Non sono mele marce. Le violenze strutturali del sistema carcere: il caso di Torino

Il vaso di pandora è stato scoperchiato e ora settimana dopo settimana si aggiungono dettagli e particolari sulle condotte vomitevoli che 25 agenti della polizia penitenziaria coperti dal silenzio e dalla connivenza del direttore hanno compiuto per anni all’interno delle mura del carcere di Torino.

Lesioni, umiliazioni e  violenze divenute sistematiche ed organizzate sopratutto a partire dal 2017: celle dedicate ai pestaggi, squadrette di secondini, insabbiamento degli interventi medici non potevano far altro che portare all’accusa del reato di tortura per chi si sentiva protetto e sostenuto nel proprio agire.

Una falla nella fogna che rende possibile carriere veloci come quelle dell’ormai ex direttore Minervini… solo che a questo giro la puzza è stata cosi intensa che ha superato la cinta muraria e il nuovo responsabile del DAP si è visto costretto a destituire Minervini e il capo delle guardie Giovanni Battista Alberatonza. Non sfugge alla nostra attenzione la motivazione di tale decisione la cui ipocrisia così si manifesta: “motivi di opportunità.” Più che opportunità viene da pensare che si tratti di convenienza: risulta infatti evidente che ciò che si cela dietro a questa parola altro non sia il consueto tentativo di relegare violenze ed abusi insiti nel sistema carcerario ad atti singoli compiuti da “mele marce”.

La perplessità appare necessaria: per coprire il fatto che violenze e abusi siano pratiche consuete e necessarie per mantenere lo status quo che regna nei fortini-carcere ora Minervini viene sacrificato come capro espiatorio tra l’indignazione di chi in pochi anni gli ha permesso di rivestire quel ruolo.
Carriera rapidissima ed applaudita nel 2014 in occasione del suo insediamento a Lorusso – Cutugno: prima di Torino in pochissimi anni chissà quanti abusi le sue mani hanno insabbiato anche ad Asti, Alessandria e Cuneo dove ha svolto il medesimo ruolo.

Ora il DAP si dissocia da colui che nel 2006 e nel 2009 ha addirittura potuto svolgere attività di docenza nella Formazione per Vice Ispettore ed Agenti di Polizia Penitenziaria a Cairo Montenotte… c’è da chiedersi quale sarà stata la formazione elargita in questo contesto!

Tra gli indagati di questa maxi inchiesta che si basa su un fascicolo di oltre 5600 pagine troviamo anche l’ispettore Gebbia gia segnalato negli anni al DAP come agente particolarmente violento: sarebbe infatti merito suo la creazione e la scelta delle squadre di picchiatori e delle 4 celle destinate alle torture a cui hanno sottoposto decine e decine di detenuti.

Sempre più difficile per il DAP contenere e ridurre ciò che sta emergendo sul carcere di Torino ad un’esecrabile eccezione. Non ci possiamo infatti dimenticare che i vertici del DAP hanno ignorato per anni le montagne di segnalazioni arrivate sulle loro prestigiose scrivanie: un esempio tra i tanti è la storia di Antonio Raddi. A ventotto anni è morto infatti nel 2019 proprio nel carcere di Torino: la sua evidente situazione di sofferenza era stata segnalata dal garante dei diritti dei detenuti per ben 9 volte sia al direttore che al DAP. Dopo avere rapidamente perso 30 chili ed essere stato più volte portato in infermeria perchè “vomitava sangue” la risposta dei vertici del Lorusso – Cutugno era stata che la perdita del peso “era da considerare una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”… e cosi con l’omertà e la connivenza di tutti Antonio muore al Maria Vittoria dopo essere entrato in coma. Il fatto che avesse più volte presentato lamentela per le condizioni igieniche in cui era costretto a vivere, per il fatto che nel suo cibo ci fossero insetti e muffa e che non venisse portato in infermeria quando stava male è anch’essa da considerare un’eccezione?

Sarebbe una “bella” favola con un “giusto” finale se ci accontentassimo di leggere la realtà cosi come il DAP ce la vuole far bere: nel rapporto annuale di Antigone proprio del 2017 troviamo però segnalazioni e casi di violenza non solo a Torino, ma anche ad Ascoli Piceno, Genova, Ivrea, Lecce, Palermo, Parma, Salerno, Roma e Pordenone… Quante “eccezioni” nelle fabbriche della violenza che a Lor Signori piace chiamare “case circondariali”.

da InfoAut

La storia di S.W., che è stato rimpatriato oggi da Gradisca

Da https://nofrontierefvg.noblogs.org

Pubblichiamo la testimonianza di S.W., un ex recluso. Nella prima parte, viene raccontato un tentato pestaggio poliziesco nel CPR di Gradisca, che ben testimonia quale sia l’atteggiamento intimidatorio – quando non espressamente violento – della polizia all’interno del centro. Quando uno degli internati del CPR si è autolesionato, tagliandosi con una lametta, gambe, torace e collo per protestare contro lo stato di detenzione in cui vive. Venti uomini delle f.d.o. interne al CPR si sono presentati in assetto antisommossa pronti a picchiare la persona in questione per riportarla all’ordine. Nella seconda parte, S.W. racconta la storia della sua vita, mostrando come uno Stato strutturalmente razzista possa cominciare a distruggere la vita delle persone ben prima di chiuderle in un CPR.

Sono arrivati in venti in assetto antisommossa, in schiere da cinque, come se volessero assaltare una città. Quando volevano picchiare [un recluso] in venti persone, io ho tirato fuori il cellulare e cominciato fare video. Uno di loro, che era il capo, mi ha detto: ti porto in carcere se fai il video. Io ho risposto che non ho paura di carcere e io denuncio a voi.

Loro dopo sono andati via perché c’erano tutti. E sono arrivato dopo nella mia stanza con ragazzi di esercito e mi uno ha detto che avevo violato leggi perché avevo fatto un video a loro. Io ho detto di provarlo in tribunale e che però io cellulare non glielo davo. […]

Ha detto che mi denunciava, e ho risposto: fai pure denuncia, ci vediamo in tribunale. Lui se n’è andato.

Io ormai ho capito come funziona in Italia. Io non ho fatto rapine o spacciato droga. Non ho rubato. Tutte le denunce che ho sono violenza, resistenza, minaccia etc etc di carabinieri della mia città ***.

Anche loro hanno scritto tutto quello che vogliano. Mi hanno picchiato tre volte quando ero ubriaco e chiedevo loro di mandarmi in Pakistan o darmi indietro passaporto. Hanno ragione loro sempre. Ti giuro che non ti ho detto niente di falso. Avevo costruito in anni mia vita ed è stata rovinata da una denuncia dei carabinieri, sempre gli stessi di *nome città*, dove abitavo da 15 anni.

E anche qui in CPR ci riempiono di denunce. Peggiorano la situazione di ogni persona così. Il giudice qui in Italia non hanno mai fatto qualcosa contro la polizia. Io avevo certificazione in carcere perché mi avevano picchiato in caserma con calci pugni in venti. […]

E ancora sono qui. Non mi hanno confermato ancora che mi rimandano in Pakistan. Se non vado, faccio un casino qui e vado in carcere. Almeno mi danno gli arresti domiciliari. Qui è un casino. Il carcere è meglio di qui, almeno lavori e passi il tempo.

Non posso andare senza passaporto. Sono tre anni che la Questura mi ha preso il mio passaporto con permesso di soggiorno per lungo periodo e carta di identità. […]

Avevo permesso di soggiorno francese anche, ma è scaduto perché avevo obbligo di firma da giudice di pace di *nome città* per espulsione nel 2017; non mi hanno mai fatto espulsione e nemmeno mi hanno dato il passaporto. Io dopo un anno di firma ho rifiutato di firmare a carabinieri di *nome città* ed è successo un casino con quei bastardi. Ho preso denuncia e condanna per 14 mesi per resistenza e violenza pubblico ufficiale. Mi hanno picchiato di brutto.

Ho fatto richiesta anche in TAR di *** per avere documenti, due volte. Mi hanno rifiutato perché la Questura dice che sono pericoloso. Io non ho rubato nulla, non ho fatto rapine, non ho spacciato. Ho solo denunce da parte dei carabinieri di *nome città*. Sempre con loro. Io sono stanco di queste cose di polizia, avvocato, giudice etc etc. Non ho armonia o tranquillità nella mia vita da quattro anni. Non posso sfidare lo Stato. Ero depresso in quel periodo e bevevo troppo e usavo sempre sonniferi per dormire. Quelle denunce hanno cambiato mia vita in peggio. Io ho sempre lavorato e non mi manca niente però non voglio più stare in un posto dove non hai una sicurezza di futuro.

Nel 2004 ero venuto in Italia e non avevo nessuna denuncia fino al 2016, ti giuro, neanche una multa. Avevo una ragazza italiana, una casa, un lavoro, tutto: invece di aiutarmi a risolvere i problemi con testa o portarmi da uno psicologo, mi hanno fatto denunce.

Si tratta di S.W., un giovane arrivato in Italia da minorenne più di 15 anni fa. Qui si è fermato a Reggio Emilia, dove ci racconta che ha lavorato per dieci anni in una stalla e per cinque come camionista. Nel 2017 la Questura gli ha fatto un decreto di espulsione, lui però dice che non aveva la consapevolezza di cosa stesse firmando. Da lì, non ha mai più avuto modo di regolarizzarsi, nonostante i soldi che ci racconta di aver investito in avvocati e ricorsi. Sembra sia entrato in CPR perché si è presentato nella stessa Questura chiedendo di essere rimpatriato, esausto dalla vita cui è stato costretto in Italia, pur non avendo alcun legame con il Paese d’origine che aveva lasciato da bambino. Invece di un rimpatrio assistito, è stato portato a Gradisca dove come gli altri ha rischiato la morte. Nel suo tempo dentro il CPR noi sappiamo solo che è stato molto gentile, che ha aiutato chiunque potesse stando attento alle necessità degli altri detenuti, che faceva sport per cercare di rimanere lucido e di stancare il suo corpo in modo da non trovarsi costretto ad accettare la terapia farmacologica per dormire. Dopo il presidio spontaneo di solidali nato davanti al CPR in seguito alla morte di Orgest Turia, S.W. diceva a chiunque fosse passato lì davanti:

“Grazie per vostro sostegno. Tutti ragazzi vi salutano e ringraziano. Anche se non cambia niente voi avete fatto la vostra parte. [Ci] Sono ancora persone come voi che credono in umanità. È già tanto per me. Questo ho imparato da voi. Persone diverse in nazionalità religione etc etc che credono che ognuno ha diritto di avere una seconda possibilità di vivere in società, dando il suo contributo. Grazie a tutti voi.”

Purtroppo anche S.W. ora non è più in Italia, lasciandoci sempre più sol* con italiani come quelli che oggi sono entrati in Consiglio regionale, come quelli che dal Consiglio regionale hanno invitato allo sterminio o come quelli che hanno dato ampia diffusione ai video di questi soggetti, ignorando invece quelli delle rivolte nel lager di Gradisca d’Isonzo.

