Riceviamo e pubblichiamo da Assemblea permanente contro il carcere e la repressione, esprimendo ai compagni e alle compagne indagat* la nostra massima solidarietà

SIAMO SPIACENTI: continueremo a fare apologia della ribellione e ad oltraggiare l’oppressione

Alcuni giorni fa, una compagna e un compagno hanno scoperto di essere nuovamente
indagat* per istigazione a delinquere-apologia (art. 414 c.p.) e diffamazione (art. 595 c.p.)per   alcuni   contenuti   della   trasmissione   radiofonica Zardins   Magnetics, realizzata   dalla nostra Assemblea e messa in onda ogni giovedì alle 20.00 su Radio Onde Furlane. Si tratta dell’ennesimo attacco poliziesco e giudiziario alle attività dell’Assemblea tramite accuse basate su reati definibili come “d’opinione”. Infatti, la compagna e il compagno sotto indagine stanno già subendo un processo, per i medesimi reati, presso il tribunale di Udine per vari interventi a manifestazioni e un’intervista radiofonica nel 2019.  Analogamente, una compagna sta subendo ben tre processi a Trieste per imputazioni di istigazione e oltraggio, per vari interventi sotto il locale carcere. Pare che le Digos e le procure di Udine e di Trieste vogliano farci pesare penalmente ogni nostra parola che, superando la sterile libertà di indignarsi, rivendichi la libertà di lottare. E così, tanto per fare degli esempi dei nostri capi di accusa, affermare che è giusto colpire con l’azione diretta chi (veramente) istiga al razzismo e alla guerra tra poveri, come la Lega, diventa  istigazione  a  delinquere.   Dire   che   la   malasanità   in   carcere   è   tortura   e   dunque denunciare   come   torturatori   i   medici   che   se   ne   fregano   dei/delle   detenut*,   diventa diffamazione. Raccontare ad un presidio presso un carcere di una rivolta accaduta in un altro carcere, diventa anch’essa istigazione. Gli orizzonti miseri del diritto borghese si rivelano appieno. Con le nostre parole, infatti, non vogliamo spingere nessuno a fare nulla, né intendiamo sporcare il nome di chicchessia che non sia già sporcato dal suo ruolo e dalle sue azioni. Vogliamo invece valorizzare -questo sì – la ribellione e le lotte che inevitabilmente sorgono, senza bisogno di fantomatici istigatori o istigatrici, dall’oppressione. Riconosciamo in quest’ultima l’unica vera istigatrice alla ribellione, aldilà di tutti gli incubi di una pace sociale totalitaria da parte dello Stato e delle classi dominanti. Nel nostro piccolo, noi siamo parte di questa ribellione e lotta inestinguibile. Siamo, ad esempio, stat* al fianco dei detenuti del carcere di Udine, quando ci hanno denunciato la loro condizione di malasanità. Così come delle detenute del Coroneo di Trieste, quanto hanno  rivendicato sanità,  salute  e  libertà  nel  pieno  dell’attuale   epidemia.  Siamo  stat* e saremo al fianco delle prigioniere anarchiche e dei prigionieri anarchici, rinchius* nelle galere perché lottano per distruggerle. Pensiamo che sia la nostra pratica in tal senso, più che le parole in sé, a voler essere colpita con questi procedimenti. Si sforzino pure i nostri inquisitori di centellinare ogni parola   per   darvi   un   “rilievo   penale”.   Noi   continueremo   a   dire   quello   che   pensiamo   e soprattutto a praticare l’appoggio e la solidarietà a chi si ribella, lottando contro il carcere e resistendo alla repressione.

Udine-Trieste, 1°aprile 2021

Assemblea permanente contro il carcere e la repressione

liberetutti@autistiche.org

https://www.facebook.com/radiazioneinfo/

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera di Fabiola De Costanzo: “vietato fare attività politica in carcere”, anche solo con delle foto

Torino 22\3\21

Ciao, ho ricevuto la vostra lettera ma dei sette fogli me ne hanno dato solo 1, il primo, il resto è al casellario. La motivazione è stata che “non si può fare attività politica in carcere” e dunque all’ufficio comando mi hanno solo fatto dare uno sguardo alle foto. Credo sia parte del “MONITORAGGIO DEL NUCLEO INVESTIGATIVO CENTRALE” a cui sono sottoposta, del resto la direttrice aveva anche chiesto la censura ma il magistrato di sorveglianza l’ha rigettata.

