Aggiornamenti sul Processo d’appello No Tav a Torino

Processo d’appello No Tav a Torino

Questo processo, riguardante la giornata di lotta del 3 luglio 2011, è iniziato a metà del gennaio scorso, è stato un poco paralizzato dalla pandemia, ha tenuto un paio di udienze in giugno-luglio, é ripreso all’inizio di novembre ha prefissata un’altra udienza per giovedì 21 gennaio del prossimo anno. Insomma, è impegnato a riportare in galera qualcun*. Nei giorni delle udienze siamo presenti in meno di dieci, mentre davanti al tribunale ci sono sempre compas in presidio con musica, interventi … insomma non siamo lasciati sol*.

Infatti è processo deciso dalla cassazione: che nel 2017 ha spedito al tribunale di Torino l’ordine di riaprirlo data l’assenza, in tanti casi, di documentazione riguardo alle condizioni concrete dei reati attribuiti a numerose-i condannate-i di noi (cioè oltre una ventina di compas di tante regioni).

Scopo e funzione principale del processo dunque è:

dare fondamenta all’accusa, così la procura ha schierato due-tre pm che con il sostegno degli avvocati della “parte civile”, cioè delle aziende edili, scavatrici attive nei cantieri Tav, si impegnano a rafforzare le condizioni dei “reati” e a tacere, nascondere l’attacco della polizia.

Nell’udienza di ieri, 17 dicembre, il procuratore generale si è impegnato nell’aggravare, per esempio, il lancio dei sassi da parte di noi manifestanti contro la polizia, tacendo totalmente che quel lancio era risposta agli spari di lacrimogeni sul corteo, che era l’azione per dare vita, continuità alla lotta contro la devastazione della valle.

In questa situazione ha trovato così posto in aula la lettura di due nostre prese di posizione qui allegate con un abbraccio a todos.

Comunicato

Infrastrutture: 27,7 miliardi <><> Sanità 9: miliardi

E’ quanto verrà investito con i fondi del Recovery plan.

La pandemia che ha colpito non solo il nostro paese, ma tutto il pianeta, ha evidenziato come la Sanità italiana non sia stata capace di affrontare questa emergenza.

I tagli, sia al personale che alle strutture ospedaliere, effettuati da TUTTI i governi negli ultimi decenni ci hanno impedito di poter usufruire di posti letto nelle terapie intensive, e non solo, adeguate alle necessità emergenziali.

Nonostante una altissima cifra di morti che ci colloca al primo posto in Europa e al quinto nel mondo, di tutto l’ammontare dei miliardi europei concessi con il Recovery Plan solo 9 sono stanziati per recuperare le deficienze sanitarie; e sono solo una minima parte di quanto, in termini di denari, è stato sottratto alla Sanità; e sono assai insufficienti per risanare una Sanità portata al collasso dalla politica legata al profitto piuttosto che alle esigenze dei cittadini.

Nel contempo, alle infrastrutture, oltremodo non sempre utili, e spesso solo dispendiose la cifra concessa si ammonta a tre volte superiore a quella della Sanità.

Si finanzia la speculazione e gli interessi mafiosi e si lascia nelle gravi difficoltà dimostrate in questi mesi il più importante dei BENI per la vita dei cittadini: la SANITA’.

La linea ad alta velocità Torino–Lione ha dimostrato tutta la sua inutilità nei decenni trascorsi dalla sua progettazione, che si perde nei tempi andati, ad oggi. Senza che alcuno ne abbia sentito la mancanza. Tutti i dati dimostrano che questa opera non offe alcun servizio che già non faccia l’attuale linea “storica”.

E nonostante che i residenti della Val di Susa si siano visti ridimensionare non poco il presidio ospedaliero del territorio, come d’altronde milioni di altri cittadini italiani, devono assistere allo sperpero di milioni e milioni di denaro pubblico in questa opera che forse mai vedrà il suo termine ultimo.

Normale che tutta la Valle si opponga, da quasi trenta anni, a questo sperpero di denaro.

Normale che questa Lotta abbia trovato solidarietà, sostegno e partecipazione da parte di interi settori della popolazione sia della regione che nazionali.

La risposta della politica istituzionale ai suoi massimi livelli non si è basata sulla dialettica e il confronto. NO! Nessuna ragione si è mai voluta sentire, ancorché discutere.

