Minneapolis: ennesimo omicidio di polizia mentre è in corso il processo all’assassino di George Floyd

Minneapolis (Minesota) ore 14, 11 aprile. La polizia ha sparato a Daunte Wright, ventenne afroamericano che durante un controllo di polizia alla sua auto avrebbe tentato di scappare. Un agente ha quindi sparato al ragazzo che risalito in auto si è schiantato a poche centinaia di metri.

Minneapolis è la stessa città dove 9 mesi fa l’agente Chauvin aveva ucciso George Floyd soffocandolo con un ginocchio sulla gola.

Appena la notizia è circolata migliaia di persone si sono radunate presso la centrale di polizia del quartiere Brooklyn Center dove hanno trovato la guardia nazionale a fronteggiarli.

Il sindaco ha indetto il coprifuoco cittadino fino all’alba.

Gli Stati Uniti si svegliano con l’ennesimo omicidio poliziesco di un afroamericano da parte della polizia.

A pochi kilometri dai fatti è in corso da tre settimane il processo al suddetto agente colpevole della morte di George Floyd.

Ennesimo omicidio di polizia negli USAancora una volta a Minneapolisancora una volta di un afroamericano, nella stessa città dove venne ucciso George Floyd e dove si sta tenendo in questi giorni il processo contro l’agente Derek Chauvin, che lo soffocò durante quel fermo di polizia del maggio 2020.

La vittima è stata identificata dai familiari come Daunte Wright, un ventenne afroamericano. I fatti sono avvenuti questa domenica poco prima delle 14, quando un agente ha fermato il veicolo dove viaggiava Wright in seguito ad una presunta violazione del codice stradale. La polizia ha dichiarato che l’autista è rientrato nel veicolo mentre gli agenti tentavano di arrestarlo e un poliziotto ha aperto il fuoco, tanto sarebbe bastato secondo gli stessi poliziotti perchè uno di essi aprisse il fuoco uccidendolo.

Ieri sera la reazione non si è fatta attendere: in centinaia sono scesi in strada e hanno marciato fino alla sede del locale dipartimento di Polizia dove ad aspettarli c’erano agenti in assetto anti sommossa che hanno lanciato lacrimogeni contro la folla. Scontri si sono registrati fino a tarda serata.

da infoaut

La caserma levante di Piacenza La denuncia di tre studenti: “Una notte di orrore in caserma picchiati da carabinieri

Piacenza, la denuncia dei tre studenti fermati dai carabinieri: «Una notte di orrore nella caserma

La denuncia di tre studenti: "Una notte di orrore in caserma picchiata da carabinieri infedeli"

Pugni, calci e umiliazioni dopo dodici anni risuonano ancora come un’eco di sinistra nei tre universitari che per “festeggiare” la fine degli esami sono finiti nelle mani dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza e sono stati massacrati solo da un banale errore. Una vicenda che è emersa dopo la denuncia del padre di uno di loro, un ex ufficiale dei carabinieri, che per anni non credeva al figlio ma ha dovuto ricredersi con le indagini che hanno portato  all’arresto dei militari e ora il processo per tortura, traffico di droga e altri reati gravi .

Urla, percosse e umiliazioni

È il pomeriggio del 18 maggio 2009. La Citroen C3 con i tre ragazzi passa davanti all’Università Cattolica di Piacenza. Uno allunga la mano e fa un gesto di “liberazione” proprio mentre incrocia una gazzella dei carabinieri. Forse pensando che ce l’hanno con loro, i militari li raggiungono, li ferma e li fa scendere. “C’è stato un contatto spalla a spalla tra me e Cappellano (Salvatore, arrestato, ndr) che mi ha subito preso a pugni e ha detto: ‘Togliti testa di c…'”, ha detto Gianluca D’Alessio, uno dei giovani, alla Guardia di Finanza nelle indagini dei pm piacentini Matteo Centini e Antonio Colonna, coordinati dal pm Grazia Pradella. I tre vengono portati nel Levante. “Ci hanno fatto sedere per terra ammanettati”, racconta D’Alessio, che viene spogliato “completamente nudo” e perquisito mentre un suo amico, Daniele Della Noce, viene portato in una stanza dalla quale arriveranno “solo percosse e grida di dolore”. Della Noce viene sbattuto contro la porta che si apre, cade a terra, ma viene subito “riportato dentro trascinato dai piedi”. Nella speranza di farli rinunciare, D’Alessio dice di essere “figlio di un capitano dei carabinieri”, anche se il padre, ora dirigente INPS, si era dimesso. In risposta, botte anche per lui nella stanza dove trova anche l’incaricato Giuseppe Montella, l’uomo al centro dell’inchiesta Levante, l’unico che “è rimasto a guardare”. Cappellano non si ferma nemmeno quando Gianluca grida che gli stanno rompendo un braccio: “Per me puoi anche morire”. ma viene subito “portato dentro trascinato dai piedi”.

