Violentato dal padrone, ucciso dallo stato. Un’ingiustizia che grida vendetta!

Un 22enne di origini senegalesi, che aveva denunciato le violenze sessuali subite, si è tolto la vita in carcere a Brescia dove era arrivato venerdì 2 ottobre. Era in detenzione domiciliare per fatti di droga e per non essersi presentato dai medici che lo avevano in cura, ma il tribunale di sorveglianza aveva aggravato la misura cautelare disponendo per lui il trasferimento in carcere.

Proprio nella sua cella, il ragazzo si è suicidato: non sono al momento state comunicate né la data esatta né le circostanze del decesso.

Due particolari circostanze gettano ombre inquietanti su quello che è l’ennesimo suicidio in un carcere italiano. Stando a quanto riportato, infatti, il giovane soffriva di depressione. Era sprofondato nella malattia, certificata anche dai medici, dopo che aveva denunciato di essere stato violentato da un imprenditore locale. Una brutta storia sulla quale stava indagando la procura di Brescia, che era prossima a chiudere l’indagine a carico dell’accusato. Secondo il racconto della vittima, l’imprenditore offriva denaro e capi di abbigliamento di note marche in cambio di rapporti sessuali: in questa maniera l’uomo avrebbe abusato per anni del giovane, che aveva poi trovato il coraggio di denunciarlo. Quello del 22enne è il 45esimo suicidio in carcere in Italia nel 2020, stando a una tabella pubblicata sul sito web “Ristretti.it”: l’anno scorso erano stati 53, mentre nel 2018 i detenuti che si sono tolti la vita erano stati 67. Cifre che documentano un’emergenza nazionale.

Milano si sveglia con una nuova prigione. Domenica 25/10 ore 15.30 PRESIDIO AL CPR DI VIA CORELLI

È incredibile, ma in un momento come quello che stiamo vivendo, tra paure e impoverimento generalizzato, chi governa la città non trova niente di meglio che aprire una nuova prigione.
Gente che, partendo da paesi in cui l’ansia di profitto dei predatori ha rubato terre e risorse offrendo in cambio guerre, quando riesce ad arrivare in questo paese, senza perdere la vita in mare o alle frontiere, cosa trova? Barriere, barriere mai riservate a chi viene dalla parte “giusta” della terra. Barriere che lo obbligano a controlli fisici, psicologici, burocratici, incolonnato come bestiame, selezionato, diviso dai suoi affetti, infilato in strutture dentro le quali dovrà chiedere, chiedere tutto. Con garbo e obbedienza, perché è indesiderato. E poi il girone infernale delle carte da fornire per avere il permesso di restare, per ottenere il privilegio di restare. E la minaccia è nel rifiuto delle richieste, nel vuoto totale che gli si aprirà davanti se qui non lo si accetta. Un rifiuto diventa, lui o lei stessa, da ricacciare indietro e, intanto, rinchiudere in un CPR.

Centro per il Rimpatrio, prigione, lager perché, come per quelli di orribile memoria, si tratta di detenzione amministrativa. Rinchiusi, e nemmeno come punizione per un reato commesso o presunto, ma perché si è privi di un documento. Un documento che è chiaramente un pretesto essendo, per chi è stato reso clandestino, difficilissimo da ottenere. Dentro quelle mura resterà mesi, trattato da quel rifiuto che qui è diventato, in attesa del rimpatrio. Le condizioni all’interno di questi centri sono ormai conosciute, ampiamente. Ammassati insieme a sconosciuti provenienti da luoghi e culture diverse, a volte incompatibili, con assistenza sanitaria che definire inadeguata è un eufemismo, imbottiti di psicofarmaci per mantenere l’ordine interno, alimentati con cibo insufficiente e avariato, senza assistenza legale. Giornate passate nella passività più totale, nell’attesa di essere ricacciati da dove si è fuggiti per pericolo, per fame o anche solo per desiderio. Vite rubate.