India: così il governo sta approfittando della pandemia per schiacciare il dissenso

Durante il lockdown imposto a fine marzo, 1.300 persone tra studenti, attivisti, docenti e giornalisti sono stati accusati o tratti in arresto per motivi politici. Fatti “gravi” come denuncia Human Rights Watch. Il tutto mentre il Paese potrebbe presto diventare il nuovo epicentro globale di Covid-19

“In un momento in cui gli esperti hanno ripetutamente chiesto di ridurre la popolazione carceraria, è grave che le autorità indiane continuino ad arrestare le voci critiche e i manifestanti pacifici. I cittadini non dovrebbero mai essere arrestati solo per aver criticato le politiche del governo, cosa normale e indispensabile in una democrazia sana. Mentre è in corso una crisi sanitaria così grave, con focolai di Covid-19 nelle carceri, le autorità dovrebbero immediatamente liberare gli attivisti pacifici in custodia”. Meenakshi Ganguly è la direttrice per il Sud-Est Asiatico dell’organizzazione Human Rights Watch. Con queste parole racconta ad Altreconomia come il governo indiano stia approfittando della pandemia per schiacciare il dissenso, mentre il virus dilaga nelle carceri indiane e i procedimenti giudiziari sono in fase di stallo.

Un caso che ha molto scosso l’opinione pubblica è quello Varavara Rao, docente del Telangana, ideologo marxista, attivista, poeta rivoluzionario e critico letterario: è un 80enne canuto e solare, che non ha mai avuto paura di esprimere il suo pensiero, anche se radicale e scomodo. Non è la prima volta che viene imprigionato per le sue idee: dagli anni 70 è finito in carcere diverse volte, con diversi capi d’accusa. Questa volta però la sua detenzione è equivalsa quasi a una condanna a morte. Insieme ad altri dieci attivisti per i diritti delle comunità dalit e delle popolazioni tribali, Rao è in carcere da due anni, accusato di aver incitato la violenza castale esplosa a Bhima Koregaon, nello Stato del Maharastra a inizio 2018 in occasione della manifestazione dalit Elgaar Parishad. Nonostante l’età avanzata, il deteriorarsi della sua condizione di salute e l’aggravarsi dell’emergenza sanitaria che non ha risparmiato le sovraffollate carceri indiane, la sua richiesta di scarcerazione è più volte stata respinta.

Di recente è risultato positivo al Covid-19 ma è dovuta intervenire la Commissione nazionale sui diritti umani per ottenere il trasferimento dell’anziano poeta in ospedale dal carcere di Mumbai, dove versava in condizioni critiche. Quello di Varavara Rao non è l’unico caso di arresti politici che, in tempo di pandemia, rischiano di trasformarsi in una duplice condanna. Sharjeel Imam, studente della Jawaharlal Nehru University, e Akhil Gogoi, leader contadino -accusati di sedizione e attività illegali nell’ambito delle proteste deflagrate lo scorso dicembre contro il Citizenship Amendment Act (Caa)- sono tra i circa 600 prigionieri (su 1.100) contagiati nel carcere di Guwahati, nello Stato Nord-orientale dell’Assam. Secondo i media indipendenti indiani, gli arresti legati alle proteste anti-Caa sembrano replicare lo stesso schema degli arresti politici connessi al caso Bhima Koregaon.

Sono attivisti, studenti e professori, tutti accusati ai sensi di una legge -quella per la prevenzione della attività illegali (Uapa)- considerata draconiana e spesso utilizzata per silenziare le critiche. Si tratta di arresti arbitrari, “motivati” politicamente, tutti in attesa di processo. La lista è lunga e diversi sono stati gli appelli per la scarcerazione di attivisti e manifestanti: una stretta contro il dissenso per la quale l’India è stata da più parti criticata. Un altro caso recente è quello di Hany Babu, docente della Delhi University, arrestato dalla National Investigation Agency il 28 luglio scorso con l’accusa di sostenere i Naxaliti e l’ideologia maoista: un’accusa spesso usata in questi anni contro accademici e studenti critici con il governo, bollati come “Naxaliti urbani”. In un’intervista lo scorso novembre Babu aveva dichiarato: “Se sei un accademico e in qualche modo ti opponi alle politiche del governo, puoi diventare un bersaglio”.

Durante il lockdown nazionale imposto a fine marzo, 1.300 persone tra studenti, attivisti, docenti e giornalisti sono stati accusati ai sensi della legge per la prevenzione delle attività illegali. Molti dei quali legati al caso dei Delhi riots, gli scontri che a fine febbraio hanno fatto oltre 50 morti (in larga parte musulmani) in tre giorni di violenza settaria, quando alcuni quartieri a Nord-Est della capitale sono stati messi a ferro e fuoco in un raid orchestrato e mirato, in risposta alle proteste contro il Caa, che è considerato discriminatorio nei confronti della comunità musulmana. Un recente rapporto della Commissione sulle minoranze ha evidenziato il ruolo della polizia nel pogrom anti-musulmano di febbraio.

