Soccorso Rosso Proletario

Soccorso Rosso Proletario

Rigettata l’istanza per limitare e controllare la posta di Dana

Da Repubblica

La portavoce No Tav vince il braccio di ferro sulla posta in carcere

La direttrice voleva limitare e controllare la corrispondenza, il giudice le dà torto

di: Cristina Palazzo

12 Febbraio, 2021

Rigettata l’istanza per limitare e controllare la posta per Dana Lauriola. A comunicarlo dal carcere è la stessa attivista NoTav: la richiesta di provvedimento, che di solito si chiede per esigenze di indagini o per ragioni di sicurezza per l’istituto, è stata presentata, come racconta in una lettera inviata dal carcere Lorusso e Cutugno, il giorno successivo all’inizio dello sciopero della fame dalla direttrice della struttura penitenziaria al magistrato di sorveglianza che l’ha rigettata “per mancanza di fatti aderenti”.

L’episodio risale a fine gennaio. Il 21 del mese Dana ha iniziato lo sciopero della fame per porre l’attenzione su una serie di criticità lamentate nella vita in carcere, dove si trova da settembre, e, racconta “i risultati si sono dimostrati da subito concreti e tutte noi stiamo finalmente godendo dei nostri pieni diritti per quanto riguarda i contatti con i nostri familiari”. Solo successivamente ha scoperto che il 22 gennaio, quindi il giorno dopo, era stata avanzata la richiesta del provvedimento, parrebbe, secondo il movimento, per il rischio di propaganda in carcere.

“Mentre sui giornali la Direttrice del carcere, di fatto, riconosceva le nostre ragioni lavorando rapidamente per ripristinare i diritti negati, parallelamente richiedeva al mio magistrato di sorveglianza l’emissione di un provvedimento restrittivo, tipico dell’alta sorveglianza, la cosiddetta “censura””. Ora il timore è che “dopo questo tentativo, dal chiaro intento punitivo da parte della direzione carceraria, mi chiedo se sia finita qui oppure siano vere le voci che circolano circa un mio futuro trasferimento. Vedremo”.

“Si è trattato di un vano ma preoccupante tentativo di comprimere diritti costituzionalmente garantiti in capo a soggetti già ampiamente deprivati – spiega uno dei due legali di Dana, l’avvocata Valentina Colletta – , ma ai quali non può né deve essere negato anche il diritto alla libera manifestazione del pensiero e ad una quantomeno minima agibilità politica”.

Di tentativo punitivo parla anche il movimento NoTav “a cui non siamo disposti ad assistere”, spiegano. La nostra attenzione resta alta e continueremo a monitorare l’andamento di questa ingiusta detenzione perché non si manifestino altri atti simili”.

Verità e giustizia per la strage di Sant’Anna

Pubblichiamo, da carmillaonline, l’Introduzione al dossier sulla strage dell’8 marzo 2020 nella Casa Circondariale di Modena a cura del Comitato Verità e Giustizia per la strage di Sant’Anna.

L’8 marzo del 2020 è una domenica, l’aria è primaverile come la stagione alle porte che nessuno si godrà. Il fumo che si alza da quella terra di nessuno, da quel limbo appena oltre la tangenziale proprio dietro alla Sacca, è nero e carico di presagi. Il carcere di Sant’Anna è in rivolta. Una tragedia annunciata. Una tragedia che si compirà sotto gli occhi di tutti e nel più vile tra i silenzi, quello che solo l’opportunismo più provinciale è in grado di partorire. E la città di Modena, nonostante tutta la sua ostentata propensione internazionale votata al turismo e all’ “eccellenza” manifatturiera, è esattamente ciò: provincia.

Sono giorni particolari, la pandemia è agli inizi, le scuole sono già chiuse da due settimane in alcune regioni, la Lombardia e altre 14 province stanno per diventare “zona arancione” e la sera del 9 marzo il presidente del consiglio Giuseppe Conte annuncerà il lockdown. Nei mesi successivi, da più parti, verrà tirata in ballo anche la democrazia, o meglio la sua assenza, per via delle forti limitazioni imposte alla libertà personale inflitte a colpi di decreti. Nell’immaginario medio italiano il cittadino verrà confinato agli “arresti domiciliari”, un infelicissimo paragone che si svilupperà parallelamente al più totale disinteresse per le sorti delle persone realmente private della libertà. Visti in questo senso, tutti quei grandi discorsi riguardanti la “democrazia ferita” avrebbero potuto trovare effettivamente assonanza proprio in quanto stava accadendo quei primi giorni di marzo all’interno di quelle celle, quasi come avvisaglie di incubi passati tornati a declinarsi brutalmente nelle istituzioni totali del presente.

C’è chi ha sostenuto che quanto avvenuto a marzo nelle carceri sia una sorta di “rimosso”, di delitto fondativo del “nuovo ordine” pandemico in Italia e che, come tale, debba rimanere in qualche modo segreto, celato dietro a muri invalicabili. E per dare un’idea delle dimensioni di questo “rimosso” basta dire che, a distanza di un anno, non è ancora chiaro e definitivo il numero delle vittime della strage che si stava compiendo in quei giorni nelle carceri italiane.