La risposta è stata una feroce repressione. Che si è sviluppata con una violenza inaudita, come ci dimostrano anche gli ultimi arresti di persone colpevoli solo di aver sostenuto uno striscione o parlato ad un megafono durante un’azione dimostrativa e pacifica; come ci ha dimostrato il tentativo della Procura torinese, miseramente bocciato dalla Cassazione, di accusare di terrorismo per una azione di sabotaggio il cui unico danno è stato subito da un generatore.

Il processo odierno, che si ripete in questa Corte d’Appello dopo la bocciatura in Cassazione ha solamente rappresentato la volontà dello Stato di voler annientare il Movimento No Tav con anni e anni di galera inflitti sulla sola base della presenza in zona degli imputati, insieme oltretutto a decine di migliaia di altre persone.

Esprimiamo solidarietà con Dana Lauriola in carcere alle Vallette, con Emilio Fabiola Stella Mattia Stefanino e Massimo ai domiciliari e con tutti i colpiti da misure restrittive.

Torino 17 dicembre 2020 GLI IMPUTATI DEL PROCESSONE NO TAV

17- dicembre – 2020

Siamo qui per rafforzare la resistenza allo sconvolgimento del territorio della Val Susa, per far posto a ulteriori autostrade, a villaggi per famiglie ricche – resistenza iniziata all’apertura dei primi cantieri lungo la valle avvenuta oltre 10 anni fa.

Il 3 luglio 2011 fu una giornata di mobilitazione generale ancor oggi, qui, sotto processo che, nonostante arresti, militarizzazione dei cantieri aperti in valle, è riuscita in sostanza a limitarli, fino anche a bloccarli.

Anche in questo processo cercate di affermare ulteriori condanne sospinte dalla “parte civile” la cui “civiltà” manifesta appieno il proprio essere oggi nell’esplosione e modi di affrontare l’epidemia in corso. L’apparato sanitario non è stato in grado di affrontarla per l’assenza negli ospedali dell’accesso a terapie e tecniche curative necessarie, segnando così la morte di migliaia di persone.

Anche qui le “parti civili” sono parte direttamente di sostegno dell’accusa, delle aziende impegnate nell’apertura di cantieri e degli attacchi della polizia per far avanzare la devastazione della valle.

Esprimiamo piena solidarietà alle iniziative del movimento No Tav, a compagne- compagni colpite con il carcere, arresti e controlli di ogni tipo.

Le vostre condanne non ci disperdono come dimostra la notte di presidio realizzata in valle sabato scorso.

Avanti No Tav

GLI IMPUTATI DEL PROCESSONE NO TAV

No Tav, dalla Cassazione clamorosa smentita del teorema torinese

– Livio Pepino, Il Manifesto . La sentenza della Cassazione che ha annullato pressoché in toto le pesanti condanne inflitte dalla Corte di appello di Torino nel maxiprocesso per gli scontri in Valsusa nel 2011, è una smentita senza precedenti dei teoremi di Procura e giudici torinesi nei confronti dei No Tav.

Non è certo la prima.

Basta ricordare, per limitarsi ai casi più noti, la caduta rovinosa dell’imputazione di terrorismo nel processo per il danneggiamento di un compressore e l’annullamento di numerose misure cautelari.

Ma questa volta la smentita è, se possibile, ancora più significativa.

Per coglierne il senso conviene ripercorrere la vicenda.

I fatti risalgono all’estate del 2011 e si verificano alla Maddalena di Chiomonte dove, all’esito di numerosi ripensamenti, si è deciso di cominciare lo scavo del tunnel geognostico propedeutico alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione.

Lì si organizza l’opposizione della Valle con un presidio di migliaia di persone che, il 27 giugno, vengono sgomberate, con inaudita violenza e con un uso massiccio di lacrimogeni, da reparti di varie polizie in assetto di guerra.

Allo sgombero fa seguito, il 3 luglio, un imponente corteo di protesta all’esito del quale si verificano pesanti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Sei mesi dopo il gip di Torino emette 41 misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav imputati di violenza pluriaggravata a pubblico ufficiale e di lesioni.

La lettura del provvedimento dimostra un inedito salto di qualità dell’intervento giudiziario che, da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali, si trasforma sempre più in strumento di tutela dell’ordine pubblico.

Le misure cautelari, pur facoltative, vengono emesse per reati che consentono, con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la sospensione condizionale della pena e vengono giustificate tra l’altro, con la singolare considerazione che «i lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati».