L’India è balzata al terzo posto per numero di casi al mondo, dopo Stati Uniti e Brasile, e al primo posto per rapidità del contagio con il numero di casi che raddoppia ogni tre settimane, anche se il tasso di mortalità resta tra i più bassi al mondo. Ad oggi sono oltre 1,8 milioni i casi di Covid-19 accertati nel subcontinente, oltre 38mila i morti. Nonostante il governo millanti il suo successo nel contenere la pandemia, e continui a negare vi sia trasmissione a livello di comunità -ossia quando non si riesce a rintracciare e a identificare la fonte del contagio di un nuovo focolaio- la curva non accenna ad appiattirsi e l’India, con oltre 50mila nuovi casi al giorno, potrebbe presto raggiungere gli Stati Uniti per numero di contagi giornalieri.

Anche se la capacità di effettuare tamponi è stata di molto incrementata (10mila su un milione di persone), si teme comunque che i numeri, soprattutto relativi ai decessi, possano essere sottostimati. E mentre emergono nuovi focolai, Delhi, Mumbai e Bengaluru restano quelli più preoccupanti. Con il lockdown non più in vigore da inizio giugno a livello nazionale, molti Stati -da Goa al Kashmir- hanno temporaneamente imposto restrizioni localizzate nelle zone ad alto rischio, nel tentativo di fermare il contagio. Da uno studio condotto da Niti Aayog e il Tata Institute è emerso che oltre la metà della popolazione del più grande slum di Mumbai, Dharavi, avrebbe contratto il nuovo Coronavirus. L’India, con una popolazione di 1,35 miliardi di persone, potrebbe presto diventare il nuovo epicentro globale di Covid-19.

Maria Tavernini

da altreconomia

Turchia: Quell’orrendo buco nero delle carceri dove la tortura è il Potere

Dai rapporti di Amnesty alle denunce degli avvocati turchi a quelle italiane del cnf. Ma il dittatore vuole tagliare fuori gli ordini professionali

Se devi dire delle carceri turche, uno non sa da dove cominciare, se dalle cose che accadono da decenni o se dalle inchieste più recenti. Che magari da dove cominci sempre lì finisci: a denunciarne gli aspetti drammatici. Puoi partire a esempio dalla malagiustizia: nella top five dei paesi per ricorsi riguardanti violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’Italia c’è ma siamo messi un filo meglio della Turchia ( gli altri, nell’ordine sono: Ucraina, Russia, Ungheria, e appunto Turchia – ma ora la Romania ci ha scalzato). Se l’amministrazione della giustizia è “deformata”, le carceri si riempiono. E non sono cose di cui andar fieri.

Oppure, puoi partire da un Rapporto di Amnesty del 2003: «Basta alla violenza sessuale nei confronti delle detenute», un dossier in cui si denunciano le terribili condizioni delle donne detenute nelle carceri in Turchia.? Il Rapporto si basa su interviste a oltre cento detenute a Diyarbakir, Mus, Mardin, Batman e Midyat. «Le vittime degli abusi – si legge – sono soprattutto le donne curde e coloro che hanno idee politiche inaccettabili, dal punto di vista delle autorità o dell’esercito. Vengono spesso denudate, bendate e perquisite da agenti di sesso maschile durante gli interrogatori che si svolgono nelle stazioni di polizia o in prigione. Sono inoltre costrette a sottoporsi a test della verginità, allo scopo di punirle e umiliarle».

Oppure, puoi partire dalle inchieste pubblicate nel 2018 dal centro di giornalismo investigativo tedesco «Correctiv», che parla dei cosiddetti “Black Sites Turckey“, le “Guantanamo” di Erdogan dove vengono rinchiusi e torturati presunti terroristi e cospiratori. In particolare, a finire nella ragnatela dei servizi turchi sarebbero soprattutto i seguaci di Fethullah Gulen, il magnate predicatore islamico inizialmente vicino a Erdogan ma adesso in esilio negli Usa e che sarebbe l’organizzatore del tentato golpe del luglio 2016. L’inchiesta sui Black Sites della Turchia, i “buchi neri” dove scompaiono le persone, è stata portata avanti sentendo testimoni, sopravvissuti, gente rilasciata ma subito dopo costretta a lasciare la Turchia, da nove testate internazionali, coordinate da «Correctiv», tra cui «Le Monde», «El País», «Haaretz», «Il Fatto Quotidiano». Il governo turco non ha mai risposto alle domande dei cronisti. L’unica risposta del presidente turco Erdogan è stata: «Ci dicono che usiamo torture, ma in realtà l’unica tolleranza zero che abbiamo è proprio contro le torture».

Oppure, puoi ricordare quello che diceva Dino Frisullo nel 1999, pochi anni prima di morire, dopo essere stato, l’anno prima, il primo e unico prigioniero politico europeo nelle carceri turche. Era stato arrestato dalla polizia turca a Diyarbakir il 21 marzo 1998. «Ero andato lì – raccontava a “CaffèEuropa” – con una delegazione di cento osservatori europei per seguire una manifestazione in occasione del Newroz, il capodanno curdo. C’erano 70mila persone. Sembrava tranquillo. Poi però la situazione è precipitata. Centinaia di feriti, una donna e un bambino finiti sotto i cingoli dei carri armati e ridotti in coma. Dino Frisullo venne arrestato. «Su di me lo stato turco decise di costruire il processo esemplare», diceva. Durò quaranta giorni, la sua incarcerazione. Un ricordo che rimase indelebile. «C’erano ovunque per il carcere le tracce degli strumenti di tortura. Ho visto gli anelli di metallo sospesi a due metri e mezzo da terra a cui venivano appesi i prigionieri, le vasche in cui venivano immersi in acqua gelida, o nell’orina e gli escrementi, i fili elettrici. La cella di fronte alla mia è stata per decenni uno dei principali luoghi di tortura. Era divisa in veri e propri loculi. Ciascuno aveva un finestrino che dava sul corridoio: da lì i prigionieri ogni giorno dovevano esporre le mani e i piedi per la bastonatura».