Appeso per le manette al ramo di un albero

I tre ragazzi raccontano che nessuno ha spiegato i motivi del loro arresto e che sono stati lasciati a lungo in manette, senza acqua potabile e senza poter chiamare famiglie o avvocati fino a quando non sono stati trasferiti alla caserma di via Beverora, i cui carabinieri , invece, lo trattavano “gentilmente”. La mattina dopo, scattata per il reportage fotografico, mentre attraversavano un cortile interno, Cappellano lasciò D’Alessio letteralmente appeso per le manette a un ramo di un albero: “Era più alto di me, costringendomi a stare in punta di piedi”. Un carabiniere di passaggio, noto per essere accusato di aver aggredito soldati, “mi ha dato un pugno in faccia”, ma un altro lo ha rimosso da quella posizione orribile, dicendo: “Non voglio vedere più questa merda”. Oggi, il PM inizierà l’arringa nel processo abbreviato prima delle richieste di condanna, che potrebbero superare i 15 anni di carcere. Non possono procedere, per prescrizione, sui presunti abusi ai tre ragazzi anch’essi processati e patteggiati per punizione per violenza e minaccia a pubblici ufficiali (possono chiedere il riesame). “Ho lavorato in Arma e non ho mai visto questi metodi”, dice Riccardo D’Alessio. È sempre in contatto con suo figlio che ora vive in Germania. assicura Riccardo D’Alessio.

Report dal presidio al carcere femminile di Rebibbia

Una bella giornata quella sotto il carcere femminile di Roma Rebibbia, densa di solidarietà.

Nonostante le minacce delle guardie di far loro rapporto, le detenute ci hanno accolto unite, con entusiasmo, sventolando fazzoletti e panni dalle celle ed aggiornandoci della gravissima situazione all’interno. Le donne contagiate sono già un centinaio, su circa 300 donne recluse. Hanno detto: “vogliono farci morire qua dentro!”

Ad ogni dedica, intervento, canzone non smettevano di ringraziarci.

Eravamo una sessantina, ed era bellissimo unire le nostre voci alle loro.

Non ci sono luoghi idonei per la separazione delle detenute positive da quelle negative. Alcune fra le positive vengono ospitate al piano terra mentre le docce sono al terzo piano, quindi ricevono una fornitura di acqua calda in bacinelle. Una condizione intollerabile, determinata dal fatto che le detenute sono sempre oltre il limite di capienza previsto. Se le detenute contagiate utilizzano a turno le stesse tre docce è chiaro che le patologie infettive si diffondono più velocemente.

In un‘istituzione classista e patriarcalista come il carcere la pandemia ha inasprito di molto le condizioni già dure delle donne detenute.

Al completo isolamento si aggiunge l’impossibilità di aver cura della propria persona, la mancanza di acqua, l’impossibilità di curarsi, per il mancato ricovero anche di chi versa in gravi condizioni. Le celle sono fatiscenti, umide, manca l’aria, manca il cielo.

A ciò si aggiungono le minacce di sanzioni per chi protesta o solidarizza con chi protesta per difendere il diritto alla salute e alla vita di tutte e tutti. Ma le detenute anche questa volta sono state unite. Sanno che alcune sono indagate per le proteste dell’anno scorso, ma non si sono fatte intimidire da chi ha tutto l’interesse nel dividerle. Sanno che la loro vita conta più di un materasso bruciato.

Al presidio è intervenuta per le detenute trans, una rappresentante dell’associazione “Libellula”. Sono circa una ventina, stanno al reparto G8, che è un reparto riservato alle persone trans, ma stanno alla sezione maschile di Rebibbia per mancato adeguamento dei loro documenti. Sono al 90% immigrate, provenienti dal latino-america, e di loro da un anno non si sa più niente, le visite sono vietate anche alle operatrici. Una giovane trans, che aveva chiesto di stare in cella singola per sfuggire alla transfobia, è stata messa nella sezione di Alta Sicurezza con le politiche. Qui il suo intervento:

A lei abbiamo fatto anche una breve intervista per conoscere meglio la condizione delle soggettività trans detenute:

 

Al presidio è intervenuta anche una familiare con un intervento molto toccante.

È la figlia di G., donna 65enne tradotta in carcere in piena pandemia per un ritardo del suo avvocato nel presentare ricorso avverso la sentenza di 1 grado che l’ha condannata a 3 anni e mezzo di carcere.