Il 7/3 abbiamo fatto, nella sez. III, un minuto di silenzio anticipato da questo testo: “l’anno scorso, con l’inizio del lockdown, le condizioni carcerarie peggiorarono ulteriormente. I colloqui furono interrotti, anche con l’avvocato e tutte le attività sospese. I detenuti di M. Opera, M. S. Vittore, Pavia, Modena, Bologna, R. Rebibbia e Foggia si rivoltarono e grazie a loro chi sta fuori si rese conto di quanto potesse essere difficile il quotidiano in carcere. Oggi facciamo un minuto di silenzio per ricordare 14 di loro che in quelle rivolte sono morti, dopo essere stati oltraggiati e picchiati. Ringraziamo anche chi ha avuto il coraggio di dar voce a chi purtroppo non ne ha più, facendo emergere cosa in quei giorni sia realmente accaduto e che le amministrazioni carcerarie e i media hanno cercato di occultare”.

All’incirca dieci giorni fa abbiamo scritto una lettera alla direttrice raccogliendo le firme anche della II sez chiedendo una chiamata in più alla settimana, visto che siamo nuovamente in lockdown e non facciamo colloqui, oggi ci ha risposto dandoci 2 chiamate in più al mese, anche videochiamate che durano un’ora.

Vi saluto esprimendo tutta la mia solidarietà per le donne e le/i compagne/i rinchiuse/i nelle galere di stato, per le compagne/i arrestate/i durante la manifestazione a Barcellona negli scontri contro la sbirraglia, per l’arresto del rapper Pablo Hazel.

La mia solidarietà va anche i ragazzi/e della periferia di Torino che sono stati/e arrestati/e per la manifestazione che si tenne per l’appunto a Torino contro la chiusura data dal lockdown, in cui furono rotte le vetrine e derubato il contenuto di alcuni negozi di lusso.

LIBERTÀ PER TUTTE E TUTTI

Fabiola

 

Qui sotto le foto incriminate

Riprendono le mobilitazioni contro carcere e repressione

A Torino, oltre all’appuntamento settimanale del giovedì, promosso dalle Mamme in piazza per la libertà di dissenso davanti al carcere delle Vallette, si terrà per sabato 3 aprile un nuovo presidio, sempre alle Vallette

Settimana densa di appuntamenti a Roma , con presidio giovedì 8 aprile davanti l’aula bunker di Rebibbia in sostegno ai 54 detenuti sotto processo per la rivolta del 9 marzo 2020, venerdì 9 aprile in via dei Volsci, sotto la sede di Radio Onda Rossa, per ricordare Salvatore Ricciardi, compagno che ha lottato dentro e fuori le carceri fino all’ultimo respiro, domenica 11 aprile con presidio a microfoni aperti davanti alla sezione femminile di Rebibbia (pratone), in solidarietà alle detenute. Ad oggi si parla infatti di 40 donne contagiate e sono le stesse detenute a raccontare del mancato ricovero per chi è in gravi condizioni, della mancanza di mascherine e di tamponi, dell’isolamento totale cui sono costrette tra la chiusura dei colloqui e l’obbligo di stare in cella 24 ore su 24. 20 detenute sono inoltre sotto indagine per una protesta avvenuta il 9 marzo scorso nella sezione femminile.

A Cuneo presidio il 10 aprile in solidarietà ai reclusi del Cerialdo, che stanno affrontando un inasprimento repressivo nel silenzio complice di tutta la cittadinanza

A Cagliari, oltre all’appuntamento settimanale del giovedì davanti al Tribunale, promosso dalle Madri Contro la repressione – Contro l’operazione Lince, si terrà il 15 aprile, sempre davanti al Tribunale, un presidio indetto da A Foras – Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna, in solidarietà con indagat* dell’operazione Lince.

Il 15 aprile infatti potrebbe andare in scena il primo momento decisivo nel procedimento giudiziario legato all’operazione Lince. 45 indagate e indagati, tutte componenti a vario titolo del movimento che lotta contro l’occupazione militare della Sardegna, andranno infatti incontro alla seconda parte dell’udienza preliminare in cui verrà deciso il futuro del processo. Si capirà se ci saranno rinvii a giudizio e, nel caso, quanti, a carico di chi e per quali reati. Si capirà soprattutto se il GUP accoglierà o meno il teorema della pubblica accusa, che ipotizza una rete con finalità terroristiche dietro le mobilitazioni che hanno raccolto migliaia di sardi e sarde davanti ai poligoni militari negli ultimi 6 anni.

