Svuotate le carceri! Un video per il 15 gennaio che sollecita un’azione di massa

15 gennaio – Una “Giornata di azione” con al centro la piattaforma delle donne/lavoratrici, in cui sono formalizzate ed espresse anche le istanze delle detenute e delle familiari di proletar* prigionier*. La giornata di azione del 15 gennaio deve servire a dar spazio, voce e visibilità anche alle richieste delle detenute, a quelle mamme che ancora oggi sono costrette a vivere in carcere con i loro bambini, a tutte quelle donne che vivono nel ricatto di rappresaglie sui loro cari in galera se provano ad alzare la testa e a quelle che, nonostante i ricatti, continuano a battersi perché il diritto alla salute sia garantito anche alle detenute e ai detenuti. Proponiamo di di attraversare ogni zona rossa/gialla/arancione che sia, con foto di cartelli o striscioni che riportino, con la dicitura “15 gennaio” le richieste delle e dei detenut*, i loro bisogni e quelle delle loro familiari e solidali. E sarebbe bello che questi cartelli li tenessero in mano tutt*, dalle donne, dalle lavoratrici alle ragazze, alle immigrate, alle libere soggettività, alle familiari dei detenuti e delle detenute. Potremmo ad esempio farci un album, non solo da pubblicare fuori come testimonianza di partecipazione alla giornata di azione e come segnale di lotta unitaria per future scadenze di mobilitazioni nazionali (29 gennaio ad esempio, che è sciopero generale), ma anche da inviare dentro le carceri come forma di solidarietà e/o affetto, per rompere l’isolamento.

La Musica del video è tratta da “Pensaci”, il videoclip ideato e girato all’interno del carcere di Milano Bollate, con la collaborazione della Cooperativa Sociale articolo 3 nell’ambito del progetto Ritorno al futuro. Voci, testo e musica sono di giovani detenuti.

musiche e testi: Marco Carboni

testi e voci:

Joaquin Castillo, Pedro Gomes, Luis Lara, Idalberto Mantilla, Remi NDyaje, Stefano Ormas, Valentin Raduti, Majid Rabali, Achraf Taib

voce femminile: Giulia Fiori

Sulla rivolta al carcere di Modena a marzo 2020 e non solo

Riceviamo e pubblichiamo:

Un messaggio non recepito

È questa la percezione che abbiamo riguardo a quello che successe neanche un anno fa nelle carceri italiane. La percezione che, da un lato, in tanti non abbiano compreso il significato di quei giorni: delle urla sprigionate dai petti delle persone recluse, del piombo sparato a Modena contro i detenuti in rivolta. Dall’altro, che non sia stato compreso il significato del successivo coro dei media, secondo il quale i rivoltosi sarebbero stati pilotati da una regia esterna (anarchici o mafiosi) e le morti sarebbero avvenute per overdose, dopo l’assalto alle infermerie delle carceri.
A nostro parere è importante mettere a fuoco alcuni aspetti, perlopiù taciuti o messi in secondo piano a livello mediatico: per esempio, considerare in quante carceri (non solo in Italia, ma in tutto il mondo) si siano estese proteste e rivolte in corrispondenza dell’avvento della pandemia COVID-19 e quali decisioni siano state prese dalle autorità. Qui, a differenza che in altri luoghi del pianeta in cui sono stati rilasciati migliaia di detenuti, non c’è stata esitazione nell’uso del “pugno duro”, nella rappresaglia per le proteste, nell’incutere intenzionalmente terrore nelle persone recluse in modo trasversale. Decisioni prese dall’alto che hanno provocato una ferita che si farà sentire sulla pelle delle presenti e future persone incarcerate.
Altro fattore importante è considerare come il D.A.P., i dirigenti sanitari, i direttori e le varie figure interne al sistema penitenziario stiano palesando le stesse negligenze di tutti i burocrati di Stato che decidono sulle vite degli altri, dentro e fuori le galere.
Dopo le rivolte di marzo alcuni giornalisti hanno interpellato i dirigenti sanitari del carcere di Modena, chiedendo loro come venissero gestiti il metadone e altri farmaci dentro il carcere. La risposta è stata “non lo so”. Alle richieste di chiarimenti su cosa avessero fatto le varie autorità è seguito il classico rimbalzo di uffici, silenzi, “no comment”.
Si potrebbero anche sciorinare le affermazioni dei vari rappresentanti delle forze di polizia penitenziaria sul fatto che nessun atto di tortura o violenza sia stato perpetrato sui reclusi, se non nei momenti utili a riportare l’ordine nelle carceri.
Frasi che suonano stonate: tutti sanno che dietro a certe parole c’è una violenza organizzata da parte delle Forze dell’Ordine, il benestare di chi li comanda e la copertura di chi fa finta di non vedere.
Così reagisce l’autorità. L’autorità è il Ministro di Giustizia, è il capo del D.A.P., è il direttore del carcere, è l’agente violento, è il medico connivente, è il garante per i diritti dei detenuti che si gira dall’altra parte. L’autorità è chi ha il potere di negare di avere una responsabilità, o meglio, LA responsabilità del massacro avvenuto nelle carceri.
Così è andata – e sta andando – la gestione da parte dello Stato delle morti avvenute in carcere nei mesi di marzo e aprile.
Il carcere rispecchia la società che lo circonda, concetto sempre più vero; la corrispondenza tra dentro e fuori le mura delle carceri, tra il modo in cui vengono gestite le emergenze e quindi le persone, è sempre più tangibile. Forse è sempre stato così, ma ancora – troppo spesso – non ci si accorge di questo.

