L’8 marzo del 2020 è una domenica, l’aria è primaverile come la stagione alle porte che nessuno si godrà. Il fumo che si alza da quella terra di nessuno, da quel limbo appena oltre la tangenziale proprio dietro alla Sacca, è nero e carico di presagi. Il carcere di Sant’Anna è in rivolta. Una tragedia annunciata. Una tragedia che si compirà sotto gli occhi di tutti e nel più vile tra i silenzi, quello che solo l’opportunismo più provinciale è in grado di partorire. E la città di Modena, nonostante tutta la sua ostentata propensione internazionale votata al turismo e all’ “eccellenza” manifatturiera, è esattamente ciò: provincia.
Sono giorni particolari, la pandemia è agli inizi, le scuole sono già chiuse da due settimane in alcune regioni, la Lombardia e altre 14 province stanno per diventare “zona arancione” e la sera del 9 marzo il presidente del consiglio Giuseppe Conte annuncerà il lockdown. Nei mesi successivi, da più parti, verrà tirata in ballo anche la democrazia, o meglio la sua assenza, per via delle forti limitazioni imposte alla libertà personale inflitte a colpi di decreti. Nell’immaginario medio italiano il cittadino verrà confinato agli “arresti domiciliari”, un infelicissimo paragone che si svilupperà parallelamente al più totale disinteresse per le sorti delle persone realmente private della libertà. Visti in questo senso, tutti quei grandi discorsi riguardanti la “democrazia ferita” avrebbero potuto trovare effettivamente assonanza proprio in quanto stava accadendo quei primi giorni di marzo all’interno di quelle celle, quasi come avvisaglie di incubi passati tornati a declinarsi brutalmente nelle istituzioni totali del presente.
C’è chi ha sostenuto che quanto avvenuto a marzo nelle carceri sia una sorta di “rimosso”, di delitto fondativo del “nuovo ordine” pandemico in Italia e che, come tale, debba rimanere in qualche modo segreto, celato dietro a muri invalicabili. E per dare un’idea delle dimensioni di questo “rimosso” basta dire che, a distanza di un anno, non è ancora chiaro e definitivo il numero delle vittime della strage che si stava compiendo in quei giorni nelle carceri italiane.
Sulla stampa si leggono ancora cifre altalenanti, a volte i morti sono 13, a volte 14, a seconda di chi scrive e del testo che si cita perché di informazioni ufficiali su questa storia ne sono uscite davvero poche. Nove a Modena, uno o due a Bologna e tre o quattro a Rieti. I nomi stessi delle vittime sono emersi solo grazie all’impegno di volontari, associazioni e giornalisti che li hanno raccolti e pubblicati perché dalle stanze ermetiche del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e del Ministero di Giustizia non era uscito nulla di ufficiale. Anche questi piccoli dettagli dovrebbero già essere eloquenti e far riflettere, oltre che definire i contorni di quel “rimosso” che è materia principale di questo dossier.
La pandemia è globale e nelle carceri di tutto il mondo si accendono rivolte legate agli effetti devastanti che il Covid-19 potrebbe avere su prigioni sovraffollate e con scarsissima vigilanza sanitaria. Migliaia di detenuti in tutto il pianeta vengono rilasciati per evitare un’inutile strage, anche paesi come la Turchia (90.000) e l’Iran (70.000) lo fanno. In Italia, invece, l’ipotesi non è nemmeno presa in considerazione e quando cominciano a circolare le voci dei primi contagi all’interno delle carceri, nei penitenziari italiani si comincia a protestare.
Le prime rimostranze per la gestione dell’epidemia avvengono proprio dentro a quelle celle e in due soli giorni produrranno 13 o 14 morti. Sui media del Paese, al contrario, va affermandosi un coro unanime che imbocca l’italiano medio sulla suggestione di una “regia esterna” dietro alla rivolta (anarchici o mafiosi a seconda della testata) come se quanto avviene contemporaneamente nel resto del mondo non avesse alcuna rilevanza.