Oppure, puoi riportare la relazione della delegazione italiana, guidata da Alessandro Margara, magistrato, già Presidente del DAP ( Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e Giudice di sorveglianza del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che si recò a Istanbul dal 5 all’ 8 gennaio 2001, invitata dall’Associazione Turca per i Diritti Umani, visitando e incontrando associazioni dei familiari dei detenuti, avvocati, esponenti della società civile impegnati a vario titolo per il rispetto dei diritti umani. «Soltanto nello scorso anno sono state oltre cento le istanze accolte dalla Corte Europea per indagare su casi individuali di maltrattamenti e torture perpetrate su detenuti per ragioni politiche. A questo si aggiunge il conflitto tuttora in atto con la popolazione Kurda che sovente sfocia anche in sconfinamenti militari in territorio irakeno, nonostante la sospensione decretata dal PKK della lotta armata. Permangono poi: lo stato di emergenza determinato dalle leggi antiterrorismo del 1991, i continui attacchi alla libertà di stampa e di associazione, l’esistenza di tribunali speciali, la lunghezza della carcerazione preventiva, l’erogazione di condanne alla pena capitale. La popolazione carceraria in Turchia ammontava fino a poco tempo fa a circa 75.000 detenuti, 13.000 dei quali accusati genericamente di terrorismo o comunque di reati associativi connessi alla propria militanza politica. L’ 80% di questi è accusata di far parte dei movimenti indipendentisti kurdi. A seguito di un recente provvedimento di amnistia condizionale da cui erano esclusi gran parte dei detenuti politici, la popolazione carceraria si riduceva del 50% circa. Tre anni fa, in seguito alle pressioni esercitate da organismi internazionali, il governo turco dava il via a un piano di rimodernamento dell’edilizia carceraria: alle carceri di massima sicurezza di tipo ‘ E’, sovraffollati ma che consentivano ai detenuti di condividere spazi comuni si volevano sostituire le carceri di tipo ‘ F’, più piccole, in grado di ospitare circa 400 persone in celle singole o per 3 persone. Contro il trasferimento nei nuovi penitenziari iniziava il 20 ottobre uno sciopero della fame dei detenuti che rapidamente si estendeva a 41 carceri. Nel tentativo di mediare e di sbloccare la situazione nasceva una trattativa fra il governo e i detenuti che vedeva protagonisti intellettuali, uomini di legge, soggetti della società civile turca. Il 19 dicembre, poche ore prima di un incontro fra i mediatori, latori di proposte del governo, e delegazioni dei detenuti, l’esercito irrompeva nelle carceri in sciopero con un’operazione beffardamente chiamata “Ritorno alla vita” che si concludeva con un tragico bilancio: 31 le morti accertate fra i detenuti, due fra i militari, 720 i feriti, alcuni dei quali molto gravi».

Poi, c’è il dramma dei detenuti- bambini in Turchia, di cui parla un report di “Osservatorio Iraq” del 2010: «Sono diverse centinaia i bambini e gli adolescenti arrestati, processati e condannati negli ultimi quattro anni in Turchia, in virtù degli emendamenti alla “Legge anti- terrorismo” ( Tmy) approvati dal parlamento di Ankara nel 2006. La contestata norma ha esteso anche ai minori di 18 anni la possibilità di essere puniti per la semplice partecipazione a manifestazioni di protesta, per aver cantato slogan in lingua kurda o per il lancio di pietre contro le forze di polizia, assimilandoli di fatto a “membri di un’organizzazione terroristica”. Per lo più a fare le spese delle legge sono stati ragazzi kurdi, di età compresa tra i 15 e i 18 anni, ma spesso di soli 12 anni, che hanno subito condanne anche a diversi anni di detenzione. Per loro il trattamento è in tutto e per tutto assimilabile a quello destinato agli adulti: periodi di detenzione “cautelare” che possono

arrivare fino a un anno; processi “farsa” celebrati davanti ai Tribunali penali speciali ( invece che ai Tribunali minorili); reclusione in cella assieme agli adulti; violenze fisiche e psicologiche, maltrattamenti e, in alcuni casi, vere e proprie torture. Sotto la pressione della società civile turca e internazionale, nell’estate scorsa il governo di Ankara guidato dai filo- islamici del Partito di giustizia e sviluppo ( Akp) ha deciso di emendare la legge, mitigandone alcuni aspetti. Tutt’oggi, tuttavia, i minorenni incriminati in base alle vecchie norme e rimessi in libertà ammontano a poche decine. A limitare la scarcerazioni, sono alcune contestate norme del Codice penale turco ( Tck) rimaste in vigore anche dopo la riforma della Tmy, ma anche la discrezionalità che abitualmente viene lasciata alla magistratura e la lentezza del sistema giudiziario turco. Le condanne – secondo l’organizzazione Çocuk için adalet çag? iricilari ( Coloro che chiedono giustizia per i bambini) – sono state in media di 4 o 5 anni di carcere, mentre l’età dei condannati in alcuni casi era di soli 13 anni. Non essendovi ad Adana Tribunali minorili, tutti i condannati erano stati processati davanti alle Corti penali speciali. A Diyarbakir invece – stando a un rapporto dell’ong Çocuk I? çin Adalet Giris ¸ imi ( Justice for Children Initiative) – nell’ottobre 2009 erano 159 i ragazzi di età compresa tra 15 e 17 anni in attesa di essere processati davanti ai Tribunali penali speciali, mentre altri 15, di età compresa tra i 12 e i 14 anni, aspettavano di essere giudicati dalle Corti penali minorili. Un rapporto sul carcere di Diyarbakir, redatto dall’Associazione degli avvocati della stessa città, rilevava che nel cibo dato ai ragazzi erano stati trovati chiodi, aghi e insetti; che venivano garantiti solo dieci minuti di acqua calda al giorno e che i ragazzi dovevano lavarsi i vestiti a mano, e le loro celle erano piene di insetti e topi. Ad Adana sono state riscontrate anche prove di torture usate contro I bambini».