La voce di chi vorrebbero mettere a tacere

Lo scorso 20 novembre cinque uomini coraggiosi, cinque detenuti, hanno restituito, con un esposto alla Procura di Ancona, un’altra realtà dei fatti. Le storie che fino a quel giorno erano state raccontate anonimamente sono state messe nero su bianco da cinque persone che a Modena durante la rivolta c’erano, poco importante se in modo attivo o passivo. Quello che importa è che quanto da loro raccontato si scontra con le ripetute falsità dell’autorità: contro i suoi silenzi assordanti e le menzogne raccontate in difesa dei suoi uomini e donne in divisa, contro un massacro mascherato da suicidio di massa per overdose. Silenzi e travisamenti voluti dalle autorità per non permettere che verità sia fatta.
Lo Stato è efficiente quando vuole esserlo.
All’inizio di marzo il D.A.P. dava ordine alle guardie di sminuire il problema sanitario legato al virus, invitava a non mettersi le mascherine per non allarmare i detenuti che, come abbiamo visto, sono giustamente suscettibili quando si sentono in trappola di fronte alla possibile morte.
Mentre i mezzi stampa intimavano di restare a casa, i detenuti hanno ben capito che solo uscendo dal carcere avrebbero potuto preservare la propria salute. Alcuni, nel trambusto delle rivolte di marzo, lo hanno addirittura fatto senza chiedere il permesso a nessuno. Tentando, e in alcuni casi riuscendovi, di evadere materialmente di prigione. Anche in massa.
Uscire dal carcere senza le chiavi è ai nostri giorni qualcosa di molto raro, che ha rappresentato un’ulteriore messa in discussione della cristallizzazione su ciò che è possibile o giusto fare quando ci si sente alle strette.
La paura inculcata a tutti in tempo di pandemia, nelle carceri, dove appunto era palese il maldestro tentativo di sminuirne la pericolosità, ha provocato delle rotture anziché un addomesticamento. Rotture che hanno acceso i riflettori, riportandole al centro del dibattito, su alcune questioni di sempre.
Ma perché così tanto timore? Forse perché la sanità in carcere è generalmente lenta, negligente o addirittura assente? E questo è un problema reale e radicato. Non è un vezzo polemico di qualche detenuto schizzinoso, è la realtà: la sanità in carcere è assente o malfunzionante. Lo sa chiunque in carcere ci sia stato o chi abbia familiari o amici all’interno. Ma allora, se il problema c’era già prima di marzo, già prima delle rivolte, perché quando i detenuti l’hanno sollevato tramite la distruzione di intere carceri o sezioni – unico modo per dare voce alla richiesta di “Sanità!” – il DAP e il Ministero della Giustizia hanno voluto spostare l’attenzione su altro? Perché hanno volutamente sollevato tutto quel can-can mediatico rispetto ad un possibile “svuota-carceri” che avrebbe fatto uscire non si sa quanti “mafiosi”? Perché coscientemente hanno scelto di parlare in quel modo? Di passare un messaggio distorto e manipolato? Forse perché quelle rivolte sono un segnale verso tutti gli sfruttati e sfruttate di questo paese? Forse perché il carcere è più vicino di quanto si creda a tutte le persone nel momento in cui i bisogni primari non riescono ad essere più soddisfatti? Forse perché legalità ed illegalità non sono come ci vengono raccontate, visto che le leggi sono fatte da uomini e donne potenti, ricche, senza scrupoli e trasversalmente reazionarie?