La motivazione si concentra, più che sulle condotte individuali, su una ritenuta responsabilità collettiva sino all’affermazione che «è superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano».

La pericolosità degli imputati viene desunta essenzialmente da rapporti di polizia e, per uno di essi, addirittura dal fatto che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare «Lotta Continua» e «Potere operaio» e partecipa a una manifestazione non preavvisata» (sic!).

Il seguito è coerente, all’insegna di quello che è stato definito il «diritto penale del nemico». Il procuratore della Repubblica interviene di continuo sulla stampa affermando in modo tranchant che «a operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari affluite nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico».

I vertici degli uffici giudiziari torinesi non consentono lo svolgimento a palazzo di giustizia di un convegno sul tema organizzato dai Giuristi democratici. Il processo è sostenuto in modo acritico da un’alleanza di ferro tra fautori dell’opera, Partito democratico e media locali e nazionali. Interviene persino il presidente della Repubblica che «rinnova l’apprezzamento per come magistratura e forze dellordine stanno operando in quella tormentata area della Valsusa»).

In questo clima, e in aule presidiate da forze di polizia come se fossero campi di battaglia, si svolgono i dibattimenti di primo e di secondo grado che si concludono con pesanti condanne di gran parte degli imputati. Ebbene, oggi, sei anni dopo l’inizio del processo, la Cassazione riconosce l’inconsistenza e la forzatura di questa operazione.

Certo, occorre aspettare le motivazioni.

Ma, intanto, alcune cose sono chiare già dal dispositivo: che le motivazioni delle condanne non sono congrue (tanto da imporre un nuovo processo per quasi tutte le posizioni), che alcuni dei reati contestati semplicemente non esistono (tanto da determinare l’annullamento della sentenza sul punto), che la sostituzione della responsabilità individuale con una inedita responsabilità collettiva a titolo di concorso non può avere cittadinanza nel nostro sistema, che alcune delle pene inflitte sono eccessive.

È quanto basta per dire che è necessaria una completa rilettura della vicenda.

Tutti i governi dei paesi imperialisti in Europa preparano repressione e carcere per chi si ribella – la Francia di Macron ad esempio

Un articolo dal giornale dei compagni marxisti-leninisti-maoisti francesi

in via di traduzione



Depuis plusieurs semaines maintenant, nous entendons beaucoup parler de l’article 24 de la loi de sécurité globale. En effet, cet article (suspendu pour le moment) vise à empêcher la population de diffuser des images de violences policières. Si cet article cristallise légitimement la colère des masses populaires, l’article 23 est tout aussi infâme, et illustre bien la façon dont l’État prépara son système carcéral en vue d’années de lutte intense.

L’article 23 de la loi de sécurité globale prévoit que « Les personnes condamnées à une peine privative de liberté pour une ou plusieurs infractions (…) ne bénéficient pas des crédits de réduction de peine (…) lorsque ces infractions ont été commises au préjudice d’une personne investie d’un mandat électif public, d’un militaire de la gendarmerie nationale, d’un fonctionnaire de la police nationale …) ». En clair, l’article prévoit de supprimer les remises de peine pour les personnes condamnées pour des infractions commises à l’encontre de membres des forces de l’ordre ou d’élus.

Bien-sûr, l’objectif de cet article est clair : maintenir en prison le plus longtemps possible toute personne qui s’attaque à des flics ou à des politiciens bourgeois. En cela, l’article vise évidemment les manifestations, les révoltes, les grèves, et tous les évènements de contestation au cours desquels des personnes peuvent légitimement s’en prendre aux flics dans le but de lutter contre l’infâme système capitaliste-impérialiste dont les policiers sont les chiens de garde.

Alors que la justice bourgeoise est déjà expéditive et extrêmement répressive à l’encontre de toutes celles et ceux qui luttent contre le capitalisme, cette loi va donc encore renforcer cela, et nous pouvons être certains que les juges et les flics sauront utiliser cet article de loi à leur avantage. En effet, il est très fréquent que les flics accusent de façon mensongère des innocents de violences ou d’outrages dans le but de récupérer des dommages et intérêts ou dans le but d’envoyer ces personnes derrière les barreaux. Avec ce nouvel article de loi, nous pouvons être certains que ces pratiques seront de plus en plus fréquentes, et que lorsqu’ils arrêteront des militants pour des faits ne rentrant pas dans le champ d’application de cet article 23, les flics n’hésiteront pas à ajouter un outrage inexistant à l’affaire dans le but de faire sauter les réductions de peine à la personne condamnée.