In fin dei conti, anche l’Italia stessa, nonostante il suo “ingegno” e le sue “eccellenze” “riconosciute in tutto il mondo”, è un Paese provinciale, il quale non ha esitato un solo istante a mostrare il “pugno duro” e a far scattare rappresaglie verso persone, private della libertà, che in fin dei conti domandavano soltanto di non essere abbandonate al virus e attenzioni sanitarie. L’8 marzo 2020, fuori dal carcere di Sant’Anna, i familiari dei detenuti accorsi per capire cosa stesse succedendo, dopo aver visto una fumana nera salire in cielo e macchiare l’orizzonte della città, spiegavano e ripetevano proprio questo.
Perché è vero, era in corso una rivolta, una dura rivolta da parte della popolazione carceraria, ma quasi nessuno ha riportato le motivazioni che stavano alla base di quanto stava accadendo, eppure la piccola folla che si era precipitata angosciata nel piazzale antistante al Sant’Anna le conosceva perfettamente.
Chiunque poteva dirti che la sospensione dei colloqui con i familiari per via del Covid, e l’interruzione di tutte le attività con educatori e psicologi potevano essere interpretate facilmente come la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso: “Nessuno, in questa situazione di emergenza, si è reso conto di quanto questi provvedimenti abbiano pesato sulla condizione già difficilissima vissuta dai detenuti”1. Sono le voci dei parenti dei detenuti presenti nel piazzale a raccontare le condizioni dei propri cari rinchiusi all’interno del penitenziario. Solo tre giorni prima della rivolta, infatti, il 5 marzo, il ministero della Giustizia aveva proibito le visite a causa del coronavirus mentre il giorno successivo, il 6 marzo, veniva trovato il primo positivo tra le fila della polizia penitenziaria.
Ma quella domenica pomeriggio il tempo scorre in una maniera differente, in un clima surreale. Come documenterà il giorno successivo il Resto del Carlino, fuori dal Sant’Anna si ammassano i reparti antisommossa arrivati da Bologna e Milano, poi i vigili del fuoco con 8 automezzi, la polizia municipale, la protezione civile e i militari, in un dispiegamento di forze imponente ma che non è in grado di rispondere nemmeno una volta alle legittime domande dei familiari accorsi fuori dall’istituto e che si stanno interrogando sullo stato di salute dei loro cari. Solo verso le 17 un graduato della polizia penitenziaria proverà a rassicurare le famiglie: “La situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non dalle celle che non sono state intaccate durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura”.
Eppure i familiari sono arrabbiati, non si fidano, e la loro sfiducia non si placa di certo verso sera quando arrivano di decine di pullman della polizia penitenziaria per trasferire i detenuti e spargerli fra le carceri della penisola. Nemmeno la rabbia si placa, soprattutto quando i pullman si mettono a sfrecciare a tutta velocità fra la folla (una donna accusa anche un malore dopo aver rischiato di essere investita) o quando i familiari osservano impotenti la scena del pestaggio di alcuni detenuti già ammanettati prima di essere caricati sui veicoli per chissà quale destinazione.
Una vista, questa, ben presto coperta da altri autobus posizionati abilmente di fronte all’ingresso, in modo tale da impedire ogni sguardo ai testimoni assiepati all’esterno. Il giorno successivo, sulla stampa cittadina, si potrà leggere invece di “eroi”, di “agenti feriti” e di “fobia” del virus. Ma, soprattutto, si potrà già leggere la causa di quei decessi che di lì a poche ore sarebbero saliti fino alla tragica cifra di nove morti. Quella “overdose” che, nei giorni successivi, si ripeterà, come un mantra di telegiornale in telegiornale, di articolo in articolo, di bocca in bocca, diventando così verità già acquisita e percepita ancora prima di qualsiasi parola ufficiale.
Parole ufficiali che arriveranno tre giorni dopo, l’11 marzo, col ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede che riferirà della situazione in aula semivuota del Senato:
Permettetemi innanzitutto di ringraziare la Polizia penitenziaria e tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria (Applausi), perché ancora una volta stanno dimostrando professionalità, senso dello Stato e coraggio nell’affrontare, mettendo a rischio la propria incolumità, situazioni molto difficili e tese, in cui ciò che fa la differenza è spesso la capacità di mantenere i nervi saldi, la lucidità e l’equilibrio nell’intuire e scegliere in pochi istanti la linea di azione migliore per riportare tutto alla legalità. Mi piace sottolineare che in tutti i casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le Forze dell’ordine sono intervenuti senza esitare, rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando. […] Il bilancio complessivo di queste rivolte è di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini.
