L’ultima pericolosa generazione

Da Osservatorio repressione

La reazione repressiva di fronte al semplice imbrattamento del Senato mostra gli strumenti giuridici con cui, nel nostro ordinamento, può essere sanzionato come «pericoloso per la società» chi lotta contro cambiamento climatico e diseguaglianze sociali

di Anna Cortimiglia

Nelle ultime settimane, le azioni di disobbedienza civile nonviolenta portate avanti dal movimento Ultima Generazione hanno catalizzato l’attenzione mediatica. Poche settimane fa, su richiesta della Questura di Pavia è stata fissata per il giorno 10 gennaio l’udienza davanti al Tribunale di Milano per decidere sull’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di Simone Ficicchia, vent’anni, attivista e tra i portavoce dell’organizzazione.

Il mattino del 2 gennaio, invece, cinque attivisti dello stesso movimento hanno imbrattato Palazzo Madama con un getto di vernice arancione. Tre di loro sono stati arrestati e trattenuti sino al giorno successivo, in cui si è instaurato il processo con il rito speciale del giudizio direttissimo. L’accusa nei loro confronti è di danneggiamento aggravato ai sensi dell’art. 635 del codice penale: accusa che ha giustificato l’arresto in flagranza di reato e la scelta del rito speciale, come vedremo meglio.

Il susseguirsi di queste notizie porta al centro della scena, oltre al tema della crisi climatica, il rapporto tra la protesta e gli strumenti del diritto penale, che si intrecciano secondo schemi in parte già noti e in parte inediti.

Le azioni di Ultima Generazione interagiscono, infatti, con un ordinamento, quello italiano, in cui il dissenso politico deve fare i conti con istituti ereditati dal fascismo e con recrudescenze di accanimento legislativo nei confronti di un ampio novero di personalità ritenute «devianti»: militanti politici, stranieri, soggetti emarginati.

Il diritto penale contro il dissenso politico

Appartiene a una delle più recenti innovazioni in questo senso proprio il reato contestato a seguito dei fatti del 2 gennaio scorso: lo stesso Matteo Salvini ha rivendicato il ruolo del cosiddetto Decreto Sicurezza bis nell’arresto delle e dei militanti di Ultima Generazione. Nel 2019, infatti, è stato introdotto un terzo comma all’articolo 635, che punisce più gravemente il reato di danneggiamento «in  occasione  di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico»: innalzando la pena a un massimo di cinque anni si consente l’arresto in flagranza.

In realtà, l’intervento non è stato decisivo come il ministro vorrebbe far credere dato che a permettere l’arresto era già il preesistente danneggiamento contro edifici pubblici. Si tratta comunque di un provvedimento sintomatico di un determinato uso del diritto penale nei confronti del dissenso politico, che infatti è tornato utile a fini propagandistici nel caso dell’imbrattamento del Senato. L’intento è colpire un tipo di fenomeno e, soprattutto, un tipo di autore estremamente specifico, decidendo in virtù di ciò di abbandonare qualsiasi senso della proporzione: per intenderci, la pena tra il minimo di un anno e il massimo di cinque è quasi identica a quella dell’omicidio colposo.

Accanto alla previsione normativa, dunque alle scelte di criminalizzazione a livello astratto, ha giocato un ruolo importante anche l’applicazione in concreto. Come segnalato da Ultima Generazione nonché dai tecnici che hanno commentato la vicenda, l’azione dovrebbe essere più correttamente qualificata, invece che come danneggiamento, come «imbrattamento», diversa e meno grave fattispecie di reato. La differenza è intuitiva ed è evidenziata nelle sentenze dei tribunali: risponde di danneggiamento chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibile il bene, cioè provoca un danno che incide sulla funzionalità della cosa e ne diminuisce il valore. Si è al di fuori di questa ipotesi se è possibile ripristinare, senza particolari difficoltà, l’aspetto e il valore originario del bene, ovvero esattamente ciò che è accaduto nel caso di Palazzo Madama, dove è stato sufficiente rimuovere la vernice lavabile, operazione che ha impiegato poche ore. Dalla scelta della pubblica accusa di contestare un reato in luogo dell’altro – aspetto che sembra poco più di una pedanteria tecnica – discendono conseguenze importantissime: la possibilità di essere tratti in arresto, di procedere per direttissima, nonché una notevole differenza sul piano delle sanzioni cui si va incontro.

Sorvegliati speciali

Quanto invece alla sorveglianza speciale, misura richiesta nei confronti di Simone Ficicchia, quello che si osserva è che la sensibilità politica del momento – e dunque la percezione dell’allarme sociale nei confronti dei fenomeni – è centrale nel definire la fisionomia dell’istituto.

