Sabato 12 Giugno, ore 18:30
@Mensa Occupata
La morte di Moussa Balde, il 23 maggio, nei così detti “ospedaletti” del CPR di Torino, ci interroga, come cittadini e come giuristi, su alcune fondamentali questioni in merito al trattamento oggi riservato ai migranti.
Moussa Balde è stato trattenuto al C.P.R., e prima ancora è stato condotto presso gli uffici di polizia di Ventimiglia, perché cittadino straniero irregolare, subito dopo aver subito una selvaggia aggressione da parte di tre italiani, a Ventimiglia, il 9 maggio. Per quanto noto in questa fase, la sua condizione di persona offesa è stata immediatamente dimenticata, a causa dell’irregolarità del suo soggiorno, e non gli era stata fornita alcuna delle informazioni conseguenti, quali, tra l’altro, la facoltà di presentare denunce o querele, il diritto di chiedere di essere informato sullo stato del procedimento, la possibilità di avvalersi dell’assistenza linguistica. Gli è stato di fatto negato il diritto di partecipare al procedimento penale. Moussa Balde aveva anzi riferito di non avere neppure compreso che l’aggressione avesse generato delle indagini, che i suoi aggressori fossero stati identificati, né tantomeno sapeva che c’era un video che aveva ripreso quella aggressione (all’ingresso nel CPR i trattenuti vengono privati dei telefoni cellulari, benché la legge garantisca la libertà di comunicazione anche telefonica con l’esterno, e non hanno accesso ad internet). Questa prima parte della vicenda conferma per l’ennesima volta che per lo Stato italiano la persecuzione degli stranieri privi di un permesso di soggiorno è considerata una priorità assoluta, da esercitare a qualunque costo, anche a scapito di diritti fondamentali (in alcuni casi, e il Mediterraneo ne è muto testimone, anche della vita dei migranti).
L’altra grande questione che la tragedia di Moussa Balde solleva riguarda ciò che accade dentro i CPR italiani, e dentro il CPR di Torino in particolare.
Moussa Balde vi è stato rinchiuso senza alcuna valutazione preliminare sulla sua idoneità psichica al trattenimento e ciò nonostante le presumibili conseguenze di un’aggressione tanto violenta. Appena entrato al C.P.R., è stato privato del telefono cellulare ed è stato collocato nei c.d. “ospedaletti”, vere e proprie celle di isolamento non previste dalla normativa, separate dalle altre aree, lontane dagli uffici e dall’infermeria, dove è impossibile effettuare un controllo o un’osservazione di chi vi è rinchiuso. Luoghi in cui una patologia psichiatrica o una semplice depressione sono destinati ad aggravarsi e dove è purtroppo molto facile, in solitudine, compiere gesti anticonservativi.
Lo stesso CPR, le medesime camere di isolamento, dove, nel luglio del 2019, era morta un’altra persona, Faisal Hussein, affetto probabilmente da problemi psichici e abbandonato per cinque mesi nella segregazione del C.P.R. di Torino.
La vicenda di Moussa Balde ci deve ricordare quali sono le effettive priorità, che i diritti fondamentali non possono essere sacrificati e che non possono esistere luoghi di detenzione privi di regole, dove la vita delle persone è consegnata all’arbitrio.
I C.P.R. (che per ignoranza qualcuno continua a chiamare “centri di accoglienza”) sono strutture in cui le persone trattenute vengono private della loro umanità, parcheggiate e abbandonate, in condizioni peggiori rispetto a quelle esistenti in carcere, proprio per la carenza di regole e di garanzie. Anche i pochi diritti riconosciuti vengono sistematicamente calpestati da quella stessa pubblica amministrazione che le regole è chiamata a far osservare (e che sanziona con la privazione della libertà personale e con l’espulsione chi ha violato la normativa sul soggiorno).