Sul processo per la rivolta al Cas ex caserma serena di Treviso

Il 1 aprile è cominciato a Treviso il processo relativo alla rivolta all’ex caserma serena (centro di accoglienza straordinaria) scoppiata a giugno 2020 a causa delle misure covid imposte ai richiedenti asilo che lì vivevano, misure volte a sequestrarli dentro, costringendoli a perdere il lavoro senza neanche una reale tutela della loro salute. Contro Amadou, Mohammed e Abdourahmane l’accusa è di devastazione e saccheggio e sequestro di persona. Fin dall’inizio di questa vicenda, l’accanimento contro chi ha partecipato alla rivolta è stato continuo, a più livelli, dai giornalisti e le istituzioni locali fino al Ministero dell’Interno, che a ottobre ha ordinato di trasferirli tutti in sorveglianza particolare in tre carceri diverse. Accanimento, repressione e violenza che in tutti i loro passaggi e le loro forme, dalle condizioni di accoglienza alla detenzione, hanno ucciso Chaka il 7 novembre scorso nel carcere di Verona.
Non possiamo dimenticare la morte di Chaka, non possiamo lasciare solo chi ha lottato. La repressione sempre più forte che colpisce tutte e tutti noi è ancora più feroce e quotidiana contro chi è immigrato e rischia di perdere un documento o non ottenerlo mai più.
L’invito è a sostenere gli arrestati, a far loro sentire la nostra vicinanza anche nelle prossime fasi del processo. Abdourahmane è agli arresti domiciliari, Amadou e Mohammed sono ancora in carcere ed è possibile scrivere loro ai seguenti indirizzi:
Mohammed Traore
Via S. Bona Nuova 5/b
31100 Treviso (TV)
Amadou Toure
Via B. Dalla Scola 150
36100 Vicenza (VI)
Tutti liberi e tutte libere!
Documenti per tutti/e!
Repressione per nessuno/a!

Torino – ancora ‘carcere assassino’ e i responsabili guardavano la partita

Cronaca in carcere di un suicidio annunciato: sul monitor di sorveglianza gli agenti guardavano la partita

Roberto Del Gaudio, detenuto da controllare a vista, si è impiccato con i suoi pantaloni del pigiama: 12 minuti di buio durante Juve-Milan
Dodici minuti per morire indisturbato, impiccato ai pantaloni del pigiama, in una cella del Sestante della Vallette, braccio dei detenuti a rischio di atti di autolesionismo dove l’immagine di un girone dantesco non appare poi metafora troppo azzardata.

Non per il fratello dell’uomo ripreso, fermo immobile, con il cappio intorno al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta per quei dodici interminabili minuti, prima che nella cella entri un primo agente della polizia penitenziaria e si renda conto di che cosa è accaduto mentre chi doveva sorvegliare era distratto altrove. “Sei colpevole e lo Stato ti manda lì, ma è solo una finta pena di morte”: dice con amarezza Giuseppe Del Gaudio, come rassegnato a questo tragico epilogo. Che Roberto, suo fratello, aveva ucciso la moglie, e la sua fine non solleva pena né indignazione.