E fuori? Chi vede e sa dell’esistenza di questi nuovi lager, cosa pensa? Che sia giusto rinchiudere gli immigrati? Che siano loro la causa delle difficoltà a trovare un lavoro, a pagare un affitto, a sopravvivere in questo sistema in cui al massimo si galleggia con la testa fuori dalla melma?

Quando si guarda indietro alla storia del novecento, si dice che quegli orrori, quelle persecuzioni non devono accadere mai più. Ma eccoli qui di nuovo. Quelli di oggi non sembrano gli stessi, non li si vuole riconoscere. Invece si tratta della stessa storia, quella in cui si individua un nemico con il quale prendersela, di solito un miserabile più miserabile di noi che viene additato come responsabile delle nostre miserie quotidiane. È una trappola concepita, da tempi immemorabili, da chi governa il mondo per mantenere i miserabili divisi tra loro, per mantenersi in groppa al potere facendo massacrare tra loro i sudditi, che mai devono individuare il vero nemico, mai devono unirsi per aggredirlo, finalmente.

Il 25 ottobre saremo lì, davanti quelle mura che tornano a “ospitare” un centro di reclusione per immigrati senza permesso di soggiorno. Per dire che questo abominio non è ammissibile, che chiunque dovrebbe potersi muovere liberamente, da qualunque parte della terra provenga, senza dover soggiacere a trattamenti così disumani, che il razzismo è una creazione della propaganda dei potenti che fa leva su bassi istinti rancorosi, ma che serve solo a loro per mantenersi saldi nella posizione di comando. Insomma saremo lì per vedere se potrà mai essere possibile trovare la forza, la determinazione, la strada per lottare contro gli orrori odierni.

Dal carcere di Terni: protesta in solidarietà agli anarchici Beppe e Davide

Inizio di uno sciopero del carrello della durata di 2 settimane, dal 19 di Ottobre al 1 Novembre.

Stiamo assistendo da parte dello Stato ad un attacco su più fronti alle pratiche di solidarietà:

Viene colpito chi manifesta la propria solidarietà a prigioniere e prigionieri in lotta. Viene colpito chi dentro il carcere risponde alle provocazioni dei secondini e chi riceve solidarietà per le lotte intraprese. Viene colpito chi ha partecipato alle rivolte e alle proteste nelle carceri degli ultimi mesi, rivolte che in Italia hanno registrato 14 morti, con rappresaglie che vanno dai pestaggi e le sanzioni disciplinari fino ai processi con accuse in alcuni casi perfino di devastazione e saccheggio.

Durante l’emergenza Coronavirus e le rivolte lo Stato ha seppellito ancora di più noi detenuti/e in bare di cemento armato e sbarre, trattandoci come topi in una nave che affonda e isolandoci completamente dal mondo tagliando tutti i pochi ponti che ci collegavano con l’esterno. Le condizioni di vita nelle carceri italiane e il fuoco che cova costantemente sotto le ceneri unite a ciò che stava accadendo ha fatto in modo che la situazione diventasse a molti e molte insopportabile. Senza le rivolte delle persone recluse probabilmente oggi tutti noi saremmo di fatto completamente isolati nelle carceri, senza la possibilità di contatto con i nostri cari, con i nostri affetti, persino con i/le nostri/e avvocati/e.

Come anarchici non scordiamo le responsabilità dello Stato e della società capitalista: lo stile di vita consumista è la causa principale di questa pandemia che ha inasprito l’isolamento sociale, il razzismo, il patriarcato, tanto dentro le carceri che fuori di esse, così come lo sfruttamento sfrenato, l’inquinamento e l’avvelenamento che continuano a compromettere le possibilità di una vita degna per tutto questo pianeta.

Per tutti questi motivi rinnoviamo la nostra solidarietà a chi si ribella e che lotta, tanto dentro le carceri quanto nel mondo intero, e a tutte le individualità anarchiche indagate, prigioniere, quelle colpite da misure restrittive della libertà e a quelle latitanti, in special modo ora che dobbiamo affrontare i numerosi processi per terrorismo che sono la conseguenza della lotta anarchica portata avanti con passione e determinazione.