Il significato del piombo e della noncuranza

Quel piombo sparato a Modena dagli agenti sui detenuti ha un significato ben preciso. Non solo lo Stato, personificato da agenti in divisa, ha sparato su degli uomini che vengono considerati dai più solo monnezza, tossici, buoni a nulla, ecc, ma ha sparato in realtà su tutti e tutte. Il significato che noi diamo a quel piombo è questo: lo Stato ci sta dicendo, ci ha detto, che oggi nel 2021 in una repubblica parlamentare europea esso si sente libero di sparare, e non è detto che in futuro non sia disponibile a farlo nelle piazze, durante le lotte sul posto di lavoro, nei campi, nei quartieri, o dovunque qualcuno decida di riprendersi il maltolto. Infatti, Mattarella ha ripetuto questo messaggio in altra occasione e in modo più velato, cioè dopo gli scontri di fine ottobre 2020 nelle piazze di varie città. “Manderemo l’esercito” disse. E tutti sappiamo che i militari non usano i manganelli, non sono addestrati per questo. L’intensità della violenza di chi sta al potere sta aumentando, in parte ce lo stanno promettendo, in parte è un crescendo già in atto. Non è necessario andare lontano per averne prova ed essere certi che le autorità (di dittature o democrazie indifferentemente) facciano un uso sistematico della violenza in difesa dei loro interessi e della loro tutela.
Mentre i media di una democratica Italia dipingono con toni di condanna omicidi e incarcerazioni d’oltremare, provando a spostare lontano lo sguardo dell’opinione pubblica, noi qui ascoltiamo la voce di chi sta in carcere, le urla di chi viene ammazzato di botte nelle caserme o nelle questure. E sappiamo che non siamo poi così tanto al sicuro. Non è una lettura di parte questa, è una lettura che non ha paura di guardare la realtà in faccia, nonostante la sua brutalità.
Per restare in Italia, il 7 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, oltre 300 agenti speciali entravano a freddo nelle celle manganellando a sangue. È stato forse un errore? È scappata la mano? I 300 agenti della penitenziaria a volto coperto si trovavano lì per caso?
Il 9 marzo 2020, ad Ascoli Piceno, moriva – uno tra 14 morti – Salvatore Piscitelli. È stato ufficialmente dichiarato che sia morto in ospedale, in seguito al trasferimento dal carcere di Modena, dove si sarebbe imbottito di metadone. Ma la verità è che in ospedale Salvatore non è mai stato portato. Le guardie non l’hanno soccorso e hanno urlato “Fatelo morire!” a chi chiamava aiuto.
Le 14 morti avvenute nelle carceri o durante i trasferimenti dopo le rivolte dell’8 marzo, sono avvenute per mano delle autorità e per loro noncuranza.