Tra le numerose violazioni rilevate, queste le più gravi:
– la verifica dell’idoneità sanitaria al trattenimento viene fatta da medici interni del CPR, e non, come previsto dall’art. 3 del Regolamento CIE emanato dal Ministero dell’Interno il 2.10.2014 prot. n. 12700, da medici esterni afferenti alla ASL o alle strutture ospedaliere, prima dell’ingresso. E – come il caso di Moussa Balde dimostra con brutale evidenza – nessuna verifica di compatibilità psichica viene effettuata;
– il sostegno psichiatrico non è stato garantito dal marzo 2020 al febbraio 2021 e rimane comunque insufficiente e discontinuo;
– vengono trattenute persone presunte minorenni, in aperto contrasto con la normativa vigente;
– sebbene la legge non consenta l’isolamento dei trattenuti, la misura viene abitualmente e arbitrariamente utilizzata, senza obbligo di motivazione né possibilità di impugnazione o riesame;
– durante l’isolamento, i trattenuti vengono ristretti in celle pollaio, che ricevono luce solare per poche ore al giorno solo nel cortile (con visuale oltretutto limitata da una tettoia), senza diritto di uscire né di usare un telefono;
– vengono utilizzati luoghi di trattenimento non ufficiali (le celle di sicurezza nel seminterrato), nemmeno dichiarati al Garante nazionale e scoperti casualmente da quest’ultimo in occasione della visita del 2.3.2018;
– in spregio al diritto alla libertà di comunicazione con l’esterno sancita dall’art. 14, comma 2 del Testo Unico sull’Immigrazione e dall’art. 20, comma 3, del Regolamento di attuazione, i trattenuti vengono privati del telefono cellulare, così perdendo anche l’accesso ad internet, principale strumento di comunicazione e di informazione; le telefonate possono essere effettuate solo verso l’esterno, a pagamento e con linea fissa, con la conseguenza che, in considerazione dei costi, è estremamente difficile mantenere contatti con i parenti all’estero; i trattenuti non possono ricevere, privati del proprio apparecchio cellulare, chiamate dall’esterno, avendo sempre l’amministrazione rifiutato di fornire le utenze dei telefoni installati nel centro;
– i colloqui con i familiari e i conoscenti sono sospesi da oltre un anno e non è stato attivato alcun sistema di colloqui in videoconferenza, pur a fronte di trattenimenti che possono protrarsi per diversi mesi;
– i trattenuti vengono costretti in moduli abitativi sovraffollati, con servizi igienici non separati dai luoghi di pernottamento e privi di porte;
– non sono presenti mediatori culturali di lingue e Paesi rappresentati nel CPR.
A ciò si aggiunge il tema della competenza a decidere in materia di libertà personale ai giudici di pace, che tale competenza non hanno in alcun altro ambito. Si ricorda in merito il risultato delle ricerche dell’Osservatorio sulla giurisprudenza del giudice di pace in materia di immigrazione (Lexilium), che ha rilevato che il tasso di convalida dei decreti di trattenimento da parte dell’ufficio dei giudici di pace di Torino, nel 2015, è stato del 98% e quello di proroga del 97%, all’esito di udienze che, nella maggioranza dei casi, non hanno superato i 5 minuti di durata.
A fronte di queste gravissime violazioni, riaffermiamo con forza la necessità di riportare questi luoghi a standard minimi di decenza e dignità, chiedendo che:
– siano immediatamente chiuse le strutture illegali di detenzione, come i c.d. Ospedaletti e le camere di sicurezza nei sotterranei;
– vengano ripristinate le condizioni di legalità del trattenimento e, in particolare, il diritto di comunicazione anche telefonica con il proprio telefono cellulare e la ripresa dei colloqui con i familiari;
– particolare attenzione venga posta alla salute dei trattenuti, anche attraverso il previo esame da parte di medici dell’ASL sulla idoneità al trattenimento, e che venga garantita la presenza di psichiatri e psicologi, sia al momento dell’ingresso, sia nel corso del trattenimento;
– in caso di incapacità a rispettare gli standard minimi sopra illustrati, venga disposta la chiusura della struttura;
Ribadiamo inoltre la necessità di rispettare i principi del processo penale e i diritti delle persone offese, siano essi cittadini italiani o stranieri, indipendentemente dal possesso di un permesso di soggiorno.
