto alcun cenno, nelle prime comunicazioni al Parlamento, né il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede né l’allora direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini. Perché? Si temeva che qualcuno avrebbe sollevato obiezioni o chiesto approfondimenti? O si pensava che si stabilisse una correlazione con i decessi, come hanno fatto gli anarchici, sebbene l’esame dei cadaveri e le autopsie avessero escluso ferite e lesioni? Si è taciuto il “dettaglio”. Eppure, la possibilità di ricorrere alle armi è ammessa dall’ordinamento penitenziario, in specifiche e limitate situazioni (ad esempio per sventare tentativi di fuga). Ora si apprende che nelle relazioni di servizio del personale del carcere, inoltrate al DAP e quindi a conoscenza di referenti politici e amministrativi, non è stato possibile omettere questo “particolare”. I rapporti parlano di «colpi sparati in aria» per evitare una evasione di massa. Anche l’uso della forza fisica è ammesso, sempre in casi estremi. E qui un attento ed equilibrato dirigente sindacale, Gennarino De Fazio, responsabile nazionale della Uilpa, fa un lapsus, tremendo. In una dichiarazione all’agenzia AGI, ripresa dalla “Gazzetta di Modena”, dice «violenza», come se fosse un sinonimo di forza e non un andare oltre. «Mi sento di escludere – affermazioni sue, mai rettificate – che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che si tratta di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire “legittima” perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni».

Chi stava male consegnato agli agenti
Almeno due detenuti di Modena che stavano male – e che ci hanno rimesso la vita – sono stati affidati alla polpenitenziaria da altri reclusi. Erano già morti? O si potevano salvare, come è successo con i reclusi assistiti e portati in ospedale? Sono stati picchiati, anche loro, se è vero quel che ha detto un loro compagno in TV? Nei rapporti di servizio su Slim Agredi, quarantenne tunisino in attesa di giudizio, c’è scritto: «Dopo aver assunto imprecisati quantitativi di metadone con altri detenuti della sezione, perde conoscenza. Alcuni dei presenti tentano di rianimarlo, prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale della polizia penitenziaria».
Per Chouchane Hafdeh, un connazionale di 36 anni, prossimo a uscire per fine pena, le indicazioni sono simili: «Dopo aver assunto quantitativi di metadone perde conoscenza. Altri detenuti tentano di rianimarlo prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale di polizia penitenziaria». Le due consulenti della procura di Modena dopo l’autopsia confermano che l’uomo – l’orario e il luogo preciso ancora non si conoscono – è morto per edema polmonare acuto, con insufficienza respiratoria, presumibilmente provocato da una intossicazione da metadone.
«Si dice che detenuti ignoti – rileva l’avvocato dei familiari, Luca Sebastiani – hanno consegnato Hafedh agli agenti della polizia penitenziaria, che a loro volta lo hanno affidato ai sanitari. I reclusi non erano mascherati eppure sono rimasti ignoti, come se fosse impossibile riconoscerli. Dai pochi atti che girano – ipotizza il legale – non sembra che sia proceduto alla loro identificazione, seppur necessaria ai fini investigativi. Invece andavano individuati e sentiti a verbale, per ricostruire meglio l’accaduto e anche dal loro punto di vista, fondamentale». La procura di Modena – per ammissione del procuratore reggente, Giuseppe di Giorgio – non ha chiesto neppure di procedere all’identificazione dei reclusi che viaggiarono assieme ai quattro compagni di Modena morti durante o dopo il trasferimento ad Ascoli, Parma, Alessandria, Verona. Sono stati sentiti a verbale unicamente i cinque ragazzi che a fine novembre hanno firmato un esposto per denunciare spari, pestaggi, abusi e l’omissione di soccorso di Salvatore “Sasà” Piscitelli, un pesantissimo atto di accusa per cui si cercano riscontri o smentite. Gli investigatori della squadra Mobile non sono riusciti a identificare i due stranieri che in estate hanno mandato lettere a due giornaliste, con testimonianze altrettanto inquietanti. Troppo complicato? I compagni di viaggio erano appena 40, non 400, e i non italiani ancora di meno. «Se e quando arriveranno altre segnalazioni – promette Di Giorgio – le approfondiremo e convocheremo chi le ha scritte. Già subito dopo la rivolta – ricorda – erano pervenute due denunce su presunti maltrattamenti, prese accuratamente in considerazione».

Il rimpallo del fascicolo
Il fascicolo sulla morte di Sasà Piscitelli inizialmente era stato aperto ad Ascoli, dove il quarantenne saronnese era spirato, in ospedale (secondo la direzione del carcere e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) oppure in cella (secondo i compagni, nessuno dei quali però ha competenze mediche). La procura di Ascoli, disposta l’autopsia, mesi dopo ha mandato gli atti alla procura di Modena, ipotizzando che le cause del decesso andassero cercate a monte e quindi durante la rivolta (spaccio di metadone e psicofarmaci, pare di capire). I cinque autori dell’esposto hanno scritto alla procura generale di Ancona (competente anche per Ascoli) e qui di nuovo si è ritenuto che la competenza fosse modenese. Il rimpallo è continuato. I sette fogli compilati dai denunciati sono stati spediti nella cittadina emiliana. Il procuratore reggente e le due PM titolari delle indagini su rivolte e decessi – tutte al momento contro ignoti – hanno sentito a verbale i sottoscrittori della denuncia e poi ripassato la palla ad Ascoli. «Secondo noi – accenna il procuratore reggente. Di Giorgio – le gravi condotte segnalate dai detenuti potrebbero essere avvenute lì e aver causato il decesso, cosa che è tutta da verificare, a fronte di dichiarazioni contrastanti. Speriamo che non ci rimandino di nuovo indietro il fascicolo». Non è dato sapere se il via vai di carte e inchieste riguardi anche le tre vittime di Parma, Alessandria e Verona. Queste persone sono state trattate con correttezza e adeguatamente assistite? Le hanno visitate, prima di spostarle? O c’è da andare a fondo, come per Sasà? Su di loro non si sa ancora nulla, se non il nome, l’età, l’origine, la posizione giuridica.