Sulla stampa si leggono ancora cifre altalenanti, a volte i morti sono 13, a volte 14, a seconda di chi scrive e del testo che si cita perché di informazioni ufficiali su questa storia ne sono uscite davvero poche. Nove a Modena, uno o due a Bologna e tre o quattro a Rieti. I nomi stessi delle vittime sono emersi solo grazie all’impegno di volontari, associazioni e giornalisti che li hanno raccolti e pubblicati perché dalle stanze ermetiche del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e del Ministero di Giustizia non era uscito nulla di ufficiale. Anche questi piccoli dettagli dovrebbero già essere eloquenti e far riflettere, oltre che definire i contorni di quel “rimosso” che è materia principale di questo dossier.

La pandemia è globale e nelle carceri di tutto il mondo si accendono rivolte legate agli effetti devastanti che il Covid-19 potrebbe avere su prigioni sovraffollate e con scarsissima vigilanza sanitaria. Migliaia di detenuti in tutto il pianeta vengono rilasciati per evitare un’inutile strage, anche paesi come la Turchia (90.000) e l’Iran (70.000) lo fanno. In Italia, invece, l’ipotesi non è nemmeno presa in considerazione e quando cominciano a circolare le voci dei primi contagi all’interno delle carceri, nei penitenziari italiani si comincia a protestare.

Le prime rimostranze per la gestione dell’epidemia avvengono proprio dentro a quelle celle e in due soli giorni produrranno 13 o 14 morti. Sui media del Paese, al contrario, va affermandosi un coro unanime che imbocca l’italiano medio sulla suggestione di una “regia esterna” dietro alla rivolta (anarchici o mafiosi a seconda della testata) come se quanto avviene contemporaneamente nel resto del mondo non avesse alcuna rilevanza.

In fin dei conti, anche l’Italia stessa, nonostante il suo “ingegno” e le sue “eccellenze” “riconosciute in tutto il mondo”, è un Paese provinciale, il quale non ha esitato un solo istante a mostrare il “pugno duro” e a far scattare rappresaglie verso persone, private della libertà, che in fin dei conti domandavano soltanto di non essere abbandonate al virus e attenzioni sanitarie. L’8 marzo 2020, fuori dal carcere di Sant’Anna, i familiari dei detenuti accorsi per capire cosa stesse succedendo, dopo aver visto una fumana nera salire in cielo e macchiare l’orizzonte della città, spiegavano e ripetevano proprio questo.

Perché è vero, era in corso una rivolta, una dura rivolta da parte della popolazione carceraria, ma quasi nessuno ha riportato le motivazioni che stavano alla base di quanto stava accadendo, eppure la piccola folla che si era precipitata angosciata nel piazzale antistante al Sant’Anna le conosceva perfettamente.

Chiunque poteva dirti che la sospensione dei colloqui con i familiari per via del Covid, e l’interruzione di tutte le attività con educatori e psicologi potevano essere interpretate facilmente come la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso: “Nessuno, in questa situazione di emergenza, si è reso conto di quanto questi provvedimenti abbiano pesato sulla condizione già difficilissima vissuta dai detenuti”1. Sono le voci dei parenti dei detenuti presenti nel piazzale a raccontare le condizioni dei propri cari rinchiusi all’interno del penitenziario. Solo tre giorni prima della rivolta, infatti, il 5 marzo, il ministero della Giustizia aveva proibito le visite a causa del coronavirus mentre il giorno successivo, il 6 marzo, veniva trovato il primo positivo tra le fila della polizia penitenziaria.

Ma quella domenica pomeriggio il tempo scorre in una maniera differente, in un clima surreale. Come documenterà il giorno successivo il Resto del Carlino, fuori dal Sant’Anna si ammassano i reparti antisommossa arrivati da Bologna e Milano, poi i vigili del fuoco con 8 automezzi, la polizia municipale, la protezione civile e i militari, in un dispiegamento di forze imponente ma che non è in grado di rispondere nemmeno una volta alle legittime domande dei familiari accorsi fuori dall’istituto e che si stanno interrogando sullo stato di salute dei loro cari. Solo verso le 17 un graduato della polizia penitenziaria proverà a rassicurare le famiglie: “La situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non dalle celle che non sono state intaccate durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura”.

Eppure i familiari sono arrabbiati, non si fidano, e la loro sfiducia non si placa di certo verso sera quando arrivano di decine di pullman della polizia penitenziaria per trasferire i detenuti e spargerli fra le carceri della penisola. Nemmeno la rabbia si placa, soprattutto quando i pullman si mettono a sfrecciare a tutta velocità fra la folla (una donna accusa anche un malore dopo aver rischiato di essere investita) o quando i familiari osservano impotenti la scena del pestaggio di alcuni detenuti già ammanettati prima di essere caricati sui veicoli per chissà quale destinazione.

Una vista, questa, ben presto coperta da altri autobus posizionati abilmente di fronte all’ingresso, in modo tale da impedire ogni sguardo ai testimoni assiepati all’esterno. Il giorno successivo, sulla stampa cittadina, si potrà leggere invece di “eroi”, di “agenti feriti” e di “fobia” del virus. Ma, soprattutto, si potrà già leggere la causa di quei decessi che di lì a poche ore sarebbero saliti fino alla tragica cifra di nove morti. Quella “overdose” che, nei giorni successivi, si ripeterà, come un mantra di telegiornale in telegiornale, di articolo in articolo, di bocca in bocca, diventando così verità già acquisita e percepita ancora prima di qualsiasi parola ufficiale.