G. In carcere ci entra il 26 gennaio e qui prende il covid. Viene messa in isolamento in una cella 3 metri x 3 con solo una branda e un wc. Le è stata data una bacinella e una piastra sulla quale scalda l’acqua che poi si versa addosso per lavarsi, con due bottiglie di plastica tagliate a metà. Senza acqua, senza potersi fare una doccia, senza mai guardare il cielo perché l’ora d’aria in isolamento viene soppressa e la finestra inquadra il muro, senza affetti perché le visite sono bloccate dai decreti, senza parlare con nessuna perché anche le malate Covid non possono vedersi tra loro.

Qui una parte dell’intervento della figlia.:

 

“Se ci vedono alle finestre ci fanno rapporto”, così ci hanno detto le detenute.

Ma la polizia non ha fermato né le nostre né le loro voci, ci hanno ringraziato fino alla fine del presidio e noi abbiamo portato loro la nostra piena e incondizionata solidarietà, perché chi ha difeso la propria vita non si processa. Chi dovrebbe sedere sul banco degli imputati sono stato e padroni, che si sono arricchiti sulla nostra pelle, che hanno trasformato la pandemia in strage, le carceri in focolai e non solo di covid, ma anche di rivolte. 40 anni di continui tagli alle spese sociali, alla scuola, alla sanità hanno fatto il paio con aumenti progressivi della spesa pubblica per la difesa e la “sicurezza”, ossia soldi pubblici sottratti alla tutela della salute per finanziare guerre e repressione, per permettere a poche persone di continuare ad arricchirsi indisturbate sulla pelle di miliardi di persone, facendo delle carceri discariche sociali, criminalizzando povertà e dissenso.

Il distanziamento sociale necessario per evitare il contagio è preso a pretesto per impedire di manifestare. Non vale né in carcere né in altri luoghi di maggiore sfruttamento, come nelle fabbriche o nei magazzini, dove se ci si ammala e si muore poco importa, c’è sempre l’esercito industriale di riserva. Questo si chiama imperialismo e contro di esso è giusto e necessario ribellarsi! E’ giusto ribellarsi a chi mette in pericolo la nostra vita, la nostra salute! Sul posto di lavoro o in carcere siamo della stessa classe, quella degli sfruttati e degli oppressi, e fra questi le donne sono doppiamente oppresse e sfruttate. Ed hanno doppie, triple ragioni per ribellarsi.

A loro va tutto il nostro sostegno e la nostra solidarietà, a loro abbiamo portato la solidarietà anche di altre detenute ed i saluti e il sostegno del Mfpr Milano (che riportiamo sotto) e dell’assemblea donne/lavoratrici combattive

In questa epoca di pandemia dove in ogni luogo si subisce una repressione violenta ed ingiusta:  per chi è fuori vuol dire vivere distanti e separati, ma per chi subisce la galera  si deve accettare che vengano ammassati corpi, nessuna misura prevista per diminuire la popolazione carceraria. Oggi da più parti ci si “allarma” perché i focolai nelle carceri si stanno diffondendo e ci si sbraccia perché i detenuti vengano vaccinati: peccato che allarmi ed appelli vengano da rappresentanti di istituzioni che ben avrebbero potuto/dovuto dare soluzioni. annullato, negato, ogni prigioniero/a prova l’odio di questo sistema fallito che ci regala morte in tutte le sue forme.
Per questo e per la libertà che tutti noi ci meritiamo, vogliamo salutare e sostenere la giornata di  lotta e di denuncia delle condizioni sempre più disperate ed ingiuste di oggi a Roma in solidarietà con le detenute.
Tutta la nostra solidarietà e vicinanza, le compagne MFPR di Milano 

Firenze 14 aprile presidio contro la sorveglianza speciale

Da resistenzefirenze

UN DESERTO SOCIALE A TUTTI I COSTI

Come ulteriore giro di vite per i fatti del 30 ottobre in cui migliaia di persone si rivoltarono a Firenze contro il governo, il comune e la polizia, eccoci recapitata l’ennesima lettera verde dal tribunale: non si tratta di una denuncia, ma dell’invito per una nostra compagna a presentarsi in tribunale il giorno 14 Aprile 2021 per presenziare all’udienza in cui verrà decisa o meno l’applicazione della sorveglianza speciale contro di lei. Che significato dare a questa nuova mossa del questore?
Innanzitutto dobbiamo rilevare come la repressione sia tanto mutabile nei mezzi quanto poco lo è nei fini. Neanche un mese è passato dalla definitiva caduta del reato di associazione a delinquere spillato ormai più di dieci anni fa all’interno dell’operazione “400 colpi”, ed ecco ora, dopo i dubbi successi raggiunti con la pioggia di fogli di via staccati negli ultimi anni dalla questura, l’arrivo del Daspo anche per chi allo stadio non ha mai messo piede e, amarum in fundo, questa richiesta di sorveglianza speciale. Perché associare tra loro strategie e misure tanto diverse in questo scritto? Perché è fondamentale che queste si riconoscano per ciò che sono: operazioni di repressione politica. Per uno stato che dice di averla fatta finita con il fascismo è essenziale che, almeno in teoria, ad esser puniti siano i reati e non le idee. Ma come togliere allora i compagni dalle strade di fronte a una magistratura che per quanto sia classista non può non applicare il codice penale? Come togliere di mezzo persone e percorsi di auto organizzazione se gli stessi giudici nella maggioranza dei casi sono in imbarazzo di fronte alle richieste di carcerazione in relazione ai reati contestati? Come assicurarsi quella tanto agognata pace sociale se anche le misure cautelari preventive  svaniscono in pochi mesi proprio in virtù della moderata gravità dei reati in relazione alle leggi attuali? Ecco quindi spiegato il ricorso a questi mezzi di repressione politica, di cui da sempre lo stato italiano si serve, ma che di volta in volta possono tornare più o meno utili. Tanti piccoli reati non ti aprono così spesso le porte di Sollicciano, ma se ci inventiamo una associazione a delinquere la musica cambia. Teoria troppo fantasiosa anche per la magistratura? Allora la scavalchiamo con misure di polizia: fogli di via e Daspo, che non necessitano dell’approvazione del giudice, ma vengono emessi direttamente dal prefetto. C’è chi ancora si ostina a non voler piegare la testa? Ecco qua la sorveglianza speciale.

UNA SORVEGLIANZA (E UNA PUNIZIONE) DAVVERO SPECIALE.
Un capolavoro del legislatore democratico. Ben oltre: “l’innocente fino a prova contraria”, ben oltre le misure cautelari preventive in attesa che il processo si sgonfi, si arriva al “colpevole dei reati che potresti commettere”. Sì, perché contrariamente a quanto potremmo essere portati a pensare, avere la sorveglianza speciale non significa ricevere un’attenzione particolare da parte delle forze dell’ordine, che quella la subiamo già da sempre, significa veder materialmente distrutta la propria libertà. Del tutto arbitrariamente potremmo quindi avere per un tempo che va da uno a cinque anni l’obbligo di rientro notturno, il divieto di lasciare la provincia di residenza, di incontrare pregiudicati o persone sottoposte a misure cautelari, di partecipare a riunioni o assemblee di qualsiasi tipo e, per tutta la durata della sorveglianza speciale, possono essere sospesi passaporto e addirittura patente. Per anni dunque devi star lontano dai tuoi compagni, dai tuoi affetti, rinunciare a viaggiare o anche solo a lasciare la tua provincia, rinunciare a far politica, rinunciare ad uscire la sera… La pena per chi infrange queste regole può essere anche il carcere immediato. Tutto ciò, lo ripetiamo, non in connessione ad un particolare reato per cui viene prevista questa punizione, ma in relazione a chi sei, a cosa fai nella vita e quali reati potresti commettere in futuro. Proposta da Digos e questore, l’applicazione di questa misura passerà alle mani di un giudice che valuterà quindi se la persona che ha davanti merita l’appellativo di “minaccia della difesa sociale”. Il tutto in un perverso gioco di rimandi incrociati in cui la polizia dice che son anni che ci colpisce e quindi è giusto colpirci ancora di più, sennò avrebbero già smesso anche loro, che son tanto bravi, e difendersi è estremamente complicato… dal momento che non c’è nessun episodio criminoso di cui si viene accusati e quindi in sostanza… non c’è niente da cui difendersi! È così dunque che una compagna neanche pregiudicata rischia di veder cambiare la propria vita e chiunque abbia sofferto in questo anno delle limitazioni che ci sono state imposte per il Covid19 ed ora invoca l’estate nella speranza di poter tirare un sospiro di sollievo può capire quanto sia grave veder limitata radicalmente la propria libertà per un periodo tanto lungo.