Chiediamo infine un incontro urgente con il Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, e con il Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, per documentare i più gravi episodi verificatisi negli ultimi mesi all’interno della struttura, culminati nel suicidio di Moussa Balde.
Per tutte queste ragioni, abbiamo deciso di manifestare davanti alla Prefettura di Torino, in Piazza Castello, il 4 giugno 2021, dalle ore 16.00
Per adesioni di associazioni e singoli scrivere a: giustiziapermoussa@gmail.com
PROMOTORI
ASGI
LEGAL TEAM ITALIA
GIURISTI DEMOCRATICI OSSERVATORIO CARCERE PIEMONTE E VALLE D’AOSTA UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE
ASSOCIAZIONE ANTIGONE
ASSOCIAZIONE ANTIGONE PIEMONTE
ADIF Associazione Diritti e Frontiere
A.P.I. ONLUS
StraLi
Pochi giorni fa, Belmonte Cavazza aspettava di varcare la soglia del carcere di Piacenza, andando finalmente incontro alla libertà.
La sua condanna di 19 anni sarebbe dovuta terminare il 19 aprile. Veniva invece trasferito il 23 aprile presso la casa di lavoro di Castelfranco Emilia (MO).
La ragione? Una misura di sicurezza disposta nei suoi confronti nel 2003.
Le misure di sicurezza, introdotte da Mussolini nel ‘30 e ancora in vigore, si basano, analogamente alla sorveglianza speciale (misura di prevenzione), su un giudizio di pericolosità sociale: ciò che rileva è la personalità dell’individuo, le sue abitudini ed il suo profilo.
Queste misure vengono disposte sulla base di un “pregiudizio” giuridico di possibile reiterazione del reato; sulla condotta comportamentale durante la detenzione; sull’essere stato condannato o prosciolto per parziale o totale infermità di mente. Possono essere comminate dal giudice come misure accessorie, diventano cioè eseguibili una volta che la pena, alla quale si è stati condannati, è terminata.
“Ergastolo bianco”, è così che sono state definite tali misure di sicurezza. “L’ergastolo bianco” è rinnovabile all’infinito, non essendo previsti per legge termini di durata massima. Di fatto un’altra pena di morte viva, forse la più dimenticata visto che è opinione diffusa che le case di lavoro non esistano più.
Deputati all’internamento di chi è in esecuzione di una misura di sicurezza, oltre alle case di lavoro, sono le colonie agricole e le REMS (che hanno sostituito i vecchi OPG) destinate a chi viene prosciolto da un reato per infermità mentale. Dentro questi luoghi si trovano rinchiusi gli ultimi degli ultimi dei circuiti detentivi. Persone che non possono contare sul sostegno di una famiglia o di una rete di relazioni.
Nonostante le informazioni su tali luoghi siano difficilmente reperibili, sembra che ad oggi – a seguito della chiusura di quella presente sull’isola di Favignana – in tutta Italia rimangano 3 case lavoro: a Vasto, a Castelfranco Emilia (in cui è presente anche una sezione a custodia attenuata) e ad Isili (Sardegna), dove c’è una sezione denominata “colonia agricola” .
Durante la seconda guerra mondiale il Forte urbano di Castelfranco Emilia fu un luogo di prigionia (casa lavoro) fascista, scenario nel ‘44 di esecuzioni nei confronti di partigiani, antifascisti, disertori alla leva.
La storia a venire non ha riservato a quel luogo un’infamia minore, considerati alcuni dei soggetti che ci hanno messo le mani in pasta.