Di tale misura si è parlato, in tempi recenti, quando è stata richiesta nei confronti di cinque militanti che hanno combattuto come internazionalisti, in intervalli di tempo diversi tra il 2015 e il 2018, contro l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico nella Siria del nord ed è poi stata applicata a una di loro, Maria Edgarda (Eddi) Marcucci.

La sorveglianza speciale appartiene al novero delle misure di prevenzione, sanzioni comprese in quello che è stato definito come sotto-sistema penale di polizia. È un elemento di originalità dell’ordinamento italiano la presenza, accanto a un sistema di diritto penale «ordinario» che sanziona i reati ed è dominato da alcune garanzie fondamentali (i principi di legalità, giurisdizionalità e colpevolezza), di una serie di istituti che prescinde da tali garanzie. Le misure di prevenzione, infatti, incidono sulla libertà personale prima che un reato sia commesso e accertato con provvedimenti applicati, con ampia discrezionalità amministrativa, nei confronti di soggetti giudicati «sospetti» o «pericolosi». La sorveglianza speciale è la più afflittiva di queste misure.

La normativa prevedeva, originariamente, che potesse essere proposta per tre categorie di persone: per coloro che debbano ritenersi dediti a traffici delittuosi, coloro che debba ritenersi vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose e per coloro che debba ritenersi siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. La riforma del 2011, che ha ricompreso le misure di prevenzione all’interno del cosiddetto Codice Antimafia, ha esteso l’applicazione delle misure di prevenzione agli indiziati di appartenere alle associazioni mafiose o di una serie di reati di cui è aggiornato l’elenco, riforma dopo riforma, in modo totalmente disomogeneo e secondo un ordine di priorità discutibile. L’ultimo arrivato, nell’ottobre 2022, è il reato di invasione di terreni per raduni pericolosi introdotto dal cosiddetto decreto anti-rave.

Cosa comporta l’applicazione della sorveglianza speciale, in concreto? Le prescrizioni generali sono quelle di trovarsi un lavoro, avere una dimora fissa, di farla conoscere all’autorità e di non allontanarsene senza preventivo avviso, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina prima di una certa ora e senza comprovata necessità, di non detenere armi, di non partecipare a pubbliche riunioni. Accanto a queste limitazioni, il giudice può aggiungere quelle che ravvisi necessarie, «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», come il divieto di soggiorno o l’obbligo di soggiorno in comuni o province.

È evidente che si tratta di limitazioni della libertà personale estremamente gravose, soprattutto considerando che vengono prescritte senza che sia necessario accertare che un qualsivoglia reato sia stato effettivamente commesso.

Cos’è pericoloso per la società?

Spesso si evidenzia la continuità della sorveglianza speciale rispetto al cosiddetto confino di polizia di epoca fascista, ma è già nella legislazione ottocentesca che misure simili erano previste per «oziosi, vagabondi, mendicanti e altre persone sospette» (codice penale sardo del 1839, norme poi estese a tutto il regno), permettendo in seguito uno stretto controllo sugli operai, schedati nelle fabbriche, e poi per quelle che vennero definite «classi pericolose della società» (così nel Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1889). Nel regime fascista, ovviamente, le «persone pericolose» per le quali era previsto il confino erano, in sostanza, gli antifascisti.

Le leggi dell’Italia repubblicana si pongono in continuità: il presupposto comune a tutte queste misure non è, come si diceva, la commissione di un reato, ma l’appartenenza del soggetto a un «tipo di autore» che è individuato secondo il criterio – vago, indefinito e soggetto ad amplissima discrezionalità – di pericolosità sociale.

La sorveglianza speciale e le altre misure di prevenzione personali ci danno la possibilità, quindi, di individuare chi o cosa, in un determinato momento storico e in una determinata congiuntura politica, è considerato pericoloso per la società.

È ancora il riferimento alla pericolosità sociale, tramite il richiamo normativo ai medesimi presupposti di applicazione delle misure di prevenzione personali, a individuare nella legislazione attuale la figura del migrante pericoloso: un soggetto per il quale il prefetto può decretare l’espulsione amministrativa e spesso, di conseguenza, il trattenimento in un centro di detenzione per stranieri (Cpr). Un’altra pena senza delitto, irrogata sulla base di precedenti di polizia e giudizi standardizzati su pericolosità, inaffidabilità e marginalità sociale.