Dodici morti dunque, “per lo più riconducibili all’abuso di sostanze” con quella formula “per lo più”, che già allora, a tre giorni dalla strage, lasciava poco spazio ai dubbi. E in città le cose non vanno affatto meglio. Nessuno parla, nemmeno l’ultimo dei consiglieri comunali oserà rompere la cappa di silenzio. Solo verso la serata di lunedì (9 marzo), quando il conto delle vittime era già salito a sei, il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, si degnerà di commentare l’accaduto, esprimendo un’immediata solidarietà alle Forze dell’ordine e ammonendo lapidario: “chi fa polemiche non dimostra senso dello Stato”2.
In città a regnare è soltanto un silenzio dei più eloquenti. Dai giornali si apprende che cinque detenuti sono morti a Modena, mentre per altri quattro l’agonia si sarebbe protratta per ore, durante il loro trasferimento nelle carceri di Parma, Alessandria, Trento ed Ascoli. Ghazi Hadidi, 35 anni, morirà all’altezza di Verona sulla strada per Trento, Ouarrad Abdellah 34 anni, ad Alessandria, gli restavano da scontare meno di due anni per reati legati al piccolo spaccio, Artur Iuzu 31 anni, era invece diretto a Parma e in attesa del primo grado di giudizio e Salvatore Cuono Piscitelli, di 40 anni, morto ad Ascoli che sarebbe stato scarcerato in agosto.
Nel carcere di Modena invece perdono la vita Ariel Ahmadi di 36 anni, padre di una ragazzina di 12 e che sarebbe tornato in libertà nel gennaio del 2022, Agrebi Slim, quarantenne, anch’esso con una figlia, Hafedh Chouchane, 36 anni a pochi giorni dalla scarcerazione, Ben Mesmia Lofti, di 40 anni e Alì Bakili cinquataduenne. I nomi delle vittime però si sapranno solamente 10 giorni dopo, pubblicati sul Corriere della Sera dal giornalista Luigi Ferrarella, mentre le poche informazioni a riguardo saranno raccolte dalla giornalista Lorenza Pleuteri in un articolo apparso su giustiziami.it il 3 aprile e in un approfondimento di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci uscito sul Venerdì di Repubblica lo stesso giorno.
Dalla stampa locale si apprende solo che dei primi si occuperanno le Procure delle città nelle quali sono stati constatati i decessi mentre per i cinque di Modena si parla di “overdose da stupefacenti” per due detenuti, di cause ancora da chiarire per un terzo ritrovato cianotico e di un generico “attacco cardiaco” per un quarto, mentre il quinto non viene nemmeno menzionato. Sempre dalle pagine dei giornali, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, annuncia che “l’intenzione della Procura è di fare immediatamente luce sui decessi; successivamente si indagherà anche sulla rivolta e i danni che ha provocato.”3
Si indagherà per omicidio colposo «contro ignoti» al fine di avviare le prime autopsie sui cadaveri. In città, invece, prosegue il silenzio più assordante rotto solo dall’invettiva del sindaco Muzzarelli infastidito da dei volantini e da delle scritte contro il carcere apparsi sui muri di alcuni quartieri che avrebbero intaccato, a suo dire, il “decoro e dignità alla città”. Dopotutto l’urgenza del primo cittadino è chiara e dichiarata, bisogna ripristinare il carcere (semidistrutto dalle proteste) al più presto “per una questione di sicurezza per la città e per il territorio.”
Se la città è silente, la Regione Emilia-Romagna (che detiene 10 delle 13-14 vittime totali) non è da meno, nonostante abbia competenza in materia di salute, di trattamento delle tossicodipendenze, di custodia del metadone e di sanità penitenziaria.