Dire la verità, nient’altro che la verità

Oggi che cinque detenuti hanno messo la faccia raccontando la verità e il loro vissuto su quello che è successo nelle carceri di Modena ed Ascoli, come ha risposto lo Stato?
Li ha sottoposti ad una fortissima pressione psicologica, riportandoli nel carcere di Modena, dove erano state perpetrate gran parte delle violenze e gli assassinii di 9 persone. Li ha chiusi in celle con i vetri delle finestre rotti, isolandoli, dando loro acqua sporca da bere, consegnando coperte bagnate all’occorrenza, cercando di limitare il più possibile i contatti con i loro cari. Dopo gli interrogatori queste 5 persone sono state nuovamente trasferite, verso 5 differenti destinazioni. Divide et impera.
E poi come mai questo “no comment” rispetto all’esposto, da parte dell’autorità del carcere? Di solito aprono il megafono dei giornali per piangere ogni cosa che non va ed ora invece stanno zitti. Perché?
Sappiamo che quando le autorità tacciono spesso non è sintomo di cose belle. In un modo o nell’altro in questo paese – ma in realtà ovunque ci sia potere – tutti sappiamo (in modo più o meno consapevole), che chi si espone raccontando la verità rischia la propria vita.
Potremmo raccontare storie come quella di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin i quali si permisero di indagare sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia, o dei cinque anarchici che nel ’70 mentre portavano una controinchiesta a Roma sulla strage del treno di Gioia Tauro del 1970 e su Piazza Fontana del 1969, morirono in un “incidente” vicino a Roma. Stavano portando i documenti ai loro compagni e all’avvocato Edoardo Di Giovanni.
Tutti sappiamo tramite la letteratura, la cinematografia, la storia, che quando c’è qualcosa di losco e si cerca di riportare alla luce i fatti per come sono andati, la macchina statale, la mano pesante della burocrazia, della salvaguardia delle poltrone, dell’aguzzino che si muove nell’ombra sicuro della propria incolumità si attiva eccome. Allora i corpi vengono cremati (come è successo per alcuni detenuti deceduti a marzo), il tempo fatto passare, le carte fatte sparire, i silenzi si sovrappongono e i media parlano d’altro spostando l’attenzione lontano.
Il tono oltremodo prudente dei giornalisti, anche di quelli in buonafede, usato nel raccontare i fatti di marzo non aiuta a comprendere la profondità della vicenda. Che significato hanno le umiliazioni inferte volutamente ai detenuti in seguito alle rivolte? Che significato hanno avuto gli spari, le manganellate, le botte, la privazione degli indumenti, la decisione di rasare in massa i prigionieri (come accaduto a Santa Maria Capua Vetere i primi di aprile)? Dobbiamo per forza pensare che la mano pesante dello Stato si abbatta solo lontano da noi? In Egitto, oppure in Cile con lo stupro di massa di centinaia di donne durante le rivolte del 2019? O nelle Filippine dove la polizia spara apertamente per strada alla gente in questi mesi?

Loro la chiamano istigazione, noi solidarietà

Una riflessione che vogliamo condividere, un posizionamento. In quanto anarchiche e anarchici parteggiamo per chi è messo alle strette e si ribella, per chi subisce le angherie di chi detiene il potere, per chi soffre.
Questo prendere parte ci porta spesso a pagare con la nostra libertà, ma è una scelta, che rivendichiamo e rilanciamo con cognizione di causa. Quando portiamo solidarietà ai nostri compagni e alle nostre compagne in carcere o a chi si ribella contro le ingiustizie, lo Stato prova ad accusarci di “istigazione a delinquere”. E lo fa con crescente facilità, anche se quest’accusa da sempre rientra nelle armi d’attacco usate dall’autorità contro chi ad essa si ribella. Nel periodo del lockdown, nel maggio 2020, siamo arrivati al paradosso dell’arresto di un pugno di anarchici, con pubbliche dichiarazioni della Procura che difendeva il valore “preventivo” di quegli arresti, fatti per scongiurare il pericolo dell’istigazione in un momento così delicato. Lo Stato sa di avere buone ragioni per temere che il malcontento esploda. Lo sa e ne ha paura. Per questo attacca, cerca di spezzare la solidarietà, camuffandola giuridicamente con la definizione di “istigazione”. Mai ci sono stati due concetti più distanti tra loro! L’istigazione non la facciamo noi: i detenuti che nelle galere hanno detto BASTA non avevano bisogno dei nostri cori sotto le carceri per farlo, erano le condizioni disumane e vessatorie in cui li tenevano e li tengono ad averli istigati alla rivolta e alla fuga. Sono state le misure messe in atto dallo Stato nel momento della pandemia nei confronti dei carcerati ad averli istigati, perché lo Stato ha detto chiaramente “la vostra vita vale meno della nostra”.
La solidarietà è non aver paura di sostenere tutto questo, di dare voce e corpo, con quanta più forza possibile, a chi è dietro le sbarre. Solidarietà non sarà MAI dire a qualcuno ciò che deve fare, ma parlare con persone pensanti che vedono e vivono la stessa realtà che viviamo noi. E che ad essa possono scegliere di reagire.
Non vogliamo attribuire significati impropri al coraggio di chi si è ribellato, di chi si è rivoltato o di chi ora lotta per la verità, ma non possiamo non leggere i loro atti come l’umana reazione alle più profonde ingiustizie. Così come non possiamo non leggere nella battaglia di questi 5 prigionieri, un coraggio che si carica delle sofferenze di tanti, troppi detenuti vessati, torturati, ricattati, annichiliti da un sistema penitenziario che strutturalmente è violento. Non possiamo non rintracciare nella violenza attuata su quelle persone imprigionate dei segnali chiari a tutte e tutti.
Siamo contro le ingiustizie, ma siamo anche contro lo Stato, prima e dopo i fatti di Modena. Anzi, quei fatti rafforzano le nostre idee riguardo a quello che pensiamo, riguardo alla convinzione che racchiudano l’essenza dello Stato e di come il carcere sia propedeutico al benessere di chi ci sfrutta.
Il carcere è una REALTÀ di privazione e violenza per migliaia di persone rinchiuse tra mura e gabbie. Ed è anche un monito, chiaro per tutte e tutti coloro che vivono in libertà: è sempre lì la struttura della repressione, e sono sempre attorno a noi coloro che traggono profitto e potere da quel luogo. I responsabili di quegli assassinii si nascondono, chi li protegge è coperto dal mantello dello Stato, ma questo poco importa, chi cerca verità la troverà.
Anche noi abbiamo un segnale da mandare.