Poi uno dice, non è che puoi sempre parlare del passato, come se dovessi raccontare la trama di Fuga di mezzanotte, il film di Alan Parker del 1978, tratto da una storia vera, in cui si racconta il viaggio all’inferno di Billy Hayes, uno studente americano in vacanza in Turchia con la propria fidanzata che viene fermato da guardie turche all’aeroporto di Istanbul, ottobre 1970, mentre sta per imbarcarsi verso gli Stati uniti con addosso due chili di hashish. E qui comincia l’incubo, una condanna prima a quattro anni e poi all’ergastolo – tra pestaggi, torture, violenze, abusi – fino all’evasione di notte, il Midnight Express, come veniva chiamato nel gergo carcerario, che lo porterà prima in Grecia e poi finalmente a casa.

Così, decidi di dire dell’attualità. Allora ti guardi l’ultimo rapporto Amnesty ( 2019- 20): «Sono emerse nuove accuse attendibili di tortura e altri maltrattamenti. A Urfa, nella Turchia orientale, uomini e donne, arrestati a maggio in seguito a uno scontro armato tra le forze di sicurezza e l’ala armata del Pkk, hanno denunciato, tramite i loro avvocati, di essere stati torturati anche con scosse elettriche ai genitali. Gli avvocati hanno denunciato che alcuni ex funzionari del ministero degli Affari esteri, arrestati a maggio dalla direzione della pubblica sicurezza di Ankara, con l’accusa di “appartenenza a un’organizzazione terroristica, aggravata da falso e contraffazione a scopi terroristici”, erano stati denudati e minacciati di essere stuprati con i manganelli. In entrambi i casi gli avvocati hanno denunciato che i loro assistiti non avevano avuto accesso a un consulto privato con un medico».

A aprile di quest’anno Erdogan vara un’amnistia per ridurre l’affollamento delle carceri ( sono 300mila i detenuti in Turchia, su una popolazione totale di 80 milioni, in 375 carceri, la cui capienza massima non supera le 120mila unità) temendo l’esplosione di un’epidemia. «L’idea è un rilascio temporaneo, fino a quando l’epidemia sarà più o meno domata, di 90mila detenuti: prigionieri in carceri di minima sicurezza, sopra i 65 anni, malati, donne incinte o con figli con meno di sei anni. Chi resta fuori? I condannati per stupro, omicidio di primo grado, droga e – soprattutto – terrorismo. Una categoria che in Turchia ha le maglie larghe. Sono giornalisti, deputati del partito di sinistra pro- curdo Hdp, attivisti, scrittori, avvocati». ( da «il manifesto», Chiara Cruciati).

Già, gli avvocati. Dai dati emerge che tra i malcapitati coinvolti nella più vasta repressione attuata del Paese, arrestati con accuse di terrorismo, 605 sono avvocati, di cui 345 condannati arbitrariamente per un totale di 2145 anni di prigione. Oltre 1500 gli indagati. «Anni di carcerazione preventiva subita senza avere delle accuse precise da cui difendersi, condanne pesantissime inflitte al termine di processi sommari, svolti al di fuori di ogni regola dello stato di diritto», denuncia il coordinamento delle Commissioni Diritti umani e Rapporti Internazionali del Consiglio Nazionale Forense italiano. Erdogan in persona avrebbe sollecitato il disegno di legge che prevede l’istituzione di Ordini alternativi a quelli esistenti contro il quale si sono animate proteste dei togati in tutto il paese. Il testo, presentato in Parlamento lo scorso 30 giugno, prevede che il governo assuma il controllo dell’elezione degli organi dirigenti dei vari organismi professionali. «In questo modo Erdogan – sostiene Mehmet Durakoglu, presidente dell’Ordine forense di Istanbul – vuole punire la nostra categoria che ha sempre rappresentato i valori laici della democrazia».

Sembra non cambi niente. In un reportage di Nicolas Cheviron, su «Internazionale» del novembre 2016, si leggeva: «Negli ultimi dieci anni sono state chiuse 187 carceri e sono state inaugurate altre 118 strutture più grandi nelle periferie delle grandi città. Questi trasferimenti hanno permesso di ospitare più detenuti, passando dai 114mila del 2010 ai 189mila dell’ottobre del 2016, come rivelano i dati dell’istituto di statistica turco e della direzione delle prigioni turche ( Cte). Dice Burcu Çelik Özkan, una deputata del Partito democratico del popolo ( Hdp, filocurdo): “Chiaramente per le autorità turche il carcere è un modo per gestire i problemi politici e sociali”. E Mustafa Eren, del Centro di ricerca sulle prigioni turche: “In Turchia c’è stata una pianificazione. Non si costruiscono nuove prigioni per rispondere a un aumento del numero di detenuti, ma il contrario”. In dieci anni la Turchia è diventata il primo paese per numero di carcerati in Europa ( Russia esclusa), staccando Inghilterra e Galles ( 85mila detenuti) e Polonia ( 71mila). La Germania, che ha una popolazione di 80 milioni di abitanti, pochi milioni in più della Turchia, nel 2015 contava appena 62mila detenuti. Su scala mondiale il paese guidato da Erdog? an si trova al nono posto, superato solo da paesi più popolosi ( Stati Uniti, Cina, Russia, Brasile, India, Messico, Iran) e dalla Thailandia».