PERICOLOSI PER CHI?
Pur in assenza di qualsivoglia condanna, sappiamo bene cosa finirà sul tavolo del giudice: il coraggio e la voglia di cambiare questo mondo. L’occupazione di uno spazio per giovani rapidamente divenuto un museo di arte urbana in Via Toselli prima, e a “La Crepa” poi, il sedersi davanti alle ruspe insieme agli abitanti di tutto Viale Corsica per evitare il taglio degli ippocastani, l’aver partecipato a un presidio non autorizzato di Fridays for future, l’aver contestato Nardella il giorno della Liberazione, l’aver partecipato al presidio contro lo sgombero delle famiglie in Via Carissimi, l’aver occupato una Casa delle donne in piena pandemia per offrire rifugio e assistenza a chi più sta subendo questa forzata reclusione e infine l’aver partecipato alla notte del 30 ottobre.. Questi i reati che le vengono contestati e che potrebbero meritargli questa pesante medaglia di pericolosità sociale. Ma pericolosi per chi? Esiste un solo sfruttato sulla faccia della terra che potrebbe sentirsi minacciato da tale (presunto) curriculum? A tutti noi la facile sentenza. Complici e solidali con la nostra compagna invitiamo tutti a far propria questa campagna contro la sorveglianza speciale, al suo fianco e al fianco di tutti coloro che in Italia hanno subito questa infame misura e coloro, come Eddi di Torino a cui è stata notificata di ritorno dal Rojava, che hanno deciso di non sottostarvi e di rifiutarla pubblicamente. Perché organizzare una difesa collettiva vuol dire organizzare la difesa stessa del movimento.
Invitiamo tutti e tutte il 14 Aprile 2021 dalle ore 9:30 al presidio che si terra’ di fronte al tribunale di Firenze in viale Guidoni contro questa infame misura di repressione politica

Vogliamo Dana libera! Basta persecuzioni contro il movimento NOTAV e al sud contro il Movimento NO TAP!

No Tav, in 200 al presidio di Bussoleno in favore di Dana Lauriola. Tra loro anche la sindaca

La manifestazione è stata organizzata in vista dell’udienza del 14 aprile quando il tribunale di sorveglianza dovrà pronunciarsi sulla richiesta di scarcerazione presentata dai legali dell’attivista
Un presidio forzatamente limitato nei numeri, per evitare assembramenti nella piccola piazza di fronte al municipio di Bussoleno, ma determinato nel ribadire la propria solidarietà all’attivista No-Tav Dana Lauriola, in carcere da quasi sette mesi alle Vallette di Torino, ha affollato questo pomeriggio il centro del paese valsusino dove la portavoce del movimento No-Tav viveva fino al giorno dell’arresto, nel settembre 2020. Da una settimana il popolo in lotta contro la realizzazione della Torino-Lione è mobilitato in vista del prossimo 14 aprile, quando a Torino il tribunale di sorveglianza deciderà sulla nuova richiesta dei legali di Lauriola per la scarcerazione o almeno l’assegnazione di pene alternative alla detenzione: un momento importante nella vita della 39enne condannata il 14 settembre scorso a due anni di carcere per aver preso parte, nel marzo 2012, ad una dimostrazione al casello di Avigliana dell’autostrada Torino-Bardonecchia.

Fin dal giorno della sentenza, non solo i militanti No-Tav, ma anche numerosi intellettuali e giuristi di mezza Italia hanno espresso sdegno per quella che ritengono una «condanna di per sé sproporzionata, che con il rifiuto di misure alternative si configura come una vera persecuzione politica». Anche in queste ore, da Erri De Luca all’attore-regista Elio Germano, a numerosi esponenti della società civile, sono tornate a levarsi voci di dissenso sulla carcerazione di Lauriola.

Critiche all’azione dei magistrati condivise a grandi linee anche dall’amministrazione cittadina. Tant’è che oggi la sindaca Bruna Consolini ha scelto di essere insieme ai circa 200 esponenti No-Tav in piazza Cavour, come già a settembre, poche ore dopo il trasferimento alle Vallette dell’attivista. «Nelle motivazioni dell’arresto si legge che Lauriola è in carcere perché residente a Bussoleno, paese abitato da innumerevoli No Tav, oltre che per non aver preso le distanze da chi protesta contro la Torino-Lione. Un fatto inconcepibile» lamentano da allora gli amministratori di Bussoleno, oggi in piazza per Dana Lauriola.
Quella odierna non sarà l’ultima manifestazione in programma tra la Val Susa e Torino di qui a mercoledì, data dell’atteso pronunciamento del tribunale di sorveglianza. Un altro presidio di solidarietà è previsto martedì di fronte al carcere delle Vallette: promosso dalle Fomne contra ‘l Tav e dal comitato Mamme in piazza per la libertà di dissenso, che da tempo sostengono l’attivista protagonista nei mesi scorsi anche di uno sciopero della fame insieme ad altre detenute della sezione femminile della prigione.

Info sulla strage di Modena: quel che emerge dalle carte sulla morte di Sasà

fonte giustiziami.it

NDR e ABS. Alla voce “anamnesi personale”, nella copia sbiadiata del diario clinico di Salvatore “Sasà” Piscitelli, sono annotate due sigle. Una sta per “niente da rilevare”. L’altra significa “apparente buona salute”, come spiegano i medici che in carcere lavorano. L’aggettivo BUONO si intravede anche nella casella “esame obiettivo”.  Molti altri riquadri sono in bianco, vuoti.

Le 21 pagine della prima ricostruzione ufficiale

Un anno dopo le rivolte – e la morte di Sasà e altri dodici detenuti – vengono alla luce gli atti contenuti nel sottofascicolo aperto dalla procura di Modena, i risultati degli accertamenti effettuati dalla pm Lucia De Santis prima di spogliarsi della competenza e di ripassare l’inchiesta alla procura di Ascoli, da dove le era arrivata. Sono solo 21 pagine, le prime di fonte giudiziaria. Ma forniscono informazioni inedite, offrono spunti, alimentano dubbi. Sulla ultime ore di  Sasà raccontano una storia diversa da quella ricostruita e denunciata da almeno sette compagni di viaggio e di detenzione. Sembra un altro uomo, un quarantenne sano e in forze, senza problematiche particolari, senza bisogni urgenti. E’ morto, qualche ora dopo l’incontro con un medico, la compilazione (parziale) del diario clinico, le sigle e  gli aggettivi tranquillizzanti.

«Decesso presso il carcere di Ascoli»: lapsus della pm?

Il 23 marzo 2020, due settimane dopo la morte di Sasà Piscitelli, la pm modenese scrive alla direzione del carcere di Ascoli Piceno, dove nella notte tra l’8 e il 9 marzo il quarantenne era stato portato assieme a 41 compagni. Chiede di riferire le condizioni del detenuto all’arrivo in istituto, le circostanze del decesso, le attività di verifica dell’eventuale possesso di psicofarmaci, medicinali o stupefacenti, la documentazione medica sullo stato di salute nel tempo passato nella struttura. Nell’intestazione della richiesta la pm colloca la morte «presso la casa circondariale di Ascoli Piceno». Non sa che Sasà è deceduto in ospedale, come sostengono nella città marchigiana? O il suo è un banale errore di compilazione oppure un laspus?

Le cose che la direttrice non può sapere

La direttrice, Eleonora Consoli, si prende qualche settimana per raccogliere e comunicare le informazioni richieste. Risponde alla pm il 14 maggio. Precisa che il detenuto Salvatore Piscitelli è morto alle 17.25 presso l’ospedale civile di Ascoli Piceno, non in carcere. Riferisce che era arrivato in istituto alle 00.25 del 9 marzo 2020 assieme ad altri 41 ristretti, «tutti provenienti dalla casa circondariale di Modena, in quanto avevano partecipato ai disordini/rivolta avvenuti all’interno dell’istituto di Modena l’8.3.2020».  Non chiarisce come facesse lei a sapere che i nuovi giunti fossero stati coinvolti nelle azioni di protesta e di devastazione, se non richiamando genericamente il provvedimento con cui il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha disposto i trasferimenti e d’urgenza. Lo dà per scontato.  Però nel verbale da lei allegato alla relazione, l’ultima pagina del suo rapporto, il compagno di cella di Sasà sostiene una cosa diversa. Il quarantenne, garantisce Mattia, non aveva aderito alla rivolta.

Il compagno: «Sasà non ha preso parte alla rivolta»

Mattia Palloni è uno dei cinque ragazzi che a novembre sottoscriveranno un esposto – choc, per denunciare pestaggi, abusi, torture. Sulla morte di Piscitelli viene sentito la prima volta, con la formula delle dichiarazioni spontanee, non a ridosso del decesso del compagno, ma a quasi due mesi di distanza. Il  2 maggio, messo di fronte a due assistenti e a un sovrintendente della polizia penitenziaria, non è molto loquace. Pare intimidito. Sostiene che lui e Sasà non presero parte alla sommossa di Modena. All’inizio avevano deciso di rimanere nella loro cella, condivisa. Poi furono costretti a uscire, perché la sezione era stata invasa dal fumo, provocato dall’incendio di suppellettili e arredi. Rassicurato il personale sanitario e un agente rimasti chiusi dentro un ambulatorio, sempre stando alle dichiarazioni spontanee di allora, entrambi raggiunsero il piazzale e altri reclusi. Qui un altro carcerato, sconosciuto, passò a Sasà  una bottiglia di metadone (prelevato dall’armadio blindato dell’infermeria, aperto con la chiave e non forzato, o forse presa dal tavolo usato da due infermiere per preparare le dosi da distribuire). Mattia cercò di non farlo bere. Non ci riuscì. E il compagno, inghiottita il liquido, restituì la bottiglia al fornitore.