Lo strumento diventa adatto a reprimere tanto i fenomeni come l’associazione mafiosa quanto il militante pericoloso, la disobbedienza sociale, lo straniero, fino ad arrivare, a seconda della necessità propagandistica del momento, al partecipante a un rave party. L’estensione della repressione a tali fenomeni non incontra particolari resistenze nell’opinione pubblica, come si nota dalla condanna praticamente unanime dell’azione di Palazzo Madama da parte della politica nonché dalle sguaiate richieste di pene esemplari per un’azione che non ha provocato danno alcuno. Ma che la proporzionalità tra pena e delitto non sia una priorità, quando si parla del tipo di autore militante, era già evidente dal silenzio assordante sulla vicenda di Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre, all’ergastolo ostativo in regime di 41 bis per una strage senza vittime.

Di fatto, gli attivisti di Ultima Generazione fanno esplodere una contraddizione essenziale: quella nei loro confronti è la repressione esemplare di soggetti considerati un pericolo per la società per comportamenti che mirano ad accendere i riflettori sull’inazione nei confronti del rischio per la sopravvivenza umana sul pianeta rappresentato dal riscaldamento globale.

Una contraddizione che rende urgente riflettere su cosa, oggi, può essere sanzionato come pericolo per la società, e con quali strumenti. Per riportare al centro, in ultima analisi, la lotta contro ciò che davvero di pericoloso siamo chiamati ad affrontare: il cambiamento climatico, l’emarginazione sociale, le disuguaglianze.

da Jacobin Italia

Dai prigionieri rivoluzionari turchi unità internazionalista con la lotta di Alfredo Cospito

SALUTIAMO LA RESISTENZA DI ALFREDO COSPITO

Alfredo Cospito è in sciopero della fame a tempo indeterminato dal 20 ottobre 2022 per protestare e chiedere un cambiamento delle dure condizioni carcerarie in cui è detenuto in Italia.

Alfredo Cospito chiede l’abrogazione della Legge 41-bis che regolamenta le dure condizioni di detenzione e l’abolizione dell’ergastolo ostantivo

Noi, come 11 rivoluzionari turchi prigionieri nelle carceri della Grecia, sosteniamo Alfredo Cospito sicuri che vinceremo resistendo.

La nostra resistenza ci unisce.
La nostra resistenza è il fondamento dell’internazionalismo.
La nostra resistenza rafforza l’unità dei nostri popoli.

La base dell’unità della lotta dei popoli è la resistenza e la lotta.

In Italia, Grecia, Turchia, Palestina, America Latina… resistiamo in tutto il mondo. Stiamo intensificando la lotta. Dal 7 ottobre 2022 siamo in sciopero della fame a tempo indeterminato contro la nostra detenzione nelle carceri greche per un totale di 333 anni a causa di un processo ingiusto, con la richiesta di un processo equo per porre fine a questa illegalità.

Porteremo alla vittoria la nostra lotta contro l’imperialismo e il fascismo.

Sosteniamo e salutiamo la resistenza di Alfredo Cospito e diciamo che marceremo insieme verso la vittoria.

06.01.2023
11 prigionieri rivoluzionari turchi nelle carceri della Grecia

PER LA VITA DI ALFREDO COSPITO appello al Ministro della giustizia e all’Amministrazione penitenziaria

 PER LA VITA DI ALFREDO COSPITO appello al Ministro della giustizia e all’Amministrazione penitenziaria

Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cosito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione deol’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma:

«Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».

Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari.
La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudice ché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire: può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.
Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso.

7 gennaio 2023

Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale, Università di Torino
Silvia Belforte, già docente di architettura, Politecnico di Torino
Ezio Bertok, presidente Controsservatorio Valsusa
don Andrea Bigalli, parroco in Firenze, referente di Libera per la Toscana
Maria Luisa Boccia, presidente del CRS (Centro per la Riforma dello Stato)
Massimo Cacciari, filosofo
Gian Domenico Caiazza, avvocato, presidente Unione Camere Penali Italiane
don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera
Gherardo Colombo, già magistrato, presidente della Garzanti Libri
Amedeo Cottino, professore di sociologia del diritto nelle Università di Torino e Umeå (Svezia)
Gastone Cottino, accademico ed ex partigiano, già preside Facoltà di Giurisprudenza, Università di Torino
Beniamino Deidda, magistrato, già Procuratore generale di Firenze
Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica, Università di Roma La Sapienza
Daniela Dioguardi, UDI (Unione Donne Italiane), Palermo
Angela Dogliotti, vice presidente Centro Studi Sereno Regis
Elvio Fassone, già magistrato e parlamentare
Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto
Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia
