Gli “spezzabraccia” di Genova 2001 promossi da Lamorgese – una denuncia dall’interno

Di Filippo Bertolami* – le vergognose nomine di Lamorgese e Gabrielli

Tra i dirigenti della Polizia di Stato promossi ieri dal Ministro dell’interno Luciana Lamorgese e dal Capo della Polizia Franco Gabrielli, ci sono anche due condannati in via definitiva per i falsi e gli abusi del G8 di Genova del 2001, nonché il responsabile di una serie di cruenti episodi di ordine pubblico, assurti alla ribalta della cronaca tra il 2012 e il 2017 per le loro nefaste conseguenze su credibilità e affidabilità di chi dirige le Forze dell’ordine nella gestione delle piazze.

Ieri sono stati promossi Pietro Troiani e Salvatore Gava, protagonisti dei fatti del G8 di Genova e condannati in via definitiva a 3 anni e 8 mesi, più 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, il primo per aver portato materialmente le due bombe molotov nella scuola Diaz e il secondo per averne falsamente attestato il rinvenimento all’interno; ciò che giustificò abusivamente le perquisizioni e gli arresti in massa dei manifestanti, in gran parte picchiati e torturati tanto da spingere la Corte dei conti a definire “quella notte sonno della ragione”, nella quale per la Corte di Cassazione “le forze dell’ordine hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”.

Nonostante Gabrielli avesse fatto ammenda sui fatti del G8, dichiarando pubblicamente che a Genova nel 2001 “ci fu tortura” e che nei panni dell’allora Capo della Polizia Gianni De Gennaro “mi sarei dimesso”, in realtà già nel 2017 fu proprio lui che, anziché magari adeguatamente sanzionarli come previsto dall’ordinamento, ha reintegrato i dirigenti condannati in via definitiva – ieri pure promossi – attribuendogli per di più posti di responsabilità apicale e/o ben remunerati incarichi all’estero.

Troiani divenne il Dirigente del Centro operativo autostrade di Roma e Lazio (il più grande d’Italia) e Gava il Responsabile dell’Ufficio di Collegamento Interforze del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia (SCIP) in Albania.

All’epoca anche Gilberto Caldarozzi e Fabio Ciccimarra, pure loro condannati a 3 anni e 8 mesi più 5 anni di interdizione per i falsi del G8 furono reintegrati “tout court”, il primo con il prestigioso e strategico incarico di Vice direttore operativo della DIA (Direzione investigativa antimafia) e il secondo – condannato anche a 2 anni e 8 mesi (poi prescritti) per il sequestro dei manifestanti nella caserma Rainero durante il G7 di Napoli – recentemente promosso, sempre da Gabrielli, come Resident espert in Montenegro.

Ma oltre ai dirigenti condannati per il G8, ieri è stato promosso anche Francesco Zerilli, salito alla ribalta della cronaca innanzitutto come autore di una serie di cruente cariche ‘a freddo’, a partire da quella del 2012 in pieno centro a Livorno nei confronti di antagonisti, anarchici e no-TAV, con gravi ricadute in termini di tensioni sociali nei giorni successivi.

Ma l’inadeguata aggressività di Zerilli si è evidenziata soprattutto tra il 2014 e il 2017 quando era in forza alla Questura di Roma in qualità di responsabile dei servizi di ordine e sicurezza pubblica nel centro della Capitale, molto spesso conclusi con manganellate e trauma cranici: prima nei confronti dei movimenti per la casa che manifestavano davanti al Campidoglio; poi dei tassisti davanti a Montecitorio; infine degli operai della ThyssenKrupp a rischio licenziamento nei pressi della Stazione Termini, accompagnati da Maurizio Landini, allora leader della FIOM e attuale Segretario generale della CGIL, che ricevette pure lui la sua dose manganellate in testa, all’urlo di Zerilli: “Caricate!”.

Ma l’episodio che più è rimasto impresso nell’opinione pubblica fu quello verificato a margine dello sgombero di un gruppo di etiopi ed eritrei richiedenti asilo o protezione sussidiaria da un edificio di via Curatone, accampati in piazza Indipendenza, cacciati con gli idranti e poi caricati e inseguiti dai reparti antisommossa guidati da un Zerilli urlante “levatevi dai coglioni, carica, forza”, che incitava i poliziotti “se tirano qualcosa spaccategli un braccio”.

Frasi e contesto che fecero molto scalpore nell’opinione pubblica, tanto da costringere Gabrielli a rimuovere il dirigente, ma non per punirlo o trasferirlo per incompatibilità, bensì per ‘parcheggiarlo’ in un ufficio più comodo e defilato, in attesa che passasse il clamore, fino a ieri quando è stato promosso, magari pronto per la gestione di nuove emergenze.

Basti scorrere le loro fulminanti carriere: Renato Cortese, all’epoca dei fatti capo della Squadra mobile della Questura di Roma, poi direttore dello SCO (Servizio centrale operativo) ed infine Questore di Palermo promosso Dirigente generale, apice della carriera in Polizia; Maurizio Improta, all’epoca dirigente dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, poi Questore di Rimini ed infine il Capo della Polfer a livello nazionale.

Solo la recente, grave condanna ha costretto Gabrielli a destinarli ad altri incarichi, magari anche loro in attesa di riappropriarsi della gestione delle piazze, passato il clamore.

C’è poi il caso ancor più emblematico di Massimo Improta (fratello minore del suddetto Maurizio) che nel 2012 era in forza alla Questura di Roma come responsabile dei servizi di ordine pubblico presso lo Stadio Olimpico e venne promosso nonostante fosse stato appena indagato per la falsificazione del verbale di arresto nell’ambito del cosiddetto pestaggio Gugliotta, preso a calci e pugni sino alla vistosa perdita di un dente incisivo.

Così proseguendo per anni l’attività di gestione della piazza, anche al sopraggiungere nel 2017 della condanna ad 1 anno e 3 mesi, visto che è tuttora in servizio alla Questura di Roma, come capo dell’Ufficio prevenzione e soccorso pubblico da cui dipendono tutti gli equipaggi operativi della Capitale.

Tutto ciò aggravato dal fatto che nel suo fascicolo personale è stato annotato il coinvolgimento in due pregressi procedimenti penali, a suo tempo archiviati, ma che avrebbero dovuto essere premonitori: 2003 – denunciato per abuso d’ufficio da un manifestante, da lui tratto in arresto poi però non convalidato dall’autorità giudiziaria, quando era Vicedirigente del Commissariato di PS – Trevi Campo Marzio; 2008 – denunciato-querelato per lesioni, minacce e violenza sessuale da una propria dipendente quando era Dirigente del Commissariato di PS – Castro Pretorio, a seguito di un “incontro realmente accaduto tra i due la sera del 28.2.2008”, per cui comunque “il Questore di Roma non ha ritenuto di dover procedere disciplinarmente”, così contribuendo ad un’“escalation” che si sarebbe potuta prevenire.

Ma buon sangue non mente, considerato che Maurizio e Massimo sono i figli del famoso Prefetto Umberto Improta, per decenni uomo di punta del Viminale, noto anche per essere stato coinvolto nelle torture dei brigatisti prima e dopo la liberazione del generale USA Dozier; in concorso con il famigerato “dottor De Tormentis” e i “quattro dell’Ave Maria”, specializzati in “waterboarding” o “interrogatorio duro dell’acqua e sale: legavano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli facevano ingurgitare grandi quantità di acqua salata” (si veda l’inchiesta de l’Espresso del 6 aprile 2012).

 * Avvocato e Dottore di ricerca in diritto amministrativo. Già Vice questore aggiunto della Polizia di Stato, Docente di diritto costituzionale italiano e comparato e Cultore di diritto regionale europeo.

da Tpi.it

Dana resta in carcere ma continua a lottare. La solidarietà non si arresta

è ormai terminato il mio primo mese di detenzione. Di come sto e dei miei pensieri più personali vi scriverò dopo, ora vorrei dedicare qualche riga alle emergenza pandemica Covid-19.
Ieri sera in moltie abbiamo ascoltato il discorso di Conte e ogni giorno sfogliamo i giornali alla ricerca di qualche notizia sulle carceri e sulla tutela di noi detenute. Niente. Non vi riporto gli sfottò che girano su Bonafede, dal mio punto di vista sicuramente non un grande giurista, ma soprattutto un ministro che non sta facendo nulla per le carceri, luogo di assembramento per antonomasia.
Qui, dove le distanze di sicurezza anti-contagio non possono essere rispettate, il covid incombe come una minaccia fatale. Si spera, consapevoli e con il timore. Un paese civile attento alle fasce più deboli della popolazione (la popolazione detenuta è una di queste) si attrezzerebbe in maniera diversa. Il carcere non è un luogo isolato, decine se non centinaia di persone entrano ed escono ogni giorno per permettere il funzionamento, così come è organizzato.

Come si può pensare che questa non sia una popolazione ad alto rischio? Anzi mi correggo, sicuramente i nostri governanti lo sanno, ma non interessa perché qualsiasi azione a nostro favore andrebbe a scontrarsi con la pancia più forcaiola di questo paese, importante bacino di voti. E allora si attende e si spera, temendo l’interruzione dei colloqui con i propri cari e di parte delle attività che, col passare dei giorni, appaiono sempre più probabili. Per concludere, dall’alto dovrebbero arrivare dei provvedimenti per ridurre significativamente la popolazione detenuta, bisognerebbe poter essere soli in cella e potenziare i finanziamenti per per la salute di questa popolazione “fragile”. Ovviamente non credo questo accadrà, ma credo sia importante almeno dircelo.

Rispetto a me vi dico che sto bene. Ammetto di aver avuto qualche momento di sconforto, come potrebbe essere altrimenti, ma ora i giorni, poco alla volta, diventano più leggeri ed i miei movimenti si stanno adattando a questi spazi ristretti. Penso molto spesso alle due ore di libertà che, appena saputa la notizia della mia imminente carcerazione, mi sono presa andando a Castel Borello. Là avevo guardato dall’alto un pezzo della Valle, respirato a pieni polmoni e mi sono ripromessa, cosa che rinnovo quotidianamente, che non mi avrebbero allontanato dalla Valle e dai miei compagni di lotta. È così è.

Sono lì con voi, spero mi sentiate vicina. Questa forza interiore, che prendo dai ricordi, ma anche dall’affetto che ogni giorno ricevo dalle lettere, mi sta aiutando a costruire un nuovo equilibrio. Continuo a pensare che questa detenzione sia la nostra ennesima vittoria perché il potere è stato costretto a svelare il suo volto più feroce e vendicativo. È stato sotto gli occhi di tutti, non si potrà cancellare. Forse questa consapevolezza non servirà a risolvere la mia situazione attuale, ma resterà impressa in chi domani, insieme a tutti noi, vorrà lottare per una società più giusta. A breve potrò concludere la mia laurea specialistica (mi mancano due esami) e per noi detenute studentesse (siamo in un po’) è stata allestita un’aula studio al quarto piano. Questa cosa mi fa piacere non lo nego!
Frequento la biblioteca, leggo, scrivo, gioco a pallavolo. Insomma, bene così, nonostante tutto.
In questi giorni mi sto facendo grosse risate leggendo dell’affaire Muttone. Vedere i nomi di chi ci accusa da sempre fregiandosi di alte qualità morali, affiancati dal solito tema di corruzione e malaffare non ha prezzo.
Come si dice? La ruota gira! Speriamo giri sempre di più e che in tempi difficili come questi (a causa del covid) si riesca a continuare a lottare per ciò che è giusto, dare voce a chi da solo non ce la fa, difendere dalla devastazione i nostri territori e il nostro pianeta che ci chiede di fare in fretta.

Siate tenaci anche per me!
Un saluto ai Mulini che resistono, vi penso spesso!
Avanti No Tav!
Dana

Dana ha scritto questa lettera prima di ricevere risposta sull’istanza di sospensiva. Pertanto riportiamo un ulteriore commento da parte sua in seguito al rigetto dal parte del Tribunale:
“Il Tribunale di Sorveglianza, come già sapete, ha respinto l’istanza di sospensiva. Prevedibile direi, come anche l’immaginarsi le varie pressioni in gioco per non dover ammettere di aver agito nei miei confronti in maniera ingiusta. Sicuramente farò delle osservazioni più approfondite, per ora vi dico che con serenità affronterò i mesi che mi attendono qui in carcere.
Siamo dalla parte della ragione!”

da notav.info

Il tribunale boccia la sospensiva per Dana: prosegue l’ingiustizia.