Nel 2005, vi nasceva la colonia agricola penale per persone tossicodipendenti, la cui gestione veniva affidata, per volere del ministro Castelli, all’associazione di Andrea Muccioli, della Comunità di San Patrignano. Fu sponsorizzata da Carlo Giovanardi e inaugurata alla presenza di Gianfranco Fini, come un nuovo fiore all’occhiello. Il Forte urbano veniva quindi ad assumere due funzioni, quella di casa lavoro per l’esecuzione delle misure di sicurezza degli internati e quella di casa di reclusione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti. Nel 2017, la gestione interna delle serre per il lavoro agricolo fu affidata a Caleidos, la cooperativa nota per la sua egemonia nel modenese in particolare nella gestione di canili, gattili e centri di accoglienza per richiedenti asilo, descritti dalle stesse persone che li hanno attraversati come luoghi di prigionia, controllo e sfruttamento. Nel 2020, a mettere le mani in pasta nel business legato alla casa lavoro è la cooperativa modenese L’Angolo, a cui è affidata la gestione della lavanderia industriale (così come al Sant’Anna). La cooperativa è nota alle cronache perché, anch’essa nel business dell’accoglienza, dava da mangiare ai migranti che vivevano nelle sue strutture cibo avariato e mordicchiato da ratti che, insieme alla muffa, invadevano letti e stanze.
Ma arriviamo al 2021. A ricoprire l’incarico di direttrice del Forte Urbano di Castelfranco Emilia è Maria Martone, la direttrice pro tempore ai tempi della rivolta nel marzo 2020 – e tutt’ora in forze – del carcere Sant’Anna di Modena. Recentemente è stata elogiata dal Sappe per gli sforzi da lei compiuti nel ripristino e ricostruzione del carcere cittadino dopo la rivolta.
Proprio a proposito di quest’ultimo punto, è bene fare un passo indietro, e ricordare quanto recentemente avvenuto. La risposta immediata dello Stato alle rivolte nelle carceri del marzo 2020 fu una strage di 14 morti tra le persone detenute.
Nel dicembre scorso, cinque tra i detenuti che erano stati trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno dopo la rivolta al Sant’Anna, presentarono un esposto alla Procura di Ancona, in quanto testimoni della morte di Sasà Piscitelli nel carcere ascolano. Testimoniarono degli spari, dei pestaggi delle guardie e della mancata assistenza medica prima dei trasferimenti nel carcere Sant’Anna di Modena. Uno di loro è proprio Belmonte.
Pochi giorni dopo, con il pretesto ufficiale di dover essere sentiti dalla Procura di Modena, i cinque furono riportati in quel luogo di strage e tortura. Furono rinchiusi in una stanza liscia, al freddo, con le finestre rotte e privati della possibilità di mettersi in contatto con i propri cari: fu evidente a tutte/i il carattere intimidatorio e di ritorsione che ebbe quel gesto.
Si mobilitarono in molte/i e in breve tempo, la solidarietà fu ampia: dopo qualche giorno furono infine trasferiti altrove, ciascuno verso una diversa destinazione penitenziaria. Dopo diversi giorni, si venne a sapere che Belmonte era stato trasferito a Piacenza, dove a febbraio la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, su richiesta del carcere di Piacenza, gli notificava il provvedimento di censura di tre mesi sulla corrispondenza.
Oggi a pena finita, si trova internato nella casa di lavoro di Castelfranco, la cui direzione è in mano alla stessa persona che dirigeva, all’epoca dei fatti raccontati dall’esposto, il carcere di Sant’Anna. Non dimentichiamo che nell’inchiesta della Procura modenese sulle morti al Sant’Anna, questa stessa direttrice ha affermato che tutti i detenuti, prima dei trasferimenti, avevano ricevuto assistenza medica presso il presidio sanitario allestito nel piazzale. Peccato che durante e dopo questi trasferimenti, altre 4 persone perderanno la vita. E altre 5 la perderanno proprio dentro il suo carcere.