A rompere la cappa di silenzio, compatta come un fascio littorio sarà, inaspettatamente, l’11 marzo la Camera penale di Modena Carl’Alberto Perroux. Con un comunicato che denunciava la grave assenza della politica, l’associazione sindacale degli avvocati segnalerà:
Le uniche informazioni che abbiamo ottenuto su quei fatti sono quelle fornite dalla Polizia Penitenziaria, giacché l’Autorità Giudiziaria (requirente e di sorveglianza) non ha inteso divulgare notizie di dettaglio sullo svolgersi degli accertamenti. I morti nelle rivolte del carcere di Modena sono saliti a 9, un numero enorme che lascia sgomenti, ancor di più per il fatto che risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione4.
Anche il Gruppo Carcere-Città, prenderà parola, il giorno dopo, con un comunicato stampa ad hoc che non lascia spazio ai dubbi sulle condizioni della struttura alla vigilia della pandemia:
I dati sono allarmanti: con una capienza regolamentare di 369 posti, al 29 febbraio 2020 erano presenti a Modena 562 detenuti e, al 6 febbraio, quattro funzionari della professionalità giuridico-pedagogica e una sola esperta ex art. 80 O.P. per 38 ore mensili. A questo si sommano le responsabilità di chi ostacola la fruizione di misure alternative al carcere per chi ne ha i requisiti5.
Un sussulto di dignità civile in un mare di silenzi e indifferenza. Poi più nulla finché, ai primi di aprile, lontano da Modena, stando a quello che si scoprirà successivamente grazie ad una telefonata registrata e consegnata a giornali e mezzi d’informazione6, 300 agenti della penitenziaria, provenienti dall’esterno entrano “a volto coperto dal casco, da foulard o mascherine, rendendone difficile l’identificazione video” nelle celle del carcere di Santa Maria Capua Vetere per una “perquisizione straordinaria” che sfocerà in “episodi di inaudita violenza; calci, pugni, manganellate e abusi di ogni tipo, perfino su un detenuto disabile”7.
Testimonianze e denunce che sarebbero confermate dai video agli atti dell’inchiesta i quali mostrerebbero immagini di reclusi inginocchiati, trascinati e picchiati da più poliziotti contemporaneamente. Anche in questo caso dal ministero faranno sapere solamente che gli agenti coinvolti rimarranno al loro posto nonostante 44 indagati mentre, in una nota del 6 aprile, il sottosegretario Vittorio Ferraresi commenterà che si era trattato solamente “di una doverosa azione di ripristino della legalità” confermando ancora una volta il “pugno duro” del ministero guidato da Alfonso Bonafede. Anche per il carcere di Foggia, dal quale i diversi detenuti sono evasi, si alzano voci di pestaggi e atti di violenza molto simili a quelli che si sarebbero verificati nell carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, con centinaia di agenti col volto coperto che avrebbero fatto irruzione nelle celle colpendo con pugni e manganelli8.
Modena, Rieti, Santa Maria Capua Vetere, Foggia; ma perché è proprio nelle prigioni di provincia che è scoppiato in forme più virulente l’incendio? Che rapporto c’era tra queste città e le loro prigioni, tecnologiche o vetuste che siano? La rimozione totale? E Modena, in particolare: c’entrano qualcosa le fiamme di Sant’Anna col fatto che ormai da un paio d’anni in questa città si registra un numero inquietante di denunce e rinvii a giudizio per centinaia di cittadini accusati di vertenze sindacali e sociali? Esiste una misteriosa relazione tra la degenerazione del clima “dentro” e “fuori”, ad là e al di qua del filo spinato? Cittadini e detenuti, hanno respirato la stessa aria, sia pur in condizioni drammaticamente diverse?
Queste le domande che, mesi dopo, lo scrittore Giovanni Iozzoli proverà a porre sulla rivista online Carmilla9.
A maggio, invece, la Procura di Modena farà sapere che in base alle risultanze autoptiche i decessi di cinque dei nove morti del carcere di Modena (tutti quelli trovati in loco) erano tutti attribuibili a overdose di metadone e psicofarmaci. Punto. In contemporanea i riflettori mediatici sono tutti rivolti invece al finto scoop di Repubblica sui “boss mafiosi” ai domiciliari che ovviamente non fa altro che accendere il pulsante dell’indignazione rispetto ad un possibile provvedimento “svuota carceri” legato alla pandemia.