Par ces réformes qui se multiplient, mais aussi par la construction de nouvelles places de prison, l’État se prépare donc aux années qui viennent. Nous le savons déjà, la lutte des classes ne va faire que s’intensifier au sein de l’État français dans les années à venir. Le pourrissement de l’impérialisme français, les crises économiques amplifiées par la crise sanitaire, les reformes antisociales qui se multiplient et le renforcement des organisations révolutionnaires comme les Jeunes Révolutionnaires, sont autant d’éléments qui promettent des années intenses de lutte. Alors, l’État se prépare tout naturellement à essayer d’écraser ces révoltes. C’est pourquoi, comme il l’a fait au cours du mouvement des gilets jaunes, il s’apprête à mettre en prison le plus de militants possible. L’État espère ainsi, par cette répression de plus en plus féroce, contrecarrer les révoltes populaires et maintenir le plus longtemps possible le système capitaliste. Seulement, l’État ne comprend pas que même avec toute la répression du monde, il ne pourra que retarder sa chute, mais il ne pourra jamais l’empêcher.

L’État ne comprend pas non plus qu’un militant révolutionnaire derrière les barreaux n’arrête pas de militer, mais il adapte juste ses modes de militantisme à l’environnement carcéral, comme l’ont fait les prisonniers politiques du Parti Communiste du Pérou dans les années 1980 et 1990 en profitant de leurs temps derrière les barreaux pour lire des ouvrages de théorie révolutionnaire, pour organiser la vie de la prison selon des principes communistes et pour convaincre d’autres détenus de rejoindre les forces révolutionnaires.

Ainsi, alors que l’État renforce son arsenal répressif pour essayer en vain d’écraser les révoltes, nous, révolutionnaires, ne pouvons voir en cela qu’un signe positif : l’État a peur de la révolution. À nous maintenant de faire de cette peur une réalité.

La verità nel pozzo. Sulla rivolta di Modena e la morte di Sasà

Da Radiocane

Dopo la rivolta, nei giorni seguenti l’8 marzo 2020, venivano trasferiti dal carcere di Modena a quello di Ascoli, insieme a un’altra quarantina di detenuti. Tra loro c’era Sasà (Salvatore Piscitelli), che morirà di lì a poco, nella più totale indifferenza delle guardie.
In nove mesi nessuno li ha cercati per chiedere la loro versione, nessuno è andato a visitarli per sapere come stessero. Così, cinque detenuti, tra cui il compagno di cella di Sasà, hanno deciso di rompere il silenzio e presentare un esposto in cui raccontano tutto quanto hanno visto e subìto in quei giorni. Ora sono stati trasferiti nuovamente a Modena, dove sembra siano in attesa di essere sentiti da un magistrato.
Quella verità – fatta di corpi offesi, feriti, umiliati – che quasi nessuno cercava – tanto da accontentarsi della tesi assurda delle nove overdose confermata da frettolose autopsie e sbrigative cremazioni – ma che era sotto gli occhi di chiunque volesse vedere, grazie al loro coraggio torna oggi a galla dal pozzo nero dell’oblio e finalmente spezza il primo anello di una catena di menzogne – passate di bocca in bocca e di telegiornale in telegiornale – e strappa il drappo di silenzio stretto a bavaglio attorno a quest’ennesima mattanza di Stato.
Due familiari dei cinque detenuti che hanno deciso di denunciare – e che ora si trovano isolati in cella liscia nel carcere di Modena – raccontano questa storia, terribilmente personale, terribilmente comune a tante altre, troppo spesso dimenticate. Infine ci ricordano come il calore di tutti noi qui fuori possa scaldare le celle di Claudio, Mattia, Ferruccio, Cavazza e Francesco, e sostenerli nella loro scelta coraggiosa.