Nonostante le minacce, le ritorsioni, i pestaggi, le violenze fisiche e psicologiche e i decenni passati dentro le galere il 27 aprile, Belmonte faceva sapere tramite lettera di aver “intrapreso uno sciopero della fame perché da diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini e poi festeggiano la liberazione dal fascismo…”.
Ad oggi non è stato ancora possibile ricevere notizie sulle sue condizioni di salute e se ha proseguito lo sciopero.
Qui l’indirizzo per scrivergli:
Belmonte Cavazza
via Forte Urbano, 1
41013 – Castelfranco Emilia (MO)
CONTRO LO STATO E I SUOI LUOGHI DI TORTURA,
AL FIANCO DI BELMONTE E DI CHI ALZA LA TESTA
Lavoratori FedEx di Piacenza e solidali Si Cobas vittima nella notte di una grave aggressione fuori al magazzino Zampieri di San Giuliano Milanese. A picchiare dei bodyguard armati di mazze e pistole taser, arrivati per consentire l’ingresso dei crumiri, pagati pure loro una miseria: 30 euro.
Nonostante l’inferiorità numerica e l’ampio schieramento dei mazzieri i lavoratori del SI Cobas sono riusciti a difendersi e a mantenere il presidio fin quando quest’ultimo non è stato completamente accerchiato dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa.
Con noi Asmeron, compagno dei Si Cobas di Milano. Ascolta o scarica
Quelle “ombre rosse” perseguitate da una vendetta di Stato…
Mercoledì 28 aprile, una grande operazione di polizia ha arrestato nove esuli italiani nel quadro di una procedura di estradizione per rinviare 10 uomini e donne in Italia, dove rischiano l’ergastolo. Le 10 persone coinvolte dalla procedura di estradizione, iniziata quel giorno, vivono in Francia dove sono state accolte decenni fa.
Le vite sono state ricostruite, le famiglie fondate, protette dal rifiuto di principio della Francia di rispondere alle richieste di estradizione degli attivisti politici. In Corte d’appello, la giustizia francese ha deciso diversi gradi di libertà vigilata in attesa delle udienze previste a giugno per ciascuno di loro davanti alla Camera istruttoria per esaminare la richiesta di estradizione in Italia.
Arrestare persone in esilio quarant’anni dopo è una vergogna per l’immagine internazionale della Francia, in totale contraddizione con i valori universali che dice di difendere. Queste persone in esilio in Francia vi avevano trovato una fragile protezione contro la repressione e la giustizia d’eccezione che allora imperversava nel loro paese.
A partire dalla fine degli anni ‘70, diverse centinaia di italiani ricercati dalla giustizia del loro paese sono fuggiti in Francia, dove alcuni si sono stabiliti. L’Italia era alla fine di un decennio di scontri politici e sociali su vasta scala, a volte con grande violenza.
Dall’attentato neofascista di Piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969 a quello alla stazione di Bologna nell’agosto 1980, due terzi dei 362 omicidi attribuiti ai militanti di estrema sinistra dal ministro della giustizia francese Eric Dupond-Moretti, sono stati commessi dall’estrema destra, abile in attacchi indiscriminati che hanno ucciso decine di persone in luoghi pubblici.
Questa estrema destra, le cui ramificazioni nell’apparato statale sono ormai provate, è stata perseguita solo marginalmente.
I presunti reati risalgono a più di 40 anni fa. Le persone interessate sono state processate e condannate in Italia in condizioni di repressione feroce e di massa (60.000 processi, 6.000 prigionieri politici), segnate da numerose incarcerazioni senza condanna, basate su indagini aleatorie.