Un medico solo per visitare 42 detenuti?

La direttrice, tornando all’arrivo al carcere di Ascoli, conferma l’avvenuta perquisizione e l’immatricolazione di Sasà. Scrive alla pm che alle 2.30 viene sottoposto alla visita di primo ingresso dal medico di turno del Servizio integrativo assistenza sanitaria, Simone C. In quella notte non ordinaria è presente un solo dottore, lui, posto di fronte a una impresa titanica: sottoporre ad accertamenti sanitari di base 42 detenuti e non detenuti qualunque, bensì i ragazzi e gli uomini in arrivo da un carcere devastato da una sommossa, dopo una razzia di litri di metadone e di una gran quantità di psicofarmaci.  «A molti di noi – renderanno poi noyo gli autori dell’esposto di novembre  – non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee». Per verificare le condizioni di Sasà, con trascorsi di tossicodipendenza e un fisico provato, il medico ci mette 15 minuti: dalle 2.30 alle 2.45, almeno stando all’appunto sul diario clinico. Alle 3.00 il detenuto in “apparente buona salute” viene collocato nella cella 52 del secondo piano, lato sinistro, reparto marino.

Per 10 ore nessuna notizia del detenuto in agonia

Per più di 10 ore su Sasà non ci sono annotazioni della direttrice. E’ come se sparisse, da notte fonda al primo pomeriggio. La colazione non gli è stata portata? E le sue medicine, le benodiazepine richiamate nel diario clinico alla voce “terapia in corso”? Gli agenti del turno 8/14 e il personale sanitario non hanno mai guardato dentro la cella 52? La relazione della direttrice riprende il filo, dopo questo vuoto totale, alle 13.20. A quell’ora, scrive alla pm,  «il ristretto non risponde agli stimoli del personale di polizia penitenziaria addetto alla vigilanza». Viene chiamato il medico di guardia Sias, Cristiano M.D.V, in servizio dalla prima mattinata.

La chiamata al 118 e l’arrivo dell’ambulanza

Il dottore capisce che la situazione è gravissima, sollecita l’intervento del 118 e gli inietta una fiala di Narcan (indicato poi con Naloxone) per “sospetta overdose di metadone”. Arriva  l’equipe esterna, con il dottor Ihaab A. L’ambulanza con a bordo Sasà, diretta d’urgenza all’ospedale civile di Ascoli, lascia il carcere alle 15.15. Una seconda lettiga carica un altro recluso “modenese” che ha bisogno di assistenza specializzata. Alle 17.25 il dottor Guido G. constatata e certifica la morte del detenuto Piscitelli, giunto e trattenuto al pronto soccorso in «stato di coma avanzato da verosimile intossicazione da farmaci».

La testimonianza del medico del carcere

«Mi sono attivato subito – dice adesso il dottor M.D.V, al telefono – appena gli agenti mi hanno chiamato in sezione. No, Piscitelli non avevo avuto modo di vederlo prima. Erano arrivati in più di 40, da Modena. Quando sono entrato in cella – riferisce – sembrava che dormisse. Ho provato a svegliarlo, ma non ha riaperto gli occhi. L’overdose di metadone non è così semplice da diagnosticare e su di lui non avevo informazioni.  Gli ho fatto una iniezione di Narcan, poi l’ho affidato al personale del 118.   Non è morto in carcere.  Il detenuto – ripete – è uscito dall’istituto ancora vivo. So che è deceduto in ospedale, dopo. Sono stato convocato dal magistrato, come testimone. Ho raccontato tutto questo, documentato. Non c’è un’altra verità».

Mai scritti – e non distrutti  – i nulla osta ai trasferimenti

La direttrice Consoli mette nero su bianco un’altra informazione. Piscitelli e i 41 compagni sono stati trasferiti d’urgenza nel suo istituto, «senza essere accompagnati da nessun fascicolo e/o altro documento».  Perché? Lei,  ecco il punto, non può avere contezza diretta del motivo. Però, senza dichiarare la fonte, scrive che «è andato tutto distrutto» nella rivolta. E’ vero per le carte redatte a Modena prima della sommossa. Non vale per gli atti successivi. All’arrivo ad Ascoli mancano altri documenti, quelli che per legge i medici avrebbero dovuto compilare dopo le violente azioni di protesta e prima delle traduzioni: i certificati delle visite effettuate a Modena e i nulla osta sanitari con l’ok al viaggio dall’Emilia alle Marche. Questi attestazioni non sono mai state scritte. I medici tenuti a redarle si sono giustificati dicendo che è mancato loro il tempo di provvedere, vista la situazione drammatica e l’alto numero di persone da assistere.