Parole ufficiali che arriveranno tre giorni dopo, l’11 marzo, col ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede che riferirà della situazione in aula semivuota del Senato:

Permettetemi innanzitutto di ringraziare la Polizia penitenziaria e tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria (Applausi), perché ancora una volta stanno dimostrando professionalità, senso dello Stato e coraggio nell’affrontare, mettendo a rischio la propria incolumità, situazioni molto difficili e tese, in cui ciò che fa la differenza è spesso la capacità di mantenere i nervi saldi, la lucidità e l’equilibrio nell’intuire e scegliere in pochi istanti la linea di azione migliore per riportare tutto alla legalità. Mi piace sottolineare che in tutti i casi più gravi le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le Forze dell’ordine sono intervenuti senza esitare, rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte agli atti delinquenziali che si stavano consumando. […] Il bilancio complessivo di queste rivolte è di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini.

Dodici morti dunque, “per lo più riconducibili all’abuso di sostanze” con quella formula “per lo più”, che già allora, a tre giorni dalla strage, lasciava poco spazio ai dubbi. E in città le cose non vanno affatto meglio. Nessuno parla, nemmeno l’ultimo dei consiglieri comunali oserà rompere la cappa di silenzio. Solo verso la serata di lunedì (9 marzo), quando il conto delle vittime era già salito a sei, il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, si degnerà di commentare l’accaduto, esprimendo un’immediata solidarietà alle Forze dell’ordine e ammonendo lapidario: “chi fa polemiche non dimostra senso dello Stato”2.

In città a regnare è soltanto un silenzio dei più eloquenti. Dai giornali si apprende che cinque detenuti sono morti a Modena, mentre per altri quattro l’agonia si sarebbe protratta per ore, durante il loro trasferimento nelle carceri di Parma, Alessandria, Trento ed Ascoli. Ghazi Hadidi, 35 anni, morirà all’altezza di Verona sulla strada per Trento, Ouarrad Abdellah 34 anni, ad Alessandria, gli restavano da scontare meno di due anni per reati legati al piccolo spaccio, Artur Iuzu 31 anni, era invece diretto a Parma e in attesa del primo grado di giudizio e Salvatore Cuono Piscitelli, di 40 anni, morto ad Ascoli che sarebbe stato scarcerato in agosto.

Nel carcere di Modena invece perdono la vita Ariel Ahmadi di 36 anni, padre di una ragazzina di 12 e che sarebbe tornato in libertà nel gennaio del 2022, Agrebi Slim, quarantenne, anch’esso con una figlia, Hafedh Chouchane, 36 anni a pochi giorni dalla scarcerazione, Ben Mesmia Lofti, di 40 anni e Alì Bakili cinquataduenne. I nomi delle vittime però si sapranno solamente 10 giorni dopo, pubblicati sul Corriere della Sera dal giornalista Luigi Ferrarella, mentre le poche informazioni a riguardo saranno raccolte dalla giornalista Lorenza Pleuteri in un articolo apparso su giustiziami.it il 3 aprile e in un approfondimento di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci uscito sul Venerdì di Repubblica lo stesso giorno.

Dalla stampa locale si apprende solo che dei primi si occuperanno le Procure delle città nelle quali sono stati constatati i decessi mentre per i cinque di Modena si parla di “overdose da stupefacenti” per due detenuti, di cause ancora da chiarire per un terzo ritrovato cianotico e di un generico “attacco cardiaco” per un quarto, mentre il quinto non viene nemmeno menzionato. Sempre dalle pagine dei giornali, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, annuncia che “l’intenzione della Procura è di fare immediatamente luce sui decessi; successivamente si indagherà anche sulla rivolta e i danni che ha provocato.”3

Si indagherà per omicidio colposo «contro ignoti» al fine di avviare le prime autopsie sui cadaveri. In città, invece, prosegue il silenzio più assordante rotto solo dall’invettiva del sindaco Muzzarelli infastidito da dei volantini e da delle scritte contro il carcere apparsi sui muri di alcuni quartieri che avrebbero intaccato, a suo dire, il “decoro e dignità alla città”. Dopotutto l’urgenza del primo cittadino è chiara e dichiarata, bisogna ripristinare il carcere (semidistrutto dalle proteste) al più presto “per una questione di sicurezza per la città e per il territorio.”

Se la città è silente, la Regione Emilia-Romagna (che detiene 10 delle 13-14 vittime totali) non è da meno, nonostante abbia competenza in materia di salute, di trattamento delle tossicodipendenze, di custodia del metadone e di sanità penitenziaria.

A rompere la cappa di silenzio, compatta come un fascio littorio sarà, inaspettatamente, l’11 marzo la Camera penale di Modena Carl’Alberto Perroux. Con un comunicato che denunciava la grave assenza della politica, l’associazione sindacale degli avvocati segnalerà:

Le uniche informazioni che abbiamo ottenuto su quei fatti sono quelle fornite dalla Polizia Penitenziaria, giacché l’Autorità Giudiziaria (requirente e di sorveglianza) non ha inteso divulgare notizie di dettaglio sullo svolgersi degli accertamenti. I morti nelle rivolte del carcere di Modena sono saliti a 9, un numero enorme che lascia sgomenti, ancor di più per il fatto che risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione4.

Anche il Gruppo Carcere-Città, prenderà parola, il giorno dopo, con un comunicato stampa ad hoc che non lascia spazio ai dubbi sulle condizioni della struttura alla vigilia della pandemia:

I dati sono allarmanti: con una capienza regolamentare di 369 posti, al 29 febbraio 2020 erano presenti a Modena 562 detenuti e, al 6 febbraio, quattro funzionari della professionalità giuridico-pedagogica e una sola esperta ex art. 80 O.P. per 38 ore mensili. A questo si sommano le responsabilità di chi ostacola la fruizione di misure alternative al carcere per chi ne ha i requisiti5.

Un sussulto di dignità civile in un mare di silenzi e indifferenza. Poi più nulla finché, ai primi di aprile, lontano da Modena, stando a quello che si scoprirà successivamente grazie ad una telefonata registrata e consegnata a giornali e mezzi d’informazione6, 300 agenti della penitenziaria, provenienti dall’esterno entrano “a volto coperto dal casco, da foulard o mascherine, rendendone difficile l’identificazione video” nelle celle del carcere di Santa Maria Capua Vetere per una “perquisizione straordinaria” che sfocerà in “episodi di inaudita violenza; calci, pugni, manganellate e abusi di ogni tipo, perfino su un detenuto disabile”7.

Testimonianze e denunce che sarebbero confermate dai video agli atti dell’inchiesta i quali mostrerebbero immagini di reclusi inginocchiati, trascinati e picchiati da più poliziotti contemporaneamente. Anche in questo caso dal ministero faranno sapere solamente che gli agenti coinvolti rimarranno al loro posto nonostante 44 indagati mentre, in una nota del 6 aprile, il sottosegretario Vittorio Ferraresi commenterà che si era trattato solamente “di una doverosa azione di ripristino della legalità” confermando ancora una volta il “pugno duro” del ministero guidato da Alfonso Bonafede. Anche per il carcere di Foggia, dal quale i diversi detenuti sono evasi, si alzano voci di pestaggi e atti di violenza molto simili a quelli che si sarebbero verificati nell carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, con centinaia di agenti col volto coperto che avrebbero fatto irruzione nelle celle colpendo con pugni e manganelli8.

Modena, Rieti, Santa Maria Capua Vetere, Foggia; ma perché è proprio nelle prigioni di provincia che è scoppiato in forme più virulente l’incendio? Che rapporto c’era tra queste città e le loro prigioni, tecnologiche o vetuste che siano? La rimozione totale? E Modena, in particolare: c’entrano qualcosa le fiamme di Sant’Anna col fatto che ormai da un paio d’anni in questa città si registra un numero inquietante di denunce e rinvii a giudizio per centinaia di cittadini accusati di vertenze sindacali e sociali? Esiste una misteriosa relazione tra la degenerazione del clima “dentro” e “fuori”, ad là e al di qua del filo spinato? Cittadini e detenuti, hanno respirato la stessa aria, sia pur in condizioni drammaticamente diverse?

Queste le domande che, mesi dopo, lo scrittore Giovanni Iozzoli proverà a porre sulla rivista online Carmilla9.

A maggio, invece, la Procura di Modena farà sapere che in base alle risultanze autoptiche i decessi di cinque dei nove morti del carcere di Modena (tutti quelli trovati in loco) erano tutti attribuibili a overdose di metadone e psicofarmaci. Punto. In contemporanea i riflettori mediatici sono tutti rivolti invece al finto scoop di Repubblica sui “boss mafiosi” ai domiciliari che ovviamente non fa altro che accendere il pulsante dell’indignazione rispetto ad un possibile provvedimento “svuota carceri” legato alla pandemia.

Ad agosto, a squarciare la cortina fumogena del silenzio su quanto accaduto nel carcere di Sant’Anna, sarà la pubblicazione di due lettere di detenuti – testimoni (uscite senza firma, su richiesta degli estensori) che raccontano di pestaggi avvenuti nel carcere di Modena durante la rivolta e di altre botte durante e dopo il transito in altre città. Le missive vengono rese note dall’agenzia Agi e dal blog giustiziami.it. Le due giornaliste che le hanno ricevute e pubblicate saranno poi sentite dalla squadra Mobile, come persone informate sui fatti. Il testo racconta abusi e vessazioni, come per il carcere di Santa Maria Capua Vetere:

“Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta.” “Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa. E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce”. Anche il secondo testimone conferma che Sasà stava malissimo, che sul bus era stato picchiato e che quando è arrivato ad Ascoli non riusciva a camminare. “Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato.”