Ad agosto, a squarciare la cortina fumogena del silenzio su quanto accaduto nel carcere di Sant’Anna, sarà la pubblicazione di due lettere di detenuti – testimoni (uscite senza firma, su richiesta degli estensori) che raccontano di pestaggi avvenuti nel carcere di Modena durante la rivolta e di altre botte durante e dopo il transito in altre città. Le missive vengono rese note dall’agenzia Agi e dal blog giustiziami.it. Le due giornaliste che le hanno ricevute e pubblicate saranno poi sentite dalla squadra Mobile, come persone informate sui fatti. Il testo racconta abusi e vessazioni, come per il carcere di Santa Maria Capua Vetere:
“Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta.” “Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa. E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce”. Anche il secondo testimone conferma che Sasà stava malissimo, che sul bus era stato picchiato e che quando è arrivato ad Ascoli non riusciva a camminare. “Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato.”
Passano altri mesi e il silenzio intorno alle 13/14 vittime di marzo prosegue la sua azione. Nel Paese non ci si interroga affatto su quelle morti né tantomeno sulle condizioni in cui versano i detenuti nelle carceri italiane mentre in città, per certi versi, va pure peggio, in molti ignorano persino che sia successo qualcosa. Per questo motivo, proprio per cercare di accendere i riflettori su quanto successo in città solo 9 mesi prima, il 7 novembre in Piazza Grande a Modena viene organizzata dal Consiglio Popolare una prima iniziativa pubblica intitolata “Dietro le sbarre: testimonianze e riflessioni sul carcere”. In quella giornata verrà prima letta una lettera dal carcere di Torino di Dana Lauriola, attivista NoTav, condannata a due anni di reclusione solo per aver parlato al megafono durante una manifestazione nella quale non si verificarono incidenti, successivamente si ascolteranno in collegamento telefonico Manuela D’Alessandro e Lorenza Pleuteri, le due giornaliste che per prime avevano pubblicato le lettere anonime denuncianti i pestaggi. Infine si ascolterà la testimonianza di un ex detenuto del carcere di Modena, il quale ribadirà come la richiesta principale dei detenuti, in quel tragico 8 marzo, fosse una richiesta sanitaria:
Modena era per me un concentrato di violenza da parte dello Stato sulla pelle dei detenuti. Soltanto che a marzo è successo qualcosa che andava ben oltre. […] La sanità era un punto fermo delle loro richieste, era uno dei messaggi della rivolta. Questo è un punto fondamentale da dire e da far comprendere alle persone: la sanità. Può essere che qualche detenuto abbia abusato di farmaci, non dico di no, ma è normale quando educhi le persone per anni alla tossicodipendenza. Ovvio, che cosa cerca una persona che sta male e che ha accesso ai farmaci, che gli somministrano ogni giorno, più volte al giorno senza problemi, come fossero biberon? Può darsi che possa essere così. Così come sappiamo che i carabinieri sono andati sul parapetto del carcere e hanno sparato, questa è la realtà dei fatti. Quando non si sa chi di preciso della polizia penitenziaria o dei carabinieri sono entrati dentro, il primo che hanno avuto per le mani lo hanno ammazzato di botte davanti a tutti e hanno detto “Adesso vi facciamo questo”. C’è gente a cui sono arrivati i proiettili vicino alla testa ed è solo per miracolo che non hanno preso il piombo in testa o in altre parti del corpo10.
Il mese successivo, a dicembre, gli abusi già denunciati nelle lettere trovano conferme. Cinque ragazzi firmano un esposto destinato alla procura generale di Ancona. Anche loro parlano di aggressioni fisiche, violenze, spari, torture e di assistenza negata a Salvatore Piscitelli (Sasà) una delle nove vittime di Modena, morto, a detta loro, nel carcere di Ascoli. I cinque denuncianti confermano quanto già raccontato sostanzialmente ad agosto tramite lettera dagli altri due altri detenuti, ossia di pestaggi, di abusi e di mancati soccorsi.