Il Tribunale di sorveglianza di Torino ha bocciato la richiesta di sospensiva della carcerazione di Dana, presentata dai suoi legali, che hanno contestato accuratamente le motivazioni che hanno portato lo stesso tribunale a scegliere l’esecuzione della pena in carcere, bocciando qualsiasi forma alternativa, nonostante vi fossero tutte le condizioni. E’ l’ennesimo fatto grave ed ingiusto nei confronti di Dana, che risulta quindi l’unica, ad oggi, del gruppo dei 12 condannati ad essere stata mandata in carcere.

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 Carcere di Ivrea: una mano lava l’altra

 

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Siamo alle solite, viene chiesta l’archiviazione dal procuratore capo di Ivrea Giuseppe Ferrando per le denunce dei detenuti riguardanti maltrattamenti e violenze.

Un aspetto criticato di tutta questa vicenda riguarda una scelta di Ferrando, per lo svolgimento delle indagini si è avvalso della Polizia penitenziaria del carcere di Ivrea, alla quale appartengono gli indagati e le persone che, in virtù degli esiti di tali indagini, avrebbero potuto essere indagate.

Sarà quindi la procura generale di Torino a completare le indagini e mandare a processo gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Ivrea, accusati di aver pestato e vessato i detenuti. “Le indagini espletate dalla Procura della Repubblica di Ivrea appaiono sotto vari profili carenti” scrive il procuratore generale Francesco Saluzzo che ha firmato il provvedimento di avocazione di tre delle quattro inchieste sulle violenze nel carcere di Ivrea.

Da anni il garante dei detenuti, Armando Michelizza prima e ora Paola Perinetto, e l’associazione Antigone si battono perché venga fatta chiarezza su quanto è accaduto nel carcere tra il 2015 e il 2016.

L’avvocato Simone Filippi, che difende l’associazione Antigone, racconta così: “Ci abbiamo riflettuto bene prima di chiedere l’avocazione perché era qualcosa di non scontato. Sui 4 procedimenti però abbiamo visto un rallentamento eccessivo e azioni che non venivano fatte dalla procura di Ivrea“.

L’avvocata Marialuisa Rossetti, che rappresenta la garante dei detenuti, Paola Perinetti, attaccata in un articolo di STORIE DI POLIZIA PENITENZIARIA E SICUREZZASTORIE DI POLIZIA PENITENZIARIA E SICUREZZA , giornale on-line della stessa polizia penitenziaria, si esprime così: “C’è molta soddisfazione per la decisione della procura generale che ha deciso su tre delle quattro richieste di avocazione”


C’è attesa rispetto alla quarta richiesta di avocazione, quella che riguarda la repressione violenta delle proteste nel carcere, avvenuta tra il 25 e il 26 ottobre 2016, e denunciata per prima da una lettera dei detenuti pubblicata dal nostro sito InfoAut e ripresa poi da Repubblica.

 

In un comunicato la procura generale di Torino esprime un parere negativo sull’operato di quella di Ivrea e dichiara che contrariamente a quanto riportato per l’archiviazione vi sarebbe un detenuto con referti medici di escoriazioni su gambe, braccia, polsi e sanguinamento nasale e avrebbe riferito di essere stato immobilizzato a trasporto di peso da alcuni agenti di polizia penitenziaria, qui però nessuna indagine è stata svolta per circostanziare i fatti e i maltrattamenti.

L’elenco delle mancanze, già denunciate dal garante e da Antigone, l’associazione che si occupa della difesa dei detenuti, è lungo in quanto le uniche indagini svolte si sono concretizzate nell’acquisizione, presso la Casa circondariale di Ivrea, del registro delle sanzioni disciplinari, da cui risulta che dal 7 al 17 agosto 2015 il detenuto è stato sottoposto a isolamento.

Ora non ci resta che aspettare ed attendere le indagini, forse un po’ in ritardo, della procura di Torino.