Ordine e sicurezza prima della salute

Non si fa riferimento ai nulla osta sanitari  mancati nemmeno nel provvedimento con cui il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha disposto lo sfollamento dei  42 detenuti “modenesi” destinati ad Ascoli. A firmare l’ordine di trasferimento – il pomeriggio o la sera dell’8 marzo, in un orario non indicato – è Silvia Della Branca. Il carcere emiliano è in gran parte distrutto, inagibile. Decine e decine di reclusi devono avere una sistemazione alternativa e in fretta, visto che sta facendo notte. La funzionaria motiva la disposizione con esigenze di ordine e sicurezza. Il  poliziotto penitenziario a capo della scorta, quello che dovrebbe avere con sé i nulla osta sanitari al viaggio, per iscritto viene invitato a sorvegliare in modo adeguato i detenuti per impedire tentativi di evasione, anche con appoggi esterni, e «altri inconvenienti di qualsiasi natura che possano compromettere il regolare svolgimento della traduzione». Dalla casa di reclusione di Modena sono usciti parecchi detenuti in overdose e a tarda sera si sono contati tre morti, i primi di nove. Però in queste disposizioni non c’è alcun riferimento alle possibili condizioni di salute dei trasportati, né all’opportunità di avere medici al seguito e neppure alla necessità di dotarsi almeno di farmaci antagonisti salvavita.

Come stava davvero Sasà?

Sasà durante il viaggio cade in uno «stato di torpore», come dirà il 2 maggio il compagno di cella, Mattia. Il dottor Simone C., il medico che lo visita nel carcere di Ascoli o che attesta di averlo visitato, non lo rileva o non lo annota. Nel diario clinico sono più le parti in bianco di quelle compilate. NDR, ABS  e BUONO certificano condizioni di salute non preoccupanti. Le carte non spiegano se sia o no al corrente del furto di metadone e di psicofarmaci e delle overdosi in serie, nel carcere di provenienza. Quello che si vede è che non ha riempito lo spazio per registrare eventuali “lesioni all’ingresso” né le caselle riservate a “sintomi fisici e psichici di intossicazione in atto da sostanze stupefacenti” e “sindrome di astinenza in atto”. Le ha barrate con una riga, senza compilare altri campi né registrare parametri di base (ad esempio pressione, frequenza cardiaca, temperatura, auscultazione dei polmoni). In compenso, dopo la visita lampo, per Sasà ha valutato come “alto” il rischio di suicidio.

Versioni opposte sulle ultime ore di vita

Il vuoto dalle 3.00 alle 13.20 nella relazione inviata  dalla direttrice alla pm di Modena verrà colmato dalle lettere denuncia spedite in estate da due detenuti e dall’esposto di fine novembre 2020  firmato da  Mattia Palloni e altri quattro compagni,  ascoltati dalla procura emiliana a dicembre. «Sasà – concordano, con accuse tutte da dimostrare, diventate oggetto di indagine  – è stato picchiato prima, durante e dopo il viaggio. Stava malissimo ed era debole, non riusciva a reggersi in piedi. Ad Ascoli è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. La mattina del 9 marzo il compagno di stanza ha chiesto inutilmente aiuto e più volte. Nessuno è accorso ad aiutare Sasà. Si è sentito un agente pronunciare: “fatelo morire”». Sempre secondo i reclusi – testimoni, che non hanno competenze mediche e che non disponevano di strumenti diagnostici, il quarantenne sarebbe «morto in cella, portato via con un lenzuolo quando era già freddo». I medici con cui Piscitelli è stato a contatto, come detto, raccontano e certificano altro: il decesso in ospedale.

L’inchiesta è tornata nelle Marche

L’inchiesta è tornata nelle Marche, con i magistrati chiamati ad esaminare anche un esposto firmato dall’associazione Antigone, già presente nell’inchiesta modenese come persona offesa. Dagli uffici giudiziari interessati  – procura di Ascoli e procura generale di Ancona – non escono notizie né aggiornamenti. La sola indicazione fatta filtrare un paio di settimane fa, veicolata da un criptico servizio del tg Rai regionale, allude a una autopsia bis  (sulle carte e sui campioni e gli organi prelevati, poiché la salma di Sasà è stata fatta cremare “causa Covid”) oppure alla rilettura degli accertamenti post mortem alla luce delle omissioni, dei pestaggi e degli abusi denunciati dai compagni di viaggio e di cella. (lorenza pleuteri – per la foto si ringrazia la cooperativa teatrale Estia)