Quei pantaloni glieli aveva portati lui senza poter immaginare che uso ne avrebbe fatto il 10 novembre 2019. E adesso vuole poter vedere le immagini crude di quella sera, quando mezza Italia era davanti alla partita tra Juventus e Milan, e Roberto Del Gaudio rinchiuso nella cella meditava come farla finita rannicchiato su una squallida brandina. Quelle immagini hanno incastrato i tre agenti della polizia penitenziaria che non avrebbero dovuto perderlo di vista nemmeno per un secondo. E che si sospetta, a quella partita non abbiano voluto rinunciare.
Sono le 21.05 quando Del Gaudio si raggomitola sotto la coperta scura che gli hanno lasciato e toglie i pantaloni del pigiama. Sono pantaloni lunghi, del tipo che un detenuto come lui non dovrebbe avere perché è considerato ad alto rischio di suicidio. Ha ammazzato la moglie tre mesi prima, è in cura per problemi psichici, e il giorno successivo deve incontrare lo psichiatra per la perizia che dovrà stabilire la sua capacità di intendere e volere, dunque anche il suo destino processuale.
In quello stesso momento, 21.05, Juventus-Milan è al quindicesimo del primo tempo, occasione per Higuain dopo un passaggio di Ronaldo. Sono le 21.37 quando le telecamere inquadrano le gambe di Del Gaudio senza pantaloni. Qualcuno dei tre agenti dovrebbe accorgersene. Ma l’arbitro ha fischiato l’intervallo e nelle interviste tra primo e secondo tempo il dirigente bianconero Fabio Paratici sta annunciando il rinnovo di Cuadrado fino al 2022.
Alle 22.28 Del Gaudio si siede sul bordo del letto e ha già il cappio attorcigliato al collo, fatto con il pigiama, lo aggancia all’angolo battente della finestra. Stesso minuto, un’altra stanza: Calhanoglu tenta di recuperare al gol di Dybala di quattro minuti prima. In campo sono fasi concitate mentre nella cella si sta per consumare il dramma di Roberto Del Gaudio. Alle 22.29 si lascia cadere dal letto e resta appeso alla finestra. Nessuno se ne accorge fino alle 22.41 quando le telecamere registrano l’ingresso del primo agente nella cella.
Bisogna tornare indietro, ma solo di 60 secondi per assistere al fischio finale. Appena il tempo utile a estrarre la scheda di Sky dal monitor e riattivare le immagini in diretta. Non dal campo ma questa volta dalla cella del detenuto. Il suo corpo penzola a pochi centimetri da terra. “Dodici minuti di buco sono un’eternità – commenterà il direttore del carcere parlando con Pietro Buffa il giorno dopo – hanno fatto una minchiata grossa”. Non c’è più nulla da fare.
La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio dei tre agenti che erano in servizio quella sera nella settima sezione del reparto psichiatrico Sestante, Giuseppe Picone, Vittorio Cataldo e Marco Spinella. Il 5 maggio inizierà il processo nel quale i pm Francesco Pelosi e Giulia Marchetti hanno contestato loro l’omicidio colposo e la negligenza per non aver tenuto sotto costante osservazione Del Gaudio.
A uno di loro hanno contestato anche il falso, per aver dichiarato che il monitor si è staccato da solo dalla staffa nel muro, versione palesemente contraddetta da una perizia tecnica. E le intercettazioni del nucleo di polizia penitenziaria sono una rassegna di tentativi di depistaggi e distruzione di prove. “Se devono fare la cosa se la devono sudare… (risata) Vaffanculo se ci dovete inc… almeno dovete sudarla” – e si affannano a crearsi degli alibi cercando di anticipare, nella ricostruzione dei tempi, il guasto del monitor.
Che fossero davanti alla partita quando Roberto Del Gaudio si impiccava è rimasto un sospetto senza prova tanto che gli inquirenti non ne hanno fatto parola nel capo di imputazione. Ma è nella coincidenza chirurgica dei tempi che gli indizi si rafforzano. C’è un’intercettazione dell’11 novembre in cui due colleghi parlano tra di loro della tragedia. “Ma come hanno fatto in tre”, “Eh, indovina”, “Cosa c’era ieri sera?”, “Juve-Milan”, “E lì dentro si vede?”, “Lo vedono sì, si portano le schede e si vedono la partita. E vabbè, non lo diciamo questo”.
“Aspettiamo che si faccia giustizia – commenta l’avvocato Riccardo Magarelli, che assisteva Del Gaudio per l’omicidio e ora assiste il fratello come parte civile in questo nuovo processo – Ma restiamo basiti dal clima di totale omertà che emerge dagli atti e dal tentativo di autoassolversi. Ci sono dati e orari oggettivi e solo con una forzatura si può pensare che siano coincidenze”.

Focolaio nel femminile di rebibbia

Nella sezione femminile del carcere di Rebibbia c’è un vero e proprio focolaio di Covid-19.

Dopo aver saputo che i pacchi e i colloqui erano stati sospesi, il 27 marzo alcune persone hanno portato un saluto di affetto e solidarietà alle detenute per ascoltare dalla loro voce com’era la situazione all’interno e come stavano.

Le donne hanno risposto raccontando che la sezione”Cellulare” (che si affaccia sul parco) era stata chiusa proprio quel giorno: in cella h24, niente più pacchi né colloqui. Nella sezione “Camerotti”, invece, queste misure erano state già prese da una settimana.

Hanno parlato della scarsità di mascherine e del ritardo nell’effettuare i tamponi.

Le persone contagiate si trovano attualmente nelle celle d’isolamento al primo piano; sembra che nessuna di loro sia in ospedale e, a quanto ci dicono, il ricovero è stato negato anche ai casi più gravi.

A tutto questo si aggiungono le costanti minacce di sanzioni disciplinari se mettono in atto azioni di protesta come la battitura o interagiscono con le persone solidali all’esterno per raccontare quello che succede dentro.

Esasperate dalla condizione che vivono in carcere, arrabbiate per il fatto di non poter più vedere le persone care, preoccupate per l’altissima diffusione del contagio e le scarsissime misure preventive messe in atto, le donne detenute ci chiedono la massima diffusione di questa situazione.

Chiedono, come dall’inizio della pandemia, amnistia e indulto!

Non lasciamole sole, non lasciamo che cada il silenzio sulle loro voci.

L’unica sicurezza è la libertà

Assemblea parenti e solidali delle persone detenute