Archivio mensile:Marzo 2023
Israele ripristina la pena di morte per i palestinesi
Il governo Netanyahu approva la proposta di legge, promessa elettorale dell’ultradestra. Nel mirino i palestinesi. Piovono già condanne: «Crudeltà aggravata dalla discriminazione su base etnica» Amnesty International: «Apartheid»
Da Osservatorio repressione
di Chiara Cruciati
Itamar Ben Gvir lo aveva promesso appena nominato ministro della sicurezza nazionale, due mesi fa: tra le priorità del suo dicastero ci sarebbe stata la reintroduzione della pena di morte in Israele per i palestinesi accusati di terrorismo. Domenica la promessa si è concretizzata nel primo passo della futura legge: il comitato ministeriale sulla legislazione ha approvato un disegno di legge che istituisce la pena capitale per i terroristi.
Via libera del governo Netanyahu, dunque, nonostante il parere contrario (e in teoria vincolante) della procuratrice generale Gali Baharav-Miara che ha definito la proposta «incostituzionale» (a maggior ragione, dice, nella parte che fa riferimento ai Territori occupati, essendo appunto illegalmente occupati).
A presentare il disegno di legge è stato Otzma Yehudit, il partito di ultradestra Potere ebraico, che dettaglia il concetto di «terrorista»: chiunque «intenzionalmente o meno causa la morte di un cittadino israeliano quando l’atto è compiuto per motivi razzisti o di odio e con l’obiettivo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella propria patria».
Definizione ampia e che non indica i palestinesi come primo obiettivo (tra l’altro, il 20% dei cittadini israeliani è palestinese) da cui la necessità di Ben Gvir e del premier Netanyahu di dare qualche dettaglio in più, indicando nell’uccisione di due coloni israeliani vicino Nablus la molla finale della proposta di legge. La stessa stampa israeliana, a partire dal Jerusalem Post, indica come assai improbabile che a essere condannato a morte possa essere un ebreo che assassina un palestinese.
A livello internazionale le reazioni non sono certo di giubilo. Già qualche giorno fa Amnesty aveva condannato la proposta sia per la crudeltà della pena di morte sia perché la legge «è il tentativo di creare una distinzione su base etnico-nazionalista e questo la rende una legge di apartheid». Condanna anche dagli esperti Onu: «Passo profondamente regressivo» che «tra l’altro si applicherà alle minoranze e a chi vive da 55 sotto occupazione».
da il manifesto
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La pena di morte per puntellare l’apartheid israeliana
Al di là dell’impressione suscitata dall’assistere a un passo del genere proprio nell’unico stato del Medio Oriente in cui la pena capitale non è applicata, il testo lascia sgomenti: per com’è scritto, è evidente che non riguarderà il caso, contrario, in cui l’omicida sarà un ebreo e l’ucciso un palestinese
di Riccardo Noury – portavoce di Amnesty International Italia
Nonostante la procuratrice generale avesse avvisato che sarebbe stato meglio valutare prima se il provvedimento avrebbe potuto avere qualche effetto deterrente, domenica scorsa il comitato legislativo del governo israeliano ha dato via libera alla legge sulla pena di morte.
Secondo il testo proposto dal partito di destra Otzma Yehudit, che ieri ha passato il primo voto in parlamento, «chi intenzionalmente o meno causa la morte di un cittadino israeliano, se l’atto è portato a termine per motivi razzisti o di odio allo scopo di danneggiare lo stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua patria», è passibile di pena di morte.
Se il crimine è commesso in Cisgiordania, la pena verrà inflitta da un tribunale militare anche in caso di non unanimità del verdetto.
IL MINISTRO per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato che «si tratta di una legge morale, tanto più necessaria in uno stato in cui i cittadini israeliani vengono presi di mira da un’ondata di terrorismo, e che esiste nella più grande democrazia del mondo», un chiaro riferimento agli Stati uniti. Che dunque non avranno motivo di protestare. Nella nota di accompagnamento alla legge, si fa riferimento al «grande effetto deterrente» della pena di morte, che peraltro proprio negli Stati uniti ha dimostrato di non esistere.
Al di là dell’impressione suscitata dall’assistere a un passo del genere proprio nell’unico stato del Medio Oriente in cui la pena di morte non è applicata (il numero globale è di 144 stati, l’ampia maggioranza del pianeta) e del ritorno della mai dimostrata idea della «deterrenza», il testo lascia sgomenti: per com’è scritto, è evidente che non riguarderà il caso, contrario, in cui l’omicida sarà un ebreo e l’ucciso un palestinese.
Non a caso, Amnesty International Israele ha preso una posizione ferma: l’organizzazione per i diritti umani ha definito la legge «un altro tassello di un colpo di stato legale che intende aggirare se non eliminare gli ultimi contrappesi che, di tanto in tanto, hanno cercato di difendere i diritti umani delle minoranze: un colpo di stato legale nato dalla contorta idea della supremazia ebraica e che intende legittimarla».
Siamo di fronte a un altro tassello del sistema di apartheid israeliano: una legge che crea una distinzione su base nazionale ed etnica tra chi compie un omicidio e di cui si propone l’applicazione anche dove la legge della Knesset non ha competenza e dove regnano le ordinanze militari, ossia nei Territori occupati palestinesi.