Passano altri mesi e il silenzio intorno alle 13/14 vittime di marzo prosegue la sua azione. Nel Paese non ci si interroga affatto su quelle morti né tantomeno sulle condizioni in cui versano i detenuti nelle carceri italiane mentre in città, per certi versi, va pure peggio, in molti ignorano persino che sia successo qualcosa. Per questo motivo, proprio per cercare di accendere i riflettori su quanto successo in città solo 9 mesi prima, il 7 novembre in Piazza Grande a Modena viene organizzata dal Consiglio Popolare una prima iniziativa pubblica intitolata “Dietro le sbarre: testimonianze e riflessioni sul carcere”. In quella giornata verrà prima letta una lettera dal carcere di Torino di Dana Lauriola, attivista NoTav, condannata a due anni di reclusione solo per aver parlato al megafono durante una manifestazione nella quale non si verificarono incidenti, successivamente si ascolteranno in collegamento telefonico Manuela D’Alessandro e Lorenza Pleuteri, le due giornaliste che per prime avevano pubblicato le lettere anonime denuncianti i pestaggi. Infine si ascolterà la testimonianza di un ex detenuto del carcere di Modena, il quale ribadirà come la richiesta principale dei detenuti, in quel tragico 8 marzo, fosse una richiesta sanitaria:

Modena era per me un concentrato di violenza da parte dello Stato sulla pelle dei detenuti. Soltanto che a marzo è successo qualcosa che andava ben oltre. […] La sanità era un punto fermo delle loro richieste, era uno dei messaggi della rivolta. Questo è un punto fondamentale da dire e da far comprendere alle persone: la sanità. Può essere che qualche detenuto abbia abusato di farmaci, non dico di no, ma è normale quando educhi le persone per anni alla tossicodipendenza. Ovvio, che cosa cerca una persona che sta male e che ha accesso ai farmaci, che gli somministrano ogni giorno, più volte al giorno senza problemi, come fossero biberon? Può darsi che possa essere così. Così come sappiamo che i carabinieri sono andati sul parapetto del carcere e hanno sparato, questa è la realtà dei fatti. Quando non si sa chi di preciso della polizia penitenziaria o dei carabinieri sono entrati dentro, il primo che hanno avuto per le mani lo hanno ammazzato di botte davanti a tutti e hanno detto “Adesso vi facciamo questo”. C’è gente a cui sono arrivati i proiettili vicino alla testa ed è solo per miracolo che non hanno preso il piombo in testa o in altre parti del corpo10.

Il mese successivo, a dicembre, gli abusi già denunciati nelle lettere trovano conferme. Cinque ragazzi firmano un esposto destinato alla procura generale di Ancona. Anche loro parlano di aggressioni fisiche, violenze, spari, torture e di assistenza negata a Salvatore Piscitelli (Sasà) una delle nove vittime di Modena, morto, a detta loro, nel carcere di Ascoli. I cinque denuncianti confermano quanto già raccontato sostanzialmente ad agosto tramite lettera dagli altri due altri detenuti, ossia di pestaggi, di abusi e di mancati soccorsi.

Il 10 dicembre tutti e cinque vengono riportati nel carcere di Modena per essere interrogati dai pm una settimana dopo. A Modena vengono “accolti” in regime d’isolamento sanitario, in celle con vetri rotti (a dicembre) e coperte bagnate. Dopo gli interrogatori tutti e cinque vengono nuovamente trasferiti in posti diversi. Questa volta escono un paio di articoli sulla stampa locale e c’è qualche risonanza a livello nazionale, ma poco più.

Il Dap non commenta, la Procura di Modena, sempre per bocca del procuratore Di Giorgio, si limita a un neutro “si faranno i necessari approfondimenti” e ribadisce, ancora una volta, che le autopsie (delle quali non si sa ufficialmente ancora nulla, tranne che per il ragazzo della Dozza di Bologna) confermerebbero la morte per overdose anche per Piscitelli come per le altre 8, 12 o 13 vittime.

All’inizio del 2021 Repubblica ricapitola le notizie uscite in un dossier multimediale, arricchito con documenti inediti, con stralci delle relazioni di servizio interni e con le pagine di una delle 13 autopsie effettuate, più gli originali delle lettere-denuncia estive.

Un paio di settimane dopo anche la trasmissione televisiva Report si occupa di quanto accaduto nel carcere di Modena nove mesi prima. In questo caso viene mandata in onda la testimonianza di un detenuto che afferma di non aver partecipato alla rivolta, di essere rimasto in cella e di aver trattato direttamente con l’ispettore l’uscita pacifica di tutti i reclusi del suo settore che stavano soffocando dal fumo, ma di aver ugualmente “preso così tante manganellate che il sangue schizzava sulle divise e sui caschi dei poliziotti.”11. Ma la trasmissione della Rai, intrecciando i racconti, oltre a disegnare uno scenario altamente inquietante, viene a conoscenza di come ad operare a volto coperto all’interno delle carceri, in quelle che presumibilmente erano considerate azioni punitive, sia stato un nuovo reparto creato ad hoc dopo le rivolte, il “GIR – Gruppo di Intervento Rapido”.12.

Poco tempo dopo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ignorando volutamente non solo le denunce dei detenuti ma anche le inchieste ancora in corso, dichiara: “La Procura ha accertato che i nove detenuti sono deceduti per l’assunzione di stanze stupefacenti sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti.”13.

Questo dossier raccoglie ciò che pubblicamente è stato detto e scritto sulla strage dell’8 marzo nel carcere di Modena oltre ad alcuni approfondimenti e a tutte le doverose domande che questa terribile vicenda porta inevitabilmente con sé. Purtroppo a un anno di distanza, la situazione nelle carceri italiane sembra non avere prodotto alcuna riflessione. Non solo la possibilità di un’amnistia è ipotesi davvero remota ma sembra che non si riesca ad agire per contenere i contagi nemmeno con gli strumenti a disposizione, ricorrendo ai domiciliari, alle pene alternative e alla scarcerazione anticipiata di chi è ormai prossimo alla fine della pena. Fattori anche questi nient’affatto marginali nel misurare la qualità di una democrazia. Perché quanto accaduto nel carcere di Modena e il silenzio che l’ha circondato sono un messaggio che non può essere ignorato tanto facilmente.

Perché se è vero che lo Stato in quei giorni, ha picchiato, sparato, torturato o omesso anche solo di soccorrere persone detenute considerandole alla stregua della monnezza o dei tossici buoni a nulla (nell’indifferenza totale dell’opinione pubblica, bisogna dirlo) non è detto che un domani non sia pronto ad allargare l’utilizzo di quei metodi anche ad altre fette di società.
Un po’ come ci ricorda quel famosissimo sermone di Martin Niemöller:

Prima vennero…


Il dossier sarà disponibile dal 7 marzo in formato pdf, stampabile e riproducibile in maniera del tutto libera, scaricandolo dalla pagina fb del Consiglio Popolare Modena. Promuoviamo la sua diffusione in ogni ambito.


  1. infoaut.org ↩
  2. senzaquartiere.org ↩
  3. senzaquartiere.org ↩
  4. facebook.com/camerapenalemo ↩
  5. buonacondotta.it ↩
  6. iene.mediaset.it ↩
  7. ilriformista.it ↩
  8. ildubbio.news ↩
  9. carmillaonline.com ↩
  10. facebook.com/scioperoitalpizza ↩
  11. fb Report ↩
  12. rai.it ↩
  13. modenaindiretta.it ↩

LETTERA DI DANA : SIATE SALDI E IN ALTO I CUORI!

Da Notavinfo Notav

Car* tutt*,
quando leggerete questa lettera saranno ormai cinque i miei mesi di detenzione, avevo scritto l’ultima lettera prima della fine del 2020, a ridosso delle festività, che nonostante tutto anche qui sono passata abbastanza bene. Nel frattempo, si sono succeduti svariati eventi, tra cui l’iniziativa che io, Stefania, Emanuela e Fabiola (ora siamo in sezione insieme, evviva!!) abbiamo portato avanti nei giorni scorsi: lo sciopero della fame.
Se ne è parlato parecchio e voi tutti ci avete sostenute fin dal primo giorno, quindi non sto a ripetere le motivazioni sottostanti la nostra scelta. Intanto vi ringrazio, siete stat* fondamentali. Terminato lo sciopero, ognuna con i suoi tempi, abbiamo recuperato le energie. Io ho patito un po’, ma ora sono in formissima.
Devo dirvi che, nonostante la breve durata dello sciopero, sono state tante le fatiche per portarlo avanti. A differenza di quello che si può credere, la fame è l’ultimo dei problemi, la sensazione passa già al termine del secondo giorno! Ciò che cresce in maniera esponenziale è l’affaticamento fisico, i dolori, la difficoltà a dormire e negli ultimi giorni una grande fatica a concentrarsi e a non muoversi come un bradipo. Penso a tutte le persone che hanno portato avanti una simile scelta, fino alle più tristi ed irreversibili conseguenze. Che forza d’animo incredibile. E che dolore.
Per fortuna questa nostra forma di protesta non è stata vana, anzi i risultati si sono dimostrati da subito concreti e tutte noi stiamo finalmente godendo dei nostri pieni diritti per quanto riguarda i contatti con i nostri familiari. Una piccola goccia, lo so, in questo girone infernale, ma proprio per questo molto importante. E poi, diciamolo, agire una protesta, seppur pacifica, all’interno di un carcere come questo (altri non so, ma posso immaginare) non è cosa semplice per molti motivi intuibili. Siamo rimaste salde, complici, lucide (a turno) e anche un po’ coraggiose. Detto questo, apriamo un nuovo capitolo. Il titolo lo lascio trovare a voi.
Mentre sui giornali la Direttrice del carcere, di fatto, riconosceva le nostre ragioni lavorando rapidamente per ripristinare i diritti negati, parallelamente e più precisamente in data 22/01/2021, richiedeva al mio magistrato di sorveglianza l’emissione di un provvedimento restrittivo, tipico dell’alta sorveglianza, di cui all’articolo 18 ter O.P. (chi ha voglia lo cerchi) ossia la richiesta di controllo (e selezione) della mia corrispondenza epistolare e telegrafica, la cosiddetta “censura”. Non vi sembra un comportamento un po’ scorretto?
Da ciò che deduco dal dispositivo che mi è stato notificato un paio di giorni fa dalla “matricola” del carcere e che, essendo io “No Tav” e poiché ricevo mezzo posta lettere, riviste, cartoline e materiale vario, il carcere (o meglio la direttrice) ritiene che tale materiale possa essere utilizzato all’interno del reparto detentivo per volantinaggio, finalizzato a sostenere la mia iniziativa politica, minando così l’ordine e la sicurezza interna dell’Istituto. Non ho ovviamente accesso alla richiesta e posso solo dedurre le motivazioni argomentanti che sintetizzo in: sciopero della fame, una storia ridicola su delle cartoline (fatta e disfatta tutta da loro) ed infine la solidarietà ricevuta del movimento No TAV (ebbene si)!
Sappiate che il mio Magistrato ha respinto la richiesta di “censura”, ribadendo una serie di principi costituzionali e inerenti l’ordinamento penitenziario che evidentemente qui sono stati per un momento dimenticati. Non credo che anche per questo si possa incolpare il covid, o sbaglio?
Quindi per ora nessuna restrizione aggiuntiva alle molteplici che ho avuto il piacere di sperimentare in questi cinque mesi. La mia è stata e resta una carcerazione “speciale”, ma dopo questo tentativo, dal chiaro intento punitivo da parte della direzione carceraria, mi chiedo se sia finita qui oppure siano vere le voci che circolano circa un mio futuro trasferimento. Vedremo.
Intanto io continuo le mie attività ed ho ripreso a studiare dopo qualche settimana di pausa. Dopo un piccolo infortunio sul campo da gioco (non ridete!!) ho ripreso a giocare a pallavolo. Qui in sezione tutto procede serenamente e il tempo passa. Non preoccupatevi dunque! Qualsiasi altro “dispetto” dovessi subire, sono ben in grado di sopportarlo!
Seguo ovviamente con attenzione tutto quello che accade fuori di qui, le tarantelle governative, l’evoluzione della pandemia con le sue infauste e interminabili conseguenze e, soprattutto, le iniziative in Valle. Tra momenti di lotta, i Mulini Resistenti e il più giovane presidio permanente di San Didero, state tenendo alta la nostra bandiera.
In questi tempi difficili, una luce continua a brillare ed è quella No TAV!
Siete saldi e in alto i cuori!
Un abbraccio,
Dana

Sui presidi sotto il carcere di Reggio Emilia e Piacenza del 7 febbraio, una corrispondenza

Dopo i presidi sotto le carceri di Parma, Ferrara e Ancona, nella tarda mattinata di domenica 7 febbraio un’ottantina di persone si sono date appuntamento sul retro del carcere di Reggio Emilia, sistemando l’impianto di amplificazione di fronte alle celle che si affacciano sul prato. Fin da subito i detenuti si sono sbracciati tra le grate sventolando bandiere e magliette, hanno gridato saluti e urlato. Il primo intervento ha comunicato loro solidarietà con chi si è rivoltato di fronte al contagio Covid-19 nel marzo scorso e contro la decisione del governo di sospendere i colloqui. Si è parlato delle verità che stanno emergendo rispetto alle rivolte scoppiate nel marzo scorso in decine di carceri italiane e della responsabilità della polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine armate che hanno aperto il fuoco e violentemente picchiato i detenuti, fino a farne morire 14. Si è ricordato che a Reggio Emilia è stato trasferito Ferruccio, uno dei 5 detenuti che con un esposto alla Procura di Ancona hanno raccontato cosa è realmente accaduto l’8 marzo scorso nel carcere di Modena e la verità su Salvatore Piscitelli, brutalmente picchiato e poi lasciato morire dopo il trasferimento nel carcere di Ascoli Piceno. Parte dei partecipanti al presidio si è spostata verso un altro blocco per raggiungere altri detenuti con urla e saluti, e anche qui la risposta da “dentro” è stata immediata e particolarmente rumorosa. Si sono susseguiti interventi e canzoni, dediche e racconti delle proteste che tutt’ora ci sono in diverse carceri. Dopo circa 2 ore in compagnia dei detenuti, sempre affacciati alle finestre e che intonavano cori di libertà e urla di ringraziamento per questa iniziativa, un ultimo intervento ha ricordato come chi resiste e lotta non è mai solo, anche se i muri delle prigioni sono alti e l’isolamento un forte ostacolo. Lo scoppio di prolungati fuochi d’artificio ha accompagnato i saluti finali.
Ci si è quindi spostati sotto il carcere di Piacenza, dove nel primo pomeriggio era in programma un altro presidio. Ad attendere i solidali c’erano già una quindicina di sbirri in antisommossa schierati lungo l’unica stradina per avvicinarsi al carcere. Anche qui i presenti si sono divisi per raggiungere più lati della struttura penitenziaria e gli sbirri sono retrocessi nel tentativo tanto goffo quanto inutile di fermarli. Si è quindi montato l’impianto di amplificazione davanti le celle della sezione maschile e della sezione AS femminile che però è piano terra e rimane quindi invisibile da fuori, coperta alla vista da un alto muro.
Durante il presidio arriva la notizia di una macchina, con dentro 2 compagne e 2 compagni, fermata mentre tentava di raggiungere il presidio.
Un intervento iniziale ha raccontato l’appuntamento della mattina e i presidi del fine settimana precedente e ha salutato Cavazza e tutti i detenuti e le detenute. Si sono susseguiti interventi e musica, si è raccontato quello che sta accadendo nelle altre carceri e si è ribadito l’appoggio e la solidarietà verso i detenuti che non abbassano la testa. Dopo poco si sono iniziate a sentire urla e saluti di risposta da dentro e si è provato a comunicare anche con Natascia, compagna detenuta in Alta Sicurezza, sperando che il caloroso saluto riuscisse a raggiungere lei e le sue compagne di detenzione. Dopo un paio d’ore, ricompattatisi i gruppetti che avevano fatto il giro del perimetro penitenziario e fatti i saluti finali, accompagnati anche qui da rumorosi fuochi d’artificio, ci si è mossi tutti insieme alla volta della caserma dei carabinieri dove, da ormai più di due ore, si trovavano i compagni fermati nel pomeriggio, ufficialmente in attesa di notifiche. Un nuovo presidio, questa volta fuori programma, si è svolto quindi in città, sotto le finestre della caserma in questione. E sono bastati una ventina di minuti di urla e battiture per richiedere il pronto rilascio dei compagni, a convincere i carabinieri a muovere il culo e accelerare le procedure di notifiche. Usciti i fermati, con una multa per essersi spostati al di fuori della propria regione, anche l’ultimo presidio si è sciolto concludendo così questa giornata di mobilitazione.