Marina Petrella [tra gli arrestati del 28 aprile], per esempio, ha passato otto anni in detenzione preventiva in Italia. Le procedure utilizzate per imporre le condanne sono state considerate all’epoca incompatibili con i principi dello stato di diritto francese. In quel periodo, infatti, fu messo in atto in Italia un arsenale di legislazione eccezionale, diretto soprattutto contro l’estrema sinistra.
La Legge Reale del 1975 e i decreti legge del 1978, 1979 e 1980 hanno rafforzato i poteri della polizia, aumentato le pene e militarizzato la lotta al terrorismo. Il sistema del “pentimento” permetteva la remissione della pena agli imputati che denunciavano altre persone. È nel quadro di queste leggi e sulla base di tali dichiarazioni che sono state pronunciate molte condanne.
Questa legislazione eccezionale, denunciata da Amnesty International e da altre organizzazioni per i diritti umani, è stata alla base della decisione della Francia di non estradare le persone che si erano rifugiate sul suo territorio, a condizione che abbandonassero ogni attività illegale.
Non solo nessuno di loro è stato coinvolto in alcun atto legalmente riprovevole dal loro arrivo in Francia, ma hanno dovuto ricostruire le loro vite nella precarietà permanente dell’esilio, senza lo status legale di rifugiati politici. Eppure, hanno trovato i mezzi per investire se stessi nella loro vita professionale ma anche nella vita sociale e culturale…
Inoltre, stiamo parlando di persone ormai anziane, tutte vicine ai 70 anni, delle quali non si può far credere che rappresentino un pericolo per qualcuno. D’altra parte, nulla è cambiato nel diritto italiano negli ultimi quarant’anni. Al contrario, lo Stato italiano ha ulteriormente degradato i diritti della difesa.
Invertendo questa decisione, il governo francese sta attuando un accordo fatto su una lista nominativa con Matteo Salvini, il leader di estrema destra, quando era ministro dell’interno. È stato quest’ultimo ad ottenere nel 2019 l’estradizione di Cesare Battisti, rifugiato in Bolivia.
Il rifiuto di qualsiasi amnistia, a volte mezzo secolo dopo il fatto, è scioccante, quando è stata concessa a fascisti e collaboratori subito dopo la guerra (legge del 1944 e amnistia di Togliatti del 1946).
Ma concedere l’amnistia significherebbe riconoscere la natura politica del conflitto che ha scosso l’Italia in quegli anni, e smettere di trattare gli attivisti politici come delinquenti, o addirittura mafiosi.
Per cancellare dalla memoria e dalla storia dieci anni di lotte sociali e operaie, ribattezzati gli “anni di piombo”, lo Stato italiano, senza alcun riguardo per l’umanità, vuole far morire uomini e donne in carcere mezzo secolo dopo il fatto.
Questa operazione di estradizione, negoziata tra i due stati, è stata chiamata “Ombre rosse”. L’ostinato desiderio di vendetta di Stato che il governo italiano sta riattivando si incontra ora con la strategia ultra-securitaria del governo francese, che sta mettendo in atto una legislazione liberticida.
Accogliendo questa richiesta di estradizione per la prima volta collettivamente, lo Stato francese non solo sarebbe complice di questa operazione di riscrittura della Storia, ma farebbe un altro passo sul suo territorio verso la criminalizzazione di coloro che si oppongono al potere in nome della lotta al terrorismo.
Dopo la richiesta dell’Italia, saranno soddisfatte anche le richieste dei regimi antidemocratici di estrema destra in America Latina, Africa, Asia o Medio Oriente, e ora anche in Europa? E come possiamo assicurare agli esuli politici che il governo francese non li estraderà per motivi geopolitici di “buon vicinato”?
Per noi, gli esuli italiani non sono “ombre”, ma donne e uomini inseguiti da una vendetta di Stato senza limiti, che hanno pagato caro il diritto di vivere dove hanno ricostruito la loro vita per quarant’anni. Per questo chiediamo la loro totale libertà, la sospensione dell’estradizione e la fine delle persecuzioni giudiziarie.