Così è.

Lanfranco Caminiti

da il dubbio

Ai reparti speciali dei Gom la gestione totale del 41 bis

Il 30 luglio il Ministro Bonafede ha firmato il decreto di riorganizzazione del gruppo. La gestione amministrativa non è più sotto il controllo del Dap e la relazione sulle attività da trimestrale diventa annuale.

Autonomia amministrativa e contabile, obbligo di relazionare solo una volta l’anno ( prima era ogni 3 mesi) al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ( Dap). Con il decreto del 30 luglio firmato dal ministro Bonafede, il Gruppo Operativo Mobile ( Gom) della Polizia penitenziaria diventa sempre di più un corpo del tutto autonomo, dove può compiere una vera e propria gestione totale dei 41 bis.

L’articolo 11 del decreto è dedicato alla gestione amministrativa e contabile. Non è un piccolo dettaglio. Se prima la gestione delle finanze passava attraverso il capo del Dap, da ora in poi è tutto in mano al direttore del Gom. In coerenza con la programmazione della spesa e nei limiti delle risorse di bilancio, il capo del Gom – come recita il decreto – è ora «delegato alle spese di gestione, esercizio e manutenzione degli automezzi e del relativo equipaggiamento, nonché delle dotazioni strumentali, tecniche e logistiche; alle spese accessorie per il personale e per ogni altra necessità tecnicooperativa». In soldoni, il direttore del Gom, oltre a gestire le finanze con tutto ciò che ne deriva, può spostare uomini e mezzi in autonomia. Un potere, come detto, che prima non aveva.

L’articolo 4, invece, è dedicato alla nomina e funzioni del direttore del Gom. C’è il passaggio che recita testuali parole: «Il Direttore fornisce pareri ed elabora proposte al Capo del Dipartimento e alla Direzione generale dei detenuti e del trattamento. Trasmette al Capo del Dipartimento una relazione annuale sulle attività gestionali e operative svolte». Prima aveva l’obbligo di relazionare ogni tre mesi, da oggi in poi solo una volta l’anno. Un dettaglio che non è sfuggito a Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, il quale aveva invece proposto che le relazioni fossero almeno semestrali.

Non è una questione peregrina. Il rischio che il Gom diventi totalmente distaccato dal Dap si fa sempre più concreto. I vertici del Dap dovrebbero essere aggiornati frequentemente rispetto all’attività di questo ‘ reparto specializzato”. Perché? I Gom dovrebbero mantenere una costante visione di insieme anche rispetto alle strategie e i percorsi. Come potrebbe avvenire, se questa struttura autonoma dovrà relazionarsi annualmente? Durante il resto dell’anno a chi risponde?

Durante il periodo dell’amministrazione guidata dall’allora capo del Dap Santi Consolo, c’è stato il tentativo di riformare il ruolo dei Gom, il corpo d’élite della polizia penitenziaria, che ad agosto del 2017 ha avuto un ampliamento ulteriore delle sue funzioni come la sorveglianza dei detenuti accusati di terrorismo islamico.

Il Gom, ricordiamo, fu istituito nel 1997 con un provvedimento firmato dall’allora capo del Dap, Michele Coiro, ma soltanto due anni dopo con il Decreto ministeriale del 19 febbraio 1999, firmato dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto -, ebbe il suo definitivo riconoscimento. Il Gom nasce per provvedere al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis, il carcere duro. Tale norma legislativa venne introdotta nel 1992, nel ‘” super decreto antimafia”. Ufficialmente lo scopo del 41 bis sarebbe quello di recidere ogni possibile contatto del detenuto con l’esterno, e quindi, con l’organizzazione criminale di riferimento. Proprio per far sì che ciò avvenisse, venne creato il Gruppo operativo mobile. Il Gom raccolse l’eredità di un altro reparto, lo “Scopp” ( Coordinamento delle attività operative di Polizia penitenziaria), istituito nei primi anni ‘ 90 soprattutto per consentire la sicura esecuzione dei processi, e del ‘” Battaglione Mobile” dell’allora corpo degli Agenti di custodia, che operò a cavallo fra gli anni 70 e 80.

Il Gom, nel passato, si è trovato al centro di pesanti polemiche e denunce per la scia di pestaggi lasciati all’interno delle carceri dopo il suo passaggio, come quello nella struttura di San Sebastiano di Sassari dell’aprile 2000, e per le brutali perquisizioni nel carcere milanese di Opera ( da presidente della commissione Giustizia della Camera, Giuliano Pisapia aveva denunciato senza mezzi termini gli «episodi di brutalità» avvenuti, parlando del passaggio di «un vero e proprio uragano che ha distrutto ogni cosa» ), fino alla gestione della caserma Bolzaneto, con relative torture, durante il G8 di Genova 2001. Ora non è più così da anni, perché operano gente qualificata e professionale. Ma il rischio di un ritorno al passato è sempre in agguato, soprattutto se rischia di diventare un “corpo estraneo” al Dap e quindi relativamente fuori controllo.