Mani Menti Cuori da differenti latitudini

Gennaio 2021

Per eventuali contatti, commenti o altro potete scrivere alla mail messaggiononrecepito@riseup.net

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La “Giornata di azione” del 15 gennaio è importante anche per la solidarietà con le lotte per il diritto alla salute delle persone detenute

Da osservatorio repressione:

La “Giornata di azione” del 15 gennaio, decisa dalle assemblee delle donne/lavoratrici, è importante anche per la solidarietà con le lotte per il diritto alla salute delle persone detenute

Nel ricco dibattito che ha animato le 2 assemblee nazionali del 17 settembre e 19 novembre abbiamo denunciato, nel quadro dell’attuale crisi economico-pandemica, la condizione che vivono le donne e altre soggettività rinchiuse all’interno delle carceri e dei CPR – luoghi emblematici di questo sistema capitalista-razzista-patriarcale.

Ma abbiamo anche parlato delle loro lotte e del protagonismo, nelle proteste in solidarietà alle detenute e ai detenuti, delle tante donne – madri, sorelle, figlie, compagne, solidali – che anche dopo le rivolte nelle carceri continuano da fuori a chiedere che le/i loro familiari siano trattati/e come tutte le altre persone, stando a casa nel periodo dell’emergenza.

Abbiamo quindi promosso una “Giornata di azione” per il 15 gennaio, con al centro la piattaforma delle donne/lavoratrici, in cui sono formalizzate ed espresse anche le istanze delle detenute e delle familiari di proletar* prigionier*.

La giornata di azione del 15 gennaio deve servire a dar spazio, voce e visibilità anche alle richieste delle detenute, a quelle mamme che ancora oggi sono costrette a vivere in carcere con i loro bambini, a tutte quelle donne che vivono nel ricatto di rappresaglie sui loro cari in galera se provano ad alzare la testa e a quelle che, nonostante i ricatti, continuano a battersi perché il diritto alla salute sia garantito anche alle detenute e ai detenuti.

Chiaramente la giornata va costruita e articolata secondo la situazione concreta e le lotte in corso, ma anche nelle situazioni in cui ci troviamo isolate e sembra che nulla si muova,  possiamo dare ognuna un contributo, anche in maniera creativa.

