Mi chiedete “chi sono stato e chi sono”, sostanzialmente: che tipo di politica ho fin qui vissuto. Da questo punto di vista, ritengo di essere stata una persona particolarmente fortunata nonostante la parte centrale della mia esistenza sia stata caratterizzata da una detenzione comunque vissuta in modo attivo. Una detenzione piuttosto lunga, che non mi ha impedito di vivere avvenimenti importanti, alcuni dei quali centrali nella vita politica del Paese e comunque decisivi per il progresso e l’emancipazione dei proletari. Che è poi la storia dei movimenti. Là dove ci furono accumulazione di esperienze e conoscenze attraverso le lotte che determinarono balzi in avanti, oltre che la crescita di un’avanguardia proletaria capace di attaccare frontalmente il capitale. Questo accumulo di esperienze che si produsse dal Settanta in poi diede vita all’organizzazione proletaria che si misurò frontalmente col capitalismo al punto più alto, con alterne fortune.
Tuttavia, l’impegno più importante da me vissuto è stato quello all’interno del carcere, verso la fine degli anni Sessanta.
Di fronte ad un carcere inaccettabile, un carcere fortemente autoritario, dove accanto ai mille doveri che segnavano la mia giornata non c’era un solo diritto, la ribellione fu immediata e totale. E sulla “cartella biografica”, i carcerieri stamparono la definizione che mi avrebbe accompagnato per tutti gli anni della detenzione: “sobillatore”.
In realtà feci parte di una generazione di detenuti che furono dei rivoluzionari e che partendo dal nulla conquistarono attraverso lotte durissime tutto il possibile. Lotte inimmaginabili, che costarono celle punitive- lunghe anche anni- processi, linciaggi, morti.
Aiutati dal momento storico particolare (quello che doveva poi passare alla storia come il “movimento della contestazione” , allorquando operai e studenti operarono una saldatura sul terreno delle lotte e delle rivendicazioni), il mondo del carcere si inserì in modo naturale, anche perché, di quei fermenti, di quelle lotte diventò il contenitore delle avanguardie più generose. Infatti “fuori”, ad ogni manifestazione, seguivano scontri durissimi; e furono centinaia i giovani arrestati che, sia pure per brevi periodi, vissero a stretto contatto con i detenuti nelle prigioni. I primi approcci con gli arrestati politici puntarono sulla solidarietà. I detenuti “comuni”dividevano con loro il poco che avevano: sigarette, cibo, indumenti. Una solidarietà che servì a conoscerci. A stabilire tra i gruppi una istintiva simpatia. Presto si passò ad un rapporto più produttivo, un vero e proprio rapporto politico. Perché, se nella società “esterna” si contestava soprattutto l’autoritarismo presente in ogni piega dell’organizzazione sociale, il carcere, per sua natura, di questo autoritarismo era il punto più alto.
Nelle fasi precedenti, alla prigione si “resisteva” individualmente. Chi lottava lo faceva da solo e , alla lunga, ne usciva a pezzi, nel morale e spesso nel fisico. Erano tempi in cui non si andava per il sottile. La resistenza costava mesi di celle punitive, a pane e acqua, letteralmente. Ed era alto il numero dei detenuti che, dopo un trattamento simile, venivano colpiti dalla tubercolosi. La nostra lotta invece ebbe subito carattere di collettività e a tutt’oggi ritengo sia stata la stagione più felice, più creativa di tutta la storia carceraria. E questo anche sul piano culturale. Molti libri sono stati scritti e montagne di documenti prodotti. Cominciò in quel periodo la lotta per cambiare il carcere, una lotta collettiva e non disperata, non più isolata.
Gli organismi politici esterni, quelli che andavano organizzandosi al di fuori e in contraddizione coi partiti tradizionali, intuirono la portata di quella lotta e per prima Lotta Continua e poi altri organismi stabilirono con il mondo carcerario un rapporto politico duraturo e organico con le avanguardie che andavano formandosi all’interno delle prigioni.
Questi brevi cenni storici servono a far capire quanto sia stato gravoso il percorso che i detenuti fecero per migliorare le loro condizioni di vita. Oggi, chiunque abbia la sventura di varcare la soglia di un carcere, non deve dimenticare che ogni spazio, ogni oggetto che può possedere, anche il più banale, non è stato frutto di una benevola concessione dei “superiori” ma il risultato di una lotta lunga nel tempo. E che tanto, ma veramente tanto, è costata alla generazione precedente. Quella generazione che nulla aveva e che tutto ha conquistato. È stato un compito gravoso, ma pure esaltante. All’interno di quella lotta sono stati centinaia i detenuti che, puntando sulla solidarietà e sulla conoscenza, hanno maturato una coscienza collettiva.

I familiari di Chouchane Hafedh, uno dei detenuti morti durante la rivolta scoppiata un anno fa in carcere a Modena, si sono opposti alla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura.
“Sono nato a Castellaneta, nel tarantino, il 15 dicembre 1938. Anni tristi, anni di fame per il Sud: il fascismo, la guerra d’Africa, la guerra di Spagna non avevano risolto nulla, avevano succhiato solo uomini. E la guerra mondiale era già nell’aria. Castellaneta è nell’entroterra, a una trentina di chilometri da Taranto. Uno di quei paesoni agricoli, tipici del Sud, né villaggio né città, poverissimi, ricchi solo di bocche da sfamare. Case vecchie, una sola strada decente, in mezzo al paese, qualche villetta dei notabili: le sanguisughe. In campagna i miei nonni lavoravano ancora con l’aratro a braccia. L’unica industria era l’emigrazione. Il fascismo provò a sostituirla con la guerra: a casa invece delle rimesse degli emigranti, cominciarono ad arrivare poche lire sottratte alla “deca”. Il paese era noto nel mondo per una sola gloria: Rodolfo Valentino. Ma i dirigenti locali non seppero sfruttare neppure quella, puntando sulle americane fanatiche dell’amante latino. Mio padre era figlio di contadini. I nonni conducevano a mezzadria una cascina a Lizzano, un altro paesone come Castellaneta. Di tanto in tanto anche mio padre andava a lavorare nella cascina dei vecchi. Ho ricordi molto vaghi di quel tempo, almeno fino al giorno in cui mio padre se ne andò con una vicina di casa anche lei sposata. Tra tutti e due abbandonarono una decina di figli. Com’è costume dalle mie parti, queste cose toccano il limite della tragedia. Il disonore ricade su tutta la famiglia, figli compresi. E naturalmente è la parte più debole, la donna e i figli, che ne porta il peso maggiore. Per me fu un duro colpo. Mio padre era estremamente severo, tra lui e noi non ci fu mai confidenza, ma distacco. Nel paese era uno dei pochi che portava la camicia bianca, si dava un contegno, ci teneva a dimostrare che era un educatore rigido. Quando se ne andò non perse il mio affetto, che non aveva potuto nascere, ma il mio rispetto; tutta la sua austerità era naufragata miseramente. Mia madre non trovò lavoro, i pregiudizi erano troppo forti. Non venne assunta neppure nell’unica azienda del paese, che era diretta da un suo zio. Anzi fu proprio lui a opporsi: temeva il pettegolezzo. E così mia madre dovette andare a Torino, con l’aiuto di una sua sorella che, sposandosi, era andata là. Trovò lavoro come cameriera. Io fui spedito in un “collegio” a Bari, i due figli più piccoli rimasero al paese con la nonna materna, così la “famiglia unita” andò a ramengo.”*