Damiano Aliprandi

da il dubbio

solidarietà a Carla e a tutti e tutte i compagni arrestati e inquisiti per Asilo Occupato

radioblackout.org
Dopo quasi un anno e mezzo di latitanza, più precisamente dal 7 febbraio 2019 quando venne sgomberato l’Asilo Occupato e prese il via l’operazione Scintilla, Carla è stata arrestata con un mandato d’arresto europeo domenica 23 Luglio a St. Etienne, vicino a Lione. L’operazione è stata portata a termine da una decina di poliziotti armati di fucili d’assalto e appartenenti alla BRI (Brigade De Recherche et d’Investigation) e alla DGSI (Direction Générale de la sécurité Intérieure), i quali l’hanno gettata al suolo, amanettata e caricata in macchina. Con lei erano presenti alcune persone che sono state allontanate e poi lasciate andare senza essere identificate. A quanto sembra Carla era seguita e sorvegliata già da alcuni giorni.

Dopo una prima notte passata al commissariato della città è stata trasferita lunedi sera a Parigi alla SDAT (Sous Directione Anti Terrorisme) in attesa dell’udienza tenutasi questa mattina di fronte all’ Avocate Generale de la cour d’appel che ha confermato la sua carcerazione preventiva in attesa del trasferimento in Italia, motivandola anche con il suo rifiuto a fornire informazioni riguardo la sua latitanza. Una seconda udienza si terrà domani mattina, presso la Chambre d’Istructione, durante la quale verrà verificato il consenso di Carla al suo trasferimento in Italia, consenso che lei intende dare per non prolungare la sua permanenza nelle carceri francesi. La consegna alle autorità italiane dovrà essere effettuata entro dieci giorni lavorativi dalla data dell’udienza a cui si possono sommare alcuni giorni per motivi legati all’emergenza sanitaria. Il suo rientro è previsto dunque per la metà di Agosto.
Sappiamo che si trova nel carcere di Fresnes nella sezione dei nuovi giunti in isolamento sanitario. Sta già usufruendo dei colloqui telefonici.
Alcuni amici e compagni sono riusciti a vederla mentre veniva portata in tribunale e hanno potuto scambiare con lei dei brevi e calorosi saluti. Sta bene e il morale è alto!

L’indirizzo per scriverle è:
Carla Tubeuf
Ecrou n° 1010785
MAF de Fresnes
Allée des Thuyas
94261 Fresnes Cedex

Va ricordato che nelle carceri francesi non è possibile inviare telegrammi, mano alle penne per mostrare la vicinanza alla compagna.

Sostenere la lotta dei prigionieri politici turchi e dei loro avvocati – Ebru Timtik e Aytaç Unsal, due avvocati del popolo in carcere da tre anni, sono a 200 giorni di digiuno fino alla morte per ottenere un ″giusto processo″

Da Il Dubbio

Il coraggio degli avvocati prigionieri del “sultano”

L’appello del CoA di Bologna per Ebru Timtik e Aytaç Ünsal. Da oltre 200 giorni sono in sciopero della fame. Li hanno arrestati perché difensori di persone accusate di “terrorismo”.

Un coraggio e una fermezza nei propri principi che suscita ammirazione ma anche un diffuso allarme per il loro stato di salute.

Ebru Timtik e Aytaç Ünsal sono due avvocati turchi rinchiusi in carcere con la pesantissima accusa di “attività eversiva” e “fiancheggiamento del terrorismo solamente perché difendevano dei cittadini accusati di tali reati”. Un amalgama ormai diventata la regola nella Turchia governata con il pugno di ferro dal “sultano” Erdogan che, dal fallito Golpe del luglio 2016, ha trasformato la Turchia in uno Stato di polizia compiendo migliaia e migliaia di arresti. Gli avvocati sono una delle categorie più colpite dalle “grandi purghe”.

Da oltre 200 giorni Timkit e Ünsal sono in sciopero della fame e le loro condizioni appaiono sempre più preoccupanti. Anche perché non hanno alcuna intenzione di mollare né di ammettere crimini che non hanno mai commesso.

Se la comunità internazionale agisce con estrema lentezza e cautela limitandosi a generiche condanne della repressione di Ankara, le voci più vibranti sono quelle delle avvocature, in particolare di quella italiana, in prima linea fin dal principio nel denunciare gli abusi del regime e la cancellazione de facto dello Stato di diritto.

Su segnalazione della collega Barbara Spinelli ( già fermata e arrestata dal regime turco nel 2017 quando era nel paese in veste osservatrice internazionale n. d. r.) il Consiglio dell’ordine di Bologna ha emesso una delibera in cui si chiede alla Corte di cassazione turca di sconfessare le sentenze precedenti e di liberare i due legali ingiustamente detenuti. I quali dietro le sbarre stanno rischiando la propria vita.

Il Coa di Bologna intende così «richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica turca e internazionale per porre fine a questo strallo».

Come atto simbolico di solidarietà i colleghi bolognesi hanno nominato Timkit e Ünsal come componenti effettivi della Commissione internazionale e della Commissione per i diritti Umani del Coa. Come ha scritto l’avvocato Giovanni Delucca, consigliere dell’Ordine di Bologna, la lotta dei legali turchi deve servire da esempio per chi ha a cuore la democrazia, e le loro fewrite sono anche le nostre: «Chi difende i diritti a costo della vita, è uno di noi!» Secondo il rapporto The Arrested Lawyer Initiative a cura del Consiglio nazionale forense, negli ultimi quattro anni in Turchia quasi 2mila avvocati sono finiti sotto la lente di ingrandimento delle procure, 605 sono stati messi in prigione, 345 condannati in via definitiva in processi farsa in totale spregio delle regole del diritto, per un totale di 2158 anni di carcere.