Ci è piaciuta ad esempio l’idea di attraversare ogni zona rossa/gialla/arancione che sia, con foto di cartelli o striscioni che riportino, con la dicitura “15 gennaio Giornata di azione:” le richieste delle e dei detenut*, i loro bisogni e quelle delle loro familiari e solidali. E sarebbe bello che questi cartelli li tenessero in mano tutt*, dalle donne, dalle lavoratrici alle ragazze, alle immigrate, alle libere soggettività, alle familiari dei detenuti e delle detenute. Potremmo ad esempio farci un album, non solo da pubblicare fuori come testimonianza di partecipazione alla giornata di azione e come segnale di lotta unitaria per future scadenze di mobilitazioni nazionali (29 gennaio ad esempio, che è sciopero generale), ma anche da inviare dentro le carceri come forma di solidarietà e/o affetto, per rompere l’isolamento, per dare una speranza a chi non ne ha.

Chiediamo quindi a tutte le donne solidali, alle libere soggettività, alle familiari delle detenute e dei detenuti, di metterci di nuovo la faccia, il cuore e la voce in questa giornata del 15 gennaio, perché sia davvero una giornata di azione nazionale unitaria che guardi a 360° a tutti gli aspetti della nostra vita.

Perché sia ancora una giornata di sole che illumini con le parole, le voci, i volti della solidarietà e dell’umanità il freddo silenzio di questo inverno/inferno di stato

No al carcere tortura/assassino! – Il 15 dicembre: Svuotate le carceri!

 

Sollicciano, il carcere delle torture: ”Botte dagli agenti e l’ispettrice rideva”

Il segnale lo dava l’ispettrice, nel suo ufficio trasformato in camera della tortura. Un cenno con la testa, «dall’alto al basso», sufficiente a scatenare la squadra di agenti. Calci, pugni sul volto, ginocchia premute sulla schiena fino a spezzare le costole. «Lei vedeva che mi picchiavano e rideva», racconta un detenuto. Succedeva anche questo, secondo l’accusa, tra le mura del carcere fiorentino di Sollicciano. Nove guardie penitenziarie sono state raggiunte da misure cautelari con le accuse di tortura e per una serie di falsi commessi per coprire gli abusi. Agli arresti domiciliari sono finiti in tre, l’ispettrice Elena Viligiardi, considerata «l’istigatrice del reato di tortura», l’assistente capo Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo.
Per altre sei persone sono scattati l’obbligo di dimora nel Comune di residenza e l’interdizione per un anno dai pubblici uffici, mentre un decimo agente risulta indagato a piede libero.
Al centro delle indagini della pm Christine Von Borries e del nucleo investigativo della penitenziaria i pestaggi subiti da un detenuto marocchino e da uno italiano: il primo costretto a farsi visitare in ospedale per la frattura di due costole, l’altro per un timpano perforato. Tutto sarebbe avvenuto nell’ufficio dell’ispettrice, su sua espressa indicazione, come punizione per intemperanze di poco conto.
Decisive le immagini delle telecamere di sorveglianza del carcere, ma anche le intercettazioni ambientali: «Gli hanno dato delle mazzate talmente forti che gli hanno rotto due costole», diceva un agente riguardo l’aggressione al detenuto nordafricano. «Quello era secco come un tavolo – commentava un collega – può essere che quando gli stai sopra con le ginocchia… ci sta che gliele sfondi due costole».
Drammatiche anche le testimonianze dei due detenuti. L’italiano, un cinquantenne, sarebbe stato picchiato dopo aver chiesto in modo insistente «di restare ancora un’ora all’aria libera»«Dopo pochissimi minuti – racconta nelle carte dell’inchiesta – sono stato chiamato dall’assistente e sono entrato nell’ufficio del capo posto e dentro era presente l’ispettrice (…) ho notato la Viligiardi che faceva un cenno con la testa facendo un cenno di assenso dall’alto al basso alle persone che erano dietro di me. A quel punto sono stato bloccato, il capo posto, grosso, pelato, alto, mi ha preso da dietro il collo e ha stretto impedendomi di muovermi e stringendo forte al punto che non riuscivo bene a parlare e respirare». E ancora: «Altri uomini, forse tre o quattro che in quel momento non vedevo, mi hanno preso i polsi dietro di me e mi tenevano per le gambe. Il capo posto mi ha sferrato un pugno tra la tempia e la mascella sinistra».
Stessa sorte per detenuto marocchino, minacciato («Ti facciamo il c…, ti massacriamo»), pestato a sangue e poi, in un secondo momento, prima della visita in infermeria, costretto a spogliarsi e a restare nudo per diversi minuti. «Ecco la fine di chi vuole fare il duro», gli avrebbe detto un agente.
Nell’inchiesta, infine, sono finite anche le presunte manovre dell’ispettrice per sviare le indagini, organizzando un fronte comune con i colleghi, e il tentativo – non riuscito – di trovare «appoggi esterni per stabilire un contatto qualificato con il nucleo investigativo centrale, da cui dipende l’articolazione regionale che svolgeva le indagini, utile a rallentare- smorzare l’attività in corso».