Il 10 dicembre tutti e cinque vengono riportati nel carcere di Modena per essere interrogati dai pm una settimana dopo. A Modena vengono “accolti” in regime d’isolamento sanitario, in celle con vetri rotti (a dicembre) e coperte bagnate. Dopo gli interrogatori tutti e cinque vengono nuovamente trasferiti in posti diversi. Questa volta escono un paio di articoli sulla stampa locale e c’è qualche risonanza a livello nazionale, ma poco più.
Il Dap non commenta, la Procura di Modena, sempre per bocca del procuratore Di Giorgio, si limita a un neutro “si faranno i necessari approfondimenti” e ribadisce, ancora una volta, che le autopsie (delle quali non si sa ufficialmente ancora nulla, tranne che per il ragazzo della Dozza di Bologna) confermerebbero la morte per overdose anche per Piscitelli come per le altre 8, 12 o 13 vittime.
All’inizio del 2021 Repubblica ricapitola le notizie uscite in un dossier multimediale, arricchito con documenti inediti, con stralci delle relazioni di servizio interni e con le pagine di una delle 13 autopsie effettuate, più gli originali delle lettere-denuncia estive.
Un paio di settimane dopo anche la trasmissione televisiva Report si occupa di quanto accaduto nel carcere di Modena nove mesi prima. In questo caso viene mandata in onda la testimonianza di un detenuto che afferma di non aver partecipato alla rivolta, di essere rimasto in cella e di aver trattato direttamente con l’ispettore l’uscita pacifica di tutti i reclusi del suo settore che stavano soffocando dal fumo, ma di aver ugualmente “preso così tante manganellate che il sangue schizzava sulle divise e sui caschi dei poliziotti.”11. Ma la trasmissione della Rai, intrecciando i racconti, oltre a disegnare uno scenario altamente inquietante, viene a conoscenza di come ad operare a volto coperto all’interno delle carceri, in quelle che presumibilmente erano considerate azioni punitive, sia stato un nuovo reparto creato ad hoc dopo le rivolte, il “GIR – Gruppo di Intervento Rapido”.12.
Poco tempo dopo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ignorando volutamente non solo le denunce dei detenuti ma anche le inchieste ancora in corso, dichiara: “La Procura ha accertato che i nove detenuti sono deceduti per l’assunzione di stanze stupefacenti sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti.”13.
Questo dossier raccoglie ciò che pubblicamente è stato detto e scritto sulla strage dell’8 marzo nel carcere di Modena oltre ad alcuni approfondimenti e a tutte le doverose domande che questa terribile vicenda porta inevitabilmente con sé. Purtroppo a un anno di distanza, la situazione nelle carceri italiane sembra non avere prodotto alcuna riflessione. Non solo la possibilità di un’amnistia è ipotesi davvero remota ma sembra che non si riesca ad agire per contenere i contagi nemmeno con gli strumenti a disposizione, ricorrendo ai domiciliari, alle pene alternative e alla scarcerazione anticipiata di chi è ormai prossimo alla fine della pena. Fattori anche questi nient’affatto marginali nel misurare la qualità di una democrazia. Perché quanto accaduto nel carcere di Modena e il silenzio che l’ha circondato sono un messaggio che non può essere ignorato tanto facilmente.
Perché se è vero che lo Stato in quei giorni, ha picchiato, sparato, torturato o omesso anche solo di soccorrere persone detenute considerandole alla stregua della monnezza o dei tossici buoni a nulla (nell’indifferenza totale dell’opinione pubblica, bisogna dirlo) non è detto che un domani non sia pronto ad allargare l’utilizzo di quei metodi anche ad altre fette di società.
Un po’ come ci ricorda quel famosissimo sermone di Martin Niemöller:
Prima vennero…
Il dossier sarà disponibile dal 7 marzo in formato pdf, stampabile e riproducibile in maniera del tutto libera, scaricandolo dalla pagina fb del Consiglio Popolare Modena. Promuoviamo la sua diffusione in ogni ambito.