«Indagini carenti e lacunose»
“la Repubblica” ha avuto accesso alle carte dell’inchiesta sulla morte di Haitem Kedri, gli atti depositati dalla PM Manuela Cavallo assieme alla richiesta di archiviazione del fascicolo, aperto e chiuso contro ignoti, per il reato di morte come conseguenza di altro delitto (mai specificato dalla magistrata). L’uomo è stato trovato senza vita in una cella del carcere di Bologna, la mattina dopo la fine della rivolta e il saccheggio degli armadi con gli psicofarmaci. Nel plico all’esame del GIP Alberto Gamberini – meno di 200 pagine – ci sono l’autopsia, il diario clinico dell’uomo, le relazioni di servizio della polpenitenziaria, la testimonianza del compagno di cella e poco altro. Si nota più quello che manca. La sostituta procuratrice si è limitata a disporre i rilevi nella stanza del decesso, affidandoli agli stessi agenti del carcere e non a una forza di polizia esterna, e a disporre la perquisizione della stanza. Sono saltate fuori 103 pasticche, troppo tardi. La PM non ha ritenuto di far convocare e sentire i medici di servizio nella casa circondariale e il collega del 118 che ha constatato il decesso, firmando la certificazione con uno sgorbio. Non sono stati identificati i detenuti che andarono a chiedere di Kedri. Ai poliziotti e al personale sanitario nessuno ha formalmente chiesto perché la cella piena di pillole letali non venne perquisita prima (se così è stato, perché manco la direttrice lo sa), a fronte della razzia di medicinali pesanti. Non si sono fatti approfondimenti sulle linee guida regionali che disciplinano la custodia di psicofarmaci e metadone. E non si è andati a vedere perché Kedri non sia stato visitato dopo la rivolta e il saccheggio di flaconi e pillole, nonostante fosse un soggetto con non pochi problemi e a rischio medio di suicidio. Lo ha stroncato un mix di metadone e medicinali strong, in parte previsti dalla terapia che seguiva e in parte rubati, probabilmente nemmeno da lui. Il medico legale che ha effettuato l’autopsia esclude azioni dolose, propende per una dinamica accidentale, arriva a non escludere il suicidio. Però un mese prima, è annotato nel diario clinico, il detenuto «era sereno e disponibile al dialogo» e giurava di non avere alcuna intenzione di togliersi la vita, monitorato da una psicologa. La salma, diversamente da altre, non è stata cremata. È finita in un piccolo cimitero. L’ufficio del Garante nazionale dei detenuti, che per tempo si era dichiarato persona offesa, non ha ricevuto l’avviso della fissazione dell’autopsia ed è rimasto tagliato fuori. A luglio, attraverso un legale, si è opposto alla richiesta di archiviazione. Le indagini sulla fine tragica di Kedri – sottolinea la memoria allegata agli atti – sono state carenti e lacunose e l’ipotesi del suicidio non è avvalorata da verifiche mirate.

Le scelte del garante
L’ufficio nazionale del Garante dei detenuti si è dichiarato persona offesa in tutti i procedimenti aperti. Non ha avuto il tempo o il modo di nominare un medico legale che assistesse alle autopsie dei 13 morti. In seconda battuta ha scelto di affidarsi alla dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologa nota anche fuori dai confini italiani, Ma è anche l’esperta che ha firmato la contestata perizia su Stefano Cucchi. Perché è stata designata proprio lei e per altri detenuti morti in circostanze tutte da chiarire? Alle domande di chiarimento de “la Repubblica”, il Garante Mauro Palma ha così spiegato: «L’ho scelta perché aveva uno spessore internazionale: a Lampedusa ha fatto uno straordinario lavoro per l’identificazione dei migranti morti in mare. E non sapevo, come mi hanno fatto notare, che era stata lei a firmare la prima perizia sul corpo di Stefano Cucchi. Quella in cui non ci si accorse del pestaggio».
Le regioni restano nell’ombra
La medicina penitenziaria, la medicina d’urgenza e il trattamento delle tossicodipendenze sono di competenza delle regioni. Dieci persone chiuse in carceri emiliane hanno perso la vita (sei nei confini regionali, tre fuori), tre sono morte in Lazio. Eppure, le Regioni interessate (anche Veneto e Piemonte, per due decessi post rivolta) non hanno mai dato conto di eventuali approfondimenti e dovuti accertamenti amministrativi, né di valutazioni su comportamenti e scelte del personale sanitario di servizio negli istituti e all’esterno.

* Giornalista