Pavia le carceri tortura vanno chiuse – la giustizia borghese non fa giustizia

Cinque le denunce avanzate dai reclusi a Torre del Gallo contro agenti penitenziari dopo la rivolta a inizio lockdown
La Procura di Pavia ha avanzato quattro richieste di archiviazione al Giudice di Pace di Pavia relativamente alle denunce presentate nei mesi scorsi da alcuni detenuti del carcere pavese di Torre del Gallo, che avevano segnalato all’autorità giudiziaria di essere stati percossi da un gruppo di agenti penitenziari. I fatti denunciati si sarebbero svolti a marzo, quando nel carcere, così come in numerose altre case circondariali italiane, era scoppiata una rivolta dei reclusi in seguito alle restrizioni sulle visite nell’ambito dell’emergenza sanitaria per il coronavirus.

Erano stati appiccati roghi nel carcere e un gruppo di detenuti si era arroccato sul tetto dell’istituto, scendendo solo dopo lunghe negoziazioni. Le cinque denunce presentate da parte di altrettanti detenuti raccontano di maltrattamenti che sarebbero stati inflitti il giorno seguente all’accaduto. Tra gli episodi contestati, i detenuti hanno segnalato che sarebbero stati costretti a spogliarsi e a eseguire alcuni piegamenti sulle gambe, per poi essere picchiati. I detenuti hanno anche raccontato che alcuni agenti avrebbero tirato loro le vivande della sezione. Ora per quattro segnalazioni è stata chiesta l’archiviazione: “Faremo opposizione alla richiesta di archiviazione per tutti e quattro i miei assistiti, che contestano tutti la stessa dinamica dei fatti – spiega l’avvocato Pierluigi Vittadini che segue i detenuti coinvolti -. In tali opposizioni, le parti offese indicheranno anche chiaramente i nomi delle persone coinvolte negli episodi”.

Firenze, torture nel carcere di Sollicciano – Le carceri tortura vanno chiusi!

Firenze, torture nel carcere di Sollicciano: tre agenti agli arresti domiciliari, anche un’ispettrice
SONO INDAGATI DIECI AGENTI DELLA POLIZIA PENITENZIARIA. A UN DETENUTO ROTTO IL TIMPANO, AD UN ALTRO LE COSTOLE. A CAPO UN’ISPETTRICE
di Antonella Mollica

Torture nel carcere Sollicciano di Firenze: la Procura ha fatto scattare nove misure cautelari per nove agenti penitenziari con l’accusa di tortura e falso ideologico in atto pubblico. Tre di loro sono agli arresti domiciliari (tra cui un’ispettrice) altri sei agenti sono stati interdetti dall’incarico per un anno e sottoposti a obbligo di dimora nel comune di residenza. Indagata un’altra donna in servizio come agente penitenziaria, nei confronti della quale però, non sono stati emessi provvedimenti. Le misure cautelari sono state disposte dal gip su richiesta del pm Christine Von Borries.

Secondo l’accusa, gli agenti sarebbero i responsabili di alcuni pestaggi contro un detenuto italiano e uno marocchino: ad uno di loro furono rotte le costole, ad un altro un timpano. A capo della squadra di agenti responsabili delle presunte torture, una donna. I fatti risalgono al 2018 e al 2020. L’inchiesta, condotta anche attraverso intercettazioni ambientali nel carcere, sarebbe nata dagli accertamenti su alcune denunce per resistenza a pubblico ufficiale a carico dei detenuti presentate dagli stessi agenti, che per l’accusa sarebbero risultate false. Le indagini sono state condotte dal nucleo investigativo della polizia penitenziaria.