 

 

Venerdì 18 in solidarietà con i 5 detenuti trasferiti a Modena

Tra parenti e solidali dei 5 detenuti trasferiti a Modena da Ascoli in seguito all’esposto che hanno fatto sul massacro dell’8 marzo, si è pensato di fare un massiccio invio di mail VENERDI 18 DICEMBRE all’indirizzo del carcere di modena cc.modena@giustizia.it, come piccolo ulteriore segno di pressione e di solidarietà compatta che tra amici, parenti e solidali sta maturando. Il testo, pensato insieme, riporta le ritorsioni e pressioni che il carcere di Modena sta attuando nei loro confronti, fatti rispetto ai quali non vanno lasciati soli.
Diffondiamo il testo e la proposta con i canali che abbiamo a disposizione. Un suggerimento per evitare il cestinamento automatico può essere quello di non mettere tutte/i lo stesso oggetto alla mail, andiamo di fantasia!
Il testo è il seguente:

A marzo le botte, a dicembre la tortura: è inaccettabile che chi ha detto la verità venga privato della propria dignità, che vengano date coperte bagnate, che non vengano dati loro i propri vestiti, che debbano bere acqua gialla del rubinetto, che non vengano accreditati i soldi sul conto, che vengano messi in celle con i vetri rotti al freddo, che vengano impediti colloqui già autorizzati. Tutto questo fuori si sa. Anche se le mura del carcere sono alte la solidarietà le supera. A fianco di Claudio, Mattia, Ferruccio, Cavazza e Francesco e di tutti i detenuti e le detenute.

SEMPRE VENERDI 18 A SILENZIO ASSORDANTE, TRASMISSIONE SU RADIONDAROSSA, DALLE 16 ALLE 18 PUNTATA DEDICATA A QUESTA VICENDA

Il massacro nel carcere di Modena. Prime crepe nel muro del silenzio

La vergognosa balla sui 13 detenuti morti a marzo durante le proteste nelle carceri comincia, tardivamente ma finalmente, ad essere smontata. Ma la vendetta dell’amministrazione penitenziaria si abbatte ancora sugli estensori della denuncia.

Cinque detenuti hanno infatti presentato un esposto alla Procura di Ancona. Si tratta di cinque reclusi che erano nel carcere di Modena l’8 marzo quando, durante la rivolta contro l’affollamento in piena pandemia di Covid-19, morirono 13 detenuti.

La vergognosa versione ufficiale – accettata da quasi tutti senza dubbi e senza colpo ferire – era che i reclusi erano morti per overdose di farmaci.

L’agenzia AGI ha potuto prendere visione dell’esposto presentato alla Procura di Ancona, e qui si parla di un “pestaggio di massa” da parte degli agenti e di soccorsi negati ai loro compagni di cella che stavano male per avere ingerito farmaci.

La ricostruzione somiglia molto a quella resa ad agosto da altri due reclusi attraverso altrettante lettere spedite all’AGI e che avevano dato l’avvio, sulla base dell’inchiesta giornalistica, a un’indagine della Procura di Modena per omicidio colposo a carico di ignoti.

Secondo l’AGI, i firmatari dell’esposto, che indicano i nomi dei loro difensori, hanno consegnato all’ufficio matricole del carcere di Ascoli l’esposto destinato ad Ancona (Procura competente per territorio) in cui domandano di essere sentiti dai magistrati per contribuire a “fare chiarezza” su quanto accadde a marzo nel carcere di Modena e che provocò ben tredici morti tra i detenuti.

Ma la vendetta del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) non si è fatta attendere. I familiari e gli avvocati fanno presente che, dopo la presentazione dell’esposto, i cinque detenuti che hanno fatto la denuncia sono stati riportati proprio nel carcere di Modena “in un ambiente ostile”.

Le ragioni del trasferimento non sono al momento chiare. Dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria arriva un “no comment”, mentre fonti investigative assicurano che i cinque “non sono indagati e nemmeno sono stati sentiti a Modena”. La loro ricostruzione di quanto avvenuto in quel carcere a marzo, che adesso andrà verificata nell’ambito delle indagini in corso, è impressionante. Purtroppo sappiamo che spesso non è una eccezione ma la regola.

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Su questa parte riprendiamo integralmente il servizio dell’Agi

“Pestaggi di massa anche se non opponevamo resistenza”

Dichiarano “di aver assistito ai metodi coercitivi messi in atto da parte degli agenti della polizia penitenziaria di Modena e successivamente di Bologna e Reggio Emilia intervenuti come supporto. Ossia l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo. L’aver caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone”.

Anche loro, sostengono, sarebbero stati “picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e privati delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna. Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate, un vero pestaggio di massa”.

“Salvatore lasciato morire tra versi lancinanti”

Un capitolo a parte è dedicato alla vicenda di Salvatore Piscitelli, il 40enne sulla cui morte i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era rinchiuso prima di Modena, avevano chiesto “la verità” in una lettera resa pubblica a giugno.

“Il detenuto Piscitelli, già brutalmente picchiato presso la casa circondariale di Modena e durante la traduzione, arrivò presso la casa circondariale di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti. Una volta giunto alla sezione posta al secondo piano lato sinistro gli fu fatto il letto dal detenuto F. (uno dei firmatari dell’esposto) poiché era visibile a chiunque la sua condizione di overdose da farmaci. Appoggiato sul letto della cella numero 52 gli fu messo come cellante (il compagno di cella, ndr)  il detenuto M. (anche lui tra i denuncianti).Tutti ci chiedemmo come mai il dirigente sanitario o il medico che ci aveva visitato all’ingresso non ne avesse disposto l’immediato ricovero in ospedale. Tutti facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna. La mattina seguente fu fatto nuovamente presente (da C. altro firmatario dell’esposto) che Piscitelli non stava bene, emetteva dei versi lancinanti e doveva essere visitato nuovamente ma nulla fu fatto. Verso le 09:00 del mattino furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico, qualcuno sentì un agente dire “ fatelo morire “, verso le 10:00 – 10:20 dopo molteplici solleciti furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo, Piscitelli era morto. Il suo cellante fu fatto uscire dalla cella e ubicato nella cella numero 49 insieme al F. (il compagno che gli aveva fatto il letto, ndr). Piscitelli fu sdraiato sul pavimento (cosa che si fa per praticare manovre rianimatorie, ndr), giunta l’infermiera la stessa voleva provare a fare un’iniezione al Piscitelli ma fu fermata dal commissario che gli fece notare che il ragazzo era ormai morto. Messo in un lenzuolo fu successivamente portato via. Successivamente abbiamo notato che molti agenti e il garante stesso dei detenuti asserivano che il Piscitelli fosse morto in ospedale”.  Anche nelle lettere acquisite dalla Procura di Modena, i due detenuti – testimoni aveva parlato di “mancate cure” in carcere, nonostante fosse “molto debole”, a Piscitelli.

Sulla sua fine le versioni sono contrastanti. La direzione e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria sostengono che sia deceduto in ospedale dopo essere stato soccorso in cella, in una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e in una comunicazione del ministro di Giustizia  si dice che è morto “presso il carcere”. Un altro passaggio della denuncia si sofferma sulle visite svolte all’arrivo ad Ascoli. “Uno alla volta e quasi tutti senza scarpe fummo accompagnati prima in una stanza ove venimmo perquisiti e successivamente sottoposti alla classica visita medica, dove a molti di noi non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee”. La mattina dopo l’arrivo “molti di noi  furono picchiati con calci, pugni e manganellate, all’interno delle celle a opera di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria»

Ma dei pestaggi non c’è traccia nelle relazioni ufficiali

Dei presunti pestaggi non  c’è traccia nelle relazioni del  Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria)  e nelle risposte date a question time e interrogazioni parlamentari presentate, le ultime ancora in sospeso. E da quel che si sa sugli esiti delle prime autopsie, non sono emerse violenze, mentre sembrerebbe acclarato l’abuso di farmaci e metadone.

“Il mio assistito è stato riportato a Modena – dice il legale di uno dei firmatari, l’avvocato Domenico Pennacchio – circostanza che ha messo in agitazione i suoi familiari. Quello che sembra emergere, secondo le prime ricostruzioni, è che questi detenuti hanno abusato di farmaci razziati dall’infermeria e poi non sono stati soccorsi. Stamattina ho ricevuto una comunicazione dal garante della Regione Campania al quale mi ero rivolto a tutela dell’incolumità del mio assistito, che è prossimo alla scarcerazione, in relazione al trasferimento a Modena, ma mi hanno detto di rivolgermi al Garante dell’Emilia Romagna. Al Dap avevamo chiesto più volte un riavvicinamento in un carcere alla famiglia, sempre negato. Come legale ho delle perplessità e delle preoccupazioni sul ritorno a Modena”.

La polizia penitenziaria nega i pestaggi

La parte del racconto sui pestaggi viene negata anche da Gennarino De Fazio, segretario nazionale Uilpa  della polizia penitenziaria, che invita a riflettere invece su altre possibili mancanze nella gestione della protesta. “Mi sento di escludere che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che parliamo di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire ‘legittima’ perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni”.