Al fianco di Mattia, Claudio, Cavazza, Ferruccio e Francesco, al fianco di chi è detenuto.

SECONDA PROPOSTA DI BATTITURA DELLE DETENUTE DI TRIESTE LUNEDI’ 15 FEBBRAIO ORE 15.30

Lunedì 1 Febbraio, le detenute del Coroneo di Trieste, insieme ai solidali presenti sotto le mura del carcere, hanno portato avanti una battitura di poco più di un’ora. Da dentro il grido di indulto e libertà si sentiva chiaro anche nel mezzo del frastuono di pentole e arnesi. La presenza dei giornalisti era massiccia, così come richiesto dalle detenute al fine di far conoscere la loro lotta. Ma la stampa ufficiale, a quanto  pare, non può rinunciare a “formare le opinioni”, in modo funzionale al potere vigente, piuttosto che informare. Infatti il giorno dopo sul giornale locale Il Piccolo si leggevano frasi come questa: “La ventina abbondante di detenute oggi nelle celle del Coroneo, forse anche per un informazione sul tema non sufficiente all’interno dell’istituto, tenendo conto che molti dei reclusi sono anche stranieri, mostrano infatti diffidenza nei confronti del vaccini”.

Queste quattro righe riassumono bene i preconcetti che lo Stato vuole mantenere saldi attraverso la lettura della sua stampa.

Reclusi e anche stranieri ? Ben due colpe in una!! Non solo “criminali” anche stranieri!! In quanto stranieri non dovrebbero capire a cosa serve o cos’è un vaccino? Sta di fatto che, al di là delle ignoranti e razziste dichiarazioni della giornalista de Il Piccolo, le detenute che ci hanno manifestato la loro contrarietà al ricatto dei vaccini e la rivendicazione di maggior tutela sanitaria, sono chiaramente nostre compaesane o quanto meno dei dintorni. Qui non si pone un problema di nazionalità ma di autodeterminazione sul proprio corpo. I loro dubbi e la loro contrarietà al vaccino e all’essere di fatto obbligate ad assumerlo in quanto detenute, evidenziano due problematiche: la prima è l’efficacia reale e la possibile nocività del vaccino – aspetto questo che ci coinvolge tutti anche fuori – la seconda è l’obbligo per i detenuti di vaccinarsi. Basta guardare al curriculum criminale della multinazionale Pfizer e ai dubbi che un vaccino di tipo genico legittimamente pone, per capire che forse le detenute sono più informate di quanto lo Stato vorrebbe!

Il rumore e i disordini che da ormai quasi un anno prendono vita nelle carceri italiane trovano questa risposta da parte dello Stato: “Ora siete vaccinati, non potete più chiedere sanità, indulto o libertà, ora il carcere è sicuro”. Ma la questione della pandemia è solo la punta dell’iceberg di una condizione carceraria sempre più pesante.

Le detenute parlano di 150 detenuti su circa 187 risultati negli ultimi mesi positivi al covid, momento di massimo livello di contagi all’interno del carcere, tanto da  costringere la direzione a non far più entrare nuovi detenuti, trasferendoli in altre carceri della regione.

Le detenute della sezione femminile per  due settimane non potevano fare lavatrici, non ricevevano la posta, nessuna visita medica, e per curare il covid c’erano solo psicofarmaci e tachipirina. Sostanze usate solitamente per ogni male quando si è detenuti.

Dopo un mese la situazione non è cambiata di molto, i contagi sono diminuiti in maniera evidente, ma nonostante ciò nessun medico o psicologo si presenta nel carcere da 4 mesi. Le detenute lamentano l’impossibilità – a causa delle regole per evitare il contagio, in qualsiasi caso inattuabili all’interno della struttura – di fare socialità o poter intrattenere altri tipi di attività. Per questo motivo il consumo della cosiddetta “terapia psichiatrica’’ all’interno della sezione è aumentato.

Visto tutto questo, le detenute chiedono di avere esami del sangue sierologici e tamponi piuttosto che esser vaccinate, chiedono i domiciliari per chi ha il residuo di pena e l’indulto!

Le detenute del Coroneo vogliono continuare a ribellarsi ad un carcere che oggi più che mai non ti dà che la sicurezza di ammalarti o di morire. Un carcere in cui la sanità è cosa sconosciuta, e in cui sicuramente non si può affrontare una pandemia!

Per tutto ciò ripropongono una battitura lunedì 15 febbraio alle 15.30. Noi saremo di nuovo fuori dal carcere  di Trieste, in via Coroneo, a sostenerle.

Assemblea permanente contro il carcere e la repressione 

liberetutti@autistiche.org