Per tutti questi motivi noi anarchici della sezione AS2 di Terni comunichiamo che cominciamo uno sciopero del carrello della durata di 2 settimane, dal 19 Ottobre al 1 Novembre per esprimere solidarietà all’anarchico Beppe, rinchiuso in maniera punitiva nella sezione protetti del carcere Pavia chiedendo che venga trasferito, e all’anarchico Davide Delogu, rinchiuso nel carcere di Caltagirone e sottoposto all’art. 14 bis per il suo atteggiamento ostile alla domesticazione del carcere, chiedendo che venga tolto dall’isolamento e revocato il regime detentivo vessatorio a cui è sottoposto da tempo.

PER LA DIFESA E LA PROPAGAZIONE DELLE PRATICHE DI SOLIDARIETA’

PER L’ANARCHIA!

Carcere di Terni, sezione AS2, Settembre 2020

(data di invio della lettera: 23/09/2020)

Napoli. Morire a 17 anni, con una pistola giocattolo

Luigi Caiafa, diciassette anni, è il nuovo caso di un giovanissimo ucciso dalle forze dell’ordine a Napoli, in una dinamica che aspetta ancora di essere chiarita. Le prime notizie filtrate alle agenzie di stampa dalla Questura di Napoli riportavano di uno “scontro a fuoco” con un’autocivetta della polizia in borghese (della squadra dei “falchi”), in seguito a un tentativo di rapina – nella notte tra sabato e domenica – ai danni dei passeggeri di una Mercedes nel centro storico della città, nell’area dove via Duomo incrocia la zona portuale.

Luigi era in compagnia di un altro coetaneo, che ha catalizzato l’attenzione dei media mainstream molto più del ragazzo ucciso, perché figlio di un ex capo ultras del Napoli calcio, arrestato per traffico di stupefacenti e divenuto poi “collaboratore di giustizia”.

Ma come è accaduto molte altre volte, quando ad essere coinvolte in un caso di omicidio sono le forze dell’ordine, la prima ricostruzione che viene fatta filtrare alla stampa in maniera informale si rivela spesso inesatta. E sembra davvero uno strano paradosso, se pensiamo che in questi casi la Questura si avvale di testimonianze dirette degli agenti… O forse proprio per questo.


Fake news istituzionali, che innescano una prevedibile e rituale catena di dichiarazioni, come quelle del capo della polizia Gabrielli che ha immediatamente espresso solidarietà agli agenti “che rischiano la vita per la sicurezza pubblica“. E dispongono un atteggiamento dei media preventivamente assolutorio (“l’agente non è indagato“, titola il Mattino fin dal primo momento).

Col passare delle ore si è appreso invece che la “sparatoria” è stata un monologo, perché i due ragazzi avevano una pistola finta. Gli agenti in borghese avrebbero esploso tre colpi ad altezza d’uomo, uno dei quali avrebbe ferito mortalmente Luigi alla gola.

La dinamica, oltre che dalle testimonianze delle persone all’interno della Mercedes e dai video delle telecamere stradali, potrebbe essere chiarita dall’autopsia e dalla balistica, sperando che questa volta il risultato sia pubblico in tempi brevi.

E’ impossibile infatti non ricordare il caso di Ugo Russo, ragazzo dei Quartieri Spagnoli di soli quindici anni, che nella notte del 1 marzo scorso fu ucciso da un carabiniere fuori servizio a cui aveva cercato di rapinare il Rolex da polso.

Anche Ugo era in possesso di una pistola giocattolo, e il carabiniere reagì sparando ben cinque volte. Tre colpi raggiunsero il ragazzo, l’ultimo alla nuca, mentre il corpo giaceva a diversi metri dall’auto a cui inizialmente si era avvicinato per il tentativo di rapina.

Una scena che è sembrata a tanti quella di un’autentica esecuzione, una “pena di morte senza processo“, come ha denunciato la sua famiglia, mentre il militare è sotto indagine per omicidio.