L’ORRORE è che il sistema dell’apartheid si rafforzi attraverso una legge sulla pena di morte. L’Europa, che ha una consolidata posizione abolizionista e che è da tempo promotrice delle risoluzioni contro la pena di morte all’Assemblea generale delle Nazioni unite, prenderà posizione? O prevarrà, come sempre quando si tratta di diritti umani, «l’eccezione Israele»?
Anche di questo si parlerà il 14 marzo a Roma, in un convegno in programma alle 15.30 all’Università La Sapienza cui prenderanno parte, tra le altre, Francesca Albanese (relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967), Leila el Houssi (docente di Storia e istituzioni dell’Africa presso la facoltà di Scienze politiche, Sociologia e Comunicazione), la giornalista e scrittrice Paola Caridi e, per Amnesty International, la coordinatrice delle campagne Tina Marinari.
Oggi a Bari studenti contro la repressione
BARI. SEI STUDENTI DENUNCIATI PER UNO STRISCIONE IN UNIVERSITA’ CONTRO LA GUERRA. NON ABBIAMO PAURA, LA LOTTA NON SI FERMA!
++ Conferenza stampa giovedì 2 marzo ore 15:00 ingresso del Politecnico in Via Orbona ++
Sei militanti della nostra organizzazione, tutti studenti dell’Università di Bari, sono stati perquisiti e denunciati nella giornata di sabato 25 febbraio per aver esposto davanti al Politecnico uno striscione – poi sequestrato – di denuncia contro gli accordi tra l’ateneo e le industrie belliche, un’azione compiuta in collegamento con la manifestazione nazionale chiamata dai lavoratori portuali a Genova che ha visto nello stesso giorno scendere in piazza oltre diecimila persone in opposizione alla guerra e dove, come studenti e universitari, ci siamo mobilitati a fianco della lotta per bloccare il transito delle armi nei porti.
Vogliamo subito mettere in chiaro che non indietreggeremo minimamente davanti a queste intimidazioni, siamo convinti delle ragioni della nostra protesta e del fatto che dentro le nostre università debba esserci garantito spazio di agibilità politica e democratica.
La nostra organizzazione da tempo è impegnata nel portare allo scoperto il tema delle numerose relazioni tra industria bellica e mondo accademico. Non solo il Politecnico ma anche l’Uniba sono, infatti, al centro di una massiccia operazione che vede schierati in prima fila industrie belliche e il Ministero della Difesa in ottica di rafforzamento militare del quadrante Mediterraneo.
La guerra in corso in Ucraina, che vede coinvolta l’Italia dentro l’alleanza atlantica della NATO, sta portando ad un irrigidimento del controllo sul “fronte interno” e ad un irrequietudine del controllo politico su quello che si muove nel paese e dunque anche nelle università. Ma non saranno queste denunce a fermare le nostre lotte. Con ancora maggiore convinzione continuiamo la mobilitazione, diamo appuntamento giovedì 2 marzo ore 15:00 all’ingresso di Via Orbona del Politecnico di Bari per una conferenza stampa.
“Pronto a morire per far capire al mondo cosa è il 41bis” Lettera di Alfredo Cospito dal carcere
La lettera dal carcere di Alfredo Cospito: “Oggi sono pronto a morire per far capire al mondo cosa sia veramente 41-bis, mentre 750 persone lo subiscono nel silenzio”
Durante la conferenza stampa in Senato a cui hanno partecipato Luigi Manconi e la parlamentare Ilaria Cucchi, Flavio Rossi Albertini, legale di Cospito, ha letto una lettera inviata da Alfredo dal carcere, quando era detenuto a Sassari, in cui annuncia le sue intenzioni: “Il più grande insulto per un anarchico è quello di essere accusato di dare o ricevere ordini. Quando ero al regime di alta sorveglianza avevo comunque la censura e non ho mai spedito pizzini, ma articoli per riviste anarchiche, mi era permesso di leggere, di evolvere. Oggi sono pronto a morire per far capire al mondo cosa sia veramente 41-bis, mentre 750 persone lo subiscono nel silenzio”
“Sono convito che la mia morte – si legge– porrà un intoppo a questo regime e che i 750 che subiscono da decenni il 41-bis possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto. Amo la vita, sono un uomo felice non vorrei scambiare la mia vita con quella di un altro. E proprio perché la amo non posso accettare questa non vita senza speranza“.
L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha spiegato: “È uno scritto passato per la censura, la difesa ritiene di poterne dare lettura proprio perché il detenuto al 41-bis non può fornire indicazioni ai sodali all’esterno ma non è un soggetto a cui è stata tagliata la lingua o la mano. Stiamo parlando di una battaglia di civiltà bisogna salvaguardare il diritto del detenuto di poter parlare, anche al 41-bis. In queste righe non dà alcuna indicazione o ordine ai sodali ma spiega perché dal suo punto di vista non è possibile passare anni, una vita al 41-bis”.
“Ritenere che un anarchico possa dare ordini fa vivere ad Alfredo Cospito questa detenzione come un evidente violenza. Un anarchico che dà ordini è un ossimoro”, ha aggiunto il legale e sulla presunta vicinanza alla criminalità organizzata, Flavio Rossi Albertini ha precisato: “Cospito non aveva alcuna intenzione di unirsi ai mafiosi per alcun progetto, se non quello condiviso di detenuti al 41-bis“.
Le dichiarazioni in conferenza stampa di Flavio Rossi Albertini e Luigi Manconi Ascolta o Scarica