De Fazio sottolinea altri aspetti della vicenda: “Il fatto che i detenuti siano arrivati così facilmente alle infermerie degli istituti e si siano approvvigionati di metadone con così tanta facilità dimostra che qualcosa è mancato. Si aveva l’obbligo di rendere più sicure le infermerie? Non impedire la commissione di un reato, per il nostro codice penale, equivale a cagionarlo. Non è possibile che siano morte in questo modo 13 persone”.

Inizia il processo agli sbirri di Piacenza accusati di torture, lesioni, estorsione, spaccio di droga e arresti illegali

La prossima udienza il 18 dicembre

E’ iniziato questa mattina, lunedì 14 dicembre, il processo nei confronti dei carabinieri della caserma Levante, accusati di torture, lesioni, estorsione, spaccio di droga e arresti illegali, in combutta con un gruppo di spacciatori-informatori. Un caso scoppiato nel luglio scorso. Cinque carabinieri finirono in cella, un maresciallo ai domiciliari, altri militari denunciati, tra cui un ufficiale, senza contare una decina d’altri arresti per spaccio di stupefacenti. Venne addirittura sequestrata la caserma, primo caso nella storia d’Italia, da poco riaperta con un nuovo comandante. Per 15 degli accusati, ora è arrivato il momento di presentarsi in aula.
Nella prima udienza in tribunale del processo con rito abbreviato e dei patteggiamenti davanti al giudice Fiammetta Modica per il caso Levante, sono state avanzate tredici richieste di costituzione di parte civile. Tre riguardano associazioni e sindacati (PdM, Partito per la tutela dei diritti dei militari, Nsc, Nuovo sindacato carabinieri e Silca, Sindacato italiano lavoratori carabinieri) mentre le altre dieci riguardano le parti offese. Tra queste quella di Israel Anyanku , il giovane che sarebbe stato picchiato dai carabinieri della Levante e la cui foto era diventata il simbolo dell’inchiesta. “Ho detto la verità: sono stato picchiato senza nessuna accusa. Adesso voglio giustizia” ha spiegato il giovane, accompagnato dall’avvocato Ali Listi Maman. Tra le costituzioni di parti civili non risultano l’Arma dei Carabinieri che era stata indicata come parte offesa, né il Comune di Piacenza.

Criminale è chi ci sfrutta e reprime le giuste lotte, solidarietà agli operai sotto processo a Torino. SRP

Presidio dal Tribunale di Torino: 30 operai a processo, continua la lotta per la libertà di organizzazione e sciopero

Processo Safim: presidio dal Tribunale di Torino in solidarietà ai 30 lavoratori messi alla sbarra per aver fatto sciopero ottenendo migliori condizioni di lavoro e di vita per tutti gli operai dell’azienda di None, anche protestando contro la repressione di tutte le lotte da Modena alla val Susa.

Il processo Safim è un (ennesimo) caso esemplare di repressione antioperaia e antimmigrati: determinato dalle indagini della polizia politica digos, coordinate dal pm Padalino (noto, feroce paladino degli speculatori di ogni sorta recentemente accusato di corruzione e abuso d’ufficio), questo castello di carte giuridiche è un attacco a lavoratori, solidali e coordinatori sindacali.

Accusati formalmente di vari reati, nella sostanza questi lavoratori sono accusati del “crimine” di

essersi ribellati allo sfruttamento padronale, organizzandosi nella lotta con un sindacato conflittuale usando le due armi storiche del movimento operaio: la solidarietà e lo sciopero.

Ricordiamo che la Safim di None attuò (complici la Questura, la Prefettura e la locale Confindustria) una rappresaglia antisindacale arrivando a licenziare i 4 delegati sindacale di S.I. Cobas (che una sentenza dello stesso Tribunale di Torino ha poi giudicato illegittimi) che avevano guidato le vittoriose lotte dentro questo importante magazzino della logistica alimentare a freddo (che nel 2019 ha fatturato più di 50 milioni di euro).

A quest’attacco, rispondiamo rilanciando la lotta alla Safim, verso lo sciopero nazionale della logistica del 18 dicembre, che è la lotta di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici per conquistarci salario, diritti e dignità.

Verso lo sciopero nazionale della logistica del 18 dicembre e lo sciopero generale del 29 Gennaio!

Verso la giornata di manifestazione nazionale del 30 Gennaio!

Chi tocca uno tocca tutti!

S.I. Cobas Torino