Ma ad oltre sette mesi dallo svolgimento dell’autopsia non esiste ancora un referto ufficiale, lasciando campo aperto a qualsiasi ipotesi (anche le peggiori). Nel luglio scorso una manifestazione di centinaia di persone che chiedeva “Verità e Giustizia” si diresse sul luogo dell’omicidio in via Orsini, alle spalle della Regione Campania.

Una lunga scia di sangue, che riporta alla mente la morte violenta di altri giovanissimi come Davide Bifolco e Mario Castellano, uccisi negli anni scorsi a Napoli, in quei casi con l’unica responsabilità di non essersi fermati all’alt di carabinieri e polizia.

Tragedie che pongono con forza la questione della formazione e degli abusi nell’uso delle armi da fuoco da parte di chi costituzionalmente detiene un potere letale: il “monopolio della violenza legittima“.

Un aspetto ricorrente in queste situazioni è il maltrattamento della famiglia, sia mediatico che istituzionale. Il padre di Luigi ha rivelato in un’intervista che fino alle 15 di ieri pomeriggio nessun esponente della Questura di Napoli si era messo in contratto con loro per spiegare l’accaduto e di aver quindi appreso della morte del figlio in maniera brusca e informale.

Ossia dopo che, preoccupati per il suo mancato ritorno a casa, si sono recati la mattina seguente sotto la sede della Questura, in via Medina, perché gli è stata segnalata la presenza del motorino.

Un poliziotto all’ingresso gli ha a quel punto riferito che il corpo del figlio era all’obitorio…

Intanto i parenti dell’altro ragazzo, Ciro De Tommaso, affermano addirittura che non si sarebbe trattato di un tentativo di rapina, ma dello scherzo a dei conoscenti del quartiere. Aspetti, almeno questi, che dovrebbero essere chiariti nelle prossime ore.

Luigi Caiafa era diventato garzone di pizzeria, dopo aver trascorso un periodo nel carcere minorile. Ugo Russo lavorava come muratore, garzone di un bar e poi di una rivenditoria di frutta. Non esattamente il cursus honorum di chi punta a una carriera nello stile di “gomorra”, secondo le suggestioni puntualmente evocate dai mass media.

Mentre anche la pietà umana sembra ridotta a un dato formale e retorico, risuona il silenzio delle istituzioni sulla condizione di questi ragazzi e di centinaia di altri, quasi sempre abbandonati dalla scuola e marginalizzati, insieme alle proprie famiglie, in un’esistenza precaria e senza prospettive.

Nell’ex “città porosa”, dove l’ascensore sociale è bloccato da tempo.

P.s. Piccola lezione di lingua italiana per i giornalisti mainstream: “scontro a fuoco” si dà quando si affrontano persone dotate di armi da fuoco e ne fanno uso (indipendentemente dal numero di colpi esposi). Quando invece una delle due parti è effettivamente disarmata – pur maneggiando un’imitazione di arma – si dovrebbe scrivere qualcos’altro…

Da Contropiano

Ancora morti nel carcere assassino. Pagherete caro, pagherete tutto

Dall’inizio dell’anno sono 44 i suicidi in carcere. Si tratta spesso di giovani vite che non riescono a sopravvivere alla bruttura del sistema, o di persone malate che non ricevono cure adeguate e tempestive.

Così un detenuto di 24 anni si è tolto la vita a Rebibbia dopo il rifiuto dei colloqui con i suoi figli

Anche di queste morti lo stato assassino dovrà rendere conto.

Modifica ai decreti sicurezza, un’operazione di facciata

Dopo mesi di tergiversazioni sono state approvate ieri notte dal governo giallorosa le modifiche ai decreti sicurezza.

Le modifiche prevedono il ripristino del permesso umanitario chiamato “permesso speciale” e del sistema di accoglienza diffuso Sprar per tutti i richiedenti asilo e non solo per rifugiati e minori e sono ridotti i tempi di trattenimento nei centri per il rimpatrio da 180 a 90 giorni. Mentre  rimangono in piedi le multe per le navi ong, che però sono diminuite. La violazione del divieto di ingresso inoltre diventa penale e non più amministrativo, quindi dovrà entrare in gioco una procura e un tribunale e non solo il ministero dell’interno. I tempi per la cittadinanza passano dai quattro anni previsti dall’attuale decreto a tre anni. Ma le norme su “immigrazione, sicurezza e accoglienza” prevedono anche in base nuovo decreto anche l’arresto immediato e direttissima per chi arrechi danni a un centro di permanenza e rimpatrio, insomma per chi migrante si rivolta dentro il suo lager.

Rimane intatto, invece,  tutto l’impianto sulla repressione e  criminalizzazione delle lotte sociali.  Rimangono immutate le pene vergognose contro il blocco stradale (fino a 6 anni) strumento utilizzato in qualsiasi scenario di conflitto sul lavoro e vertenza territoriale e studiate appositamente per opporsi alle lotte della logistica e all’opposizione al Tav. Immutate anche le norme più restrittive per chi porta in piazza strumenti difensivi come caschi e scudi o per chi effettua dei “lanci” (per esempio di vernice o materiale pirotecnico) che non vanno a colpire nessuno.

Si è aggiunto, inoltre, su proposta  del ministro della Giustizia Bonafede  e dell’Interno Lamorgese la possibilità per i questori di disporre il Daspo dai locali pubblici per chiunque sia stato denunciato o condannato per atti di violenza all’esterno di un locale pubblico. Inasprite anche le pene per chi partecipa a una rissa , facendo salire la multa da 309 a 2.000 euro e la reclusione – se qualcuno resta ferito o ucciso -da un minimo di sei mesi a un massimo di sei anni. Per chi non rispetta il Daspo è prevista la reclusione fino a due anno e una multa fino a 20.000 euro. Altra novità riguarda il Daspo per chiunque sia stato denunciato o condannato perché sorpreso a spacciare davanti a scuole, università negozi o locali e l’istituzione di un elenco dei siti utilizzati sempre per lo spaccio.

C’è anche un inasprimento della pena per chi favorisce i detenuti sottoposti al regime di 41 bis. L’emendamento, proposto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, prevede pene più severe per chi agevola, in qualsivoglia modo, il detenuto al 41bis: si passa da 1 a 4 anni al da 2 a 6 anni. Nei casi di ipotesi aggravata, ovvero se il reato è commesso da un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o da chi esercita la professione forense, il reato da 2 a 5 passa da 3 a 7 anni. Si stabilisce, inoltre un rafforzamento delle sanzioni applicate in caso di comunicazioni dei detenuti al carcere duro e si prevede una nuova fattispecie di reato che sanziona chi introduce o detiene all’interno di istituti penitenziari telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazioni.

Non è quindi vero che il nuovo decreto sicurezza rappresenti un reale superamento dei decreti Salvini, neanche sulla questione immigrazione.

Per l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione: “Il decreto Lamorgese reintroduce la protezione umanitaria e d’altra parte allo stesso tempo ripassa allo Sprar quindi ad un sistema di accoglienza più strutturata ( pur sempre teorica perchè nella pratica non ci sono posti) la competenza sull’accoglienza dei richiedenti asilo: quindi riporta queste due questioni ad un sistema che è precedente al Decreto Salvini; viceversa non tocca, anzi peggiora, la condizione complessiva di detenzione dei richiedenti asilo e le procedure accelerate per valutare le loro domande, a cui è sottoposto il richiedente che arriva, ledendo le  garanzie ed il diritto d’asilo“.

Inoltre, per l’avvocato dell’Asgi,  il nuovo decreto lascia sostanzialmente inalterato l’attacco alle ONG che si interessano del soccorso dei migranti.

L’analisi critica ai microfoni di Radio Onda d’Urto dell’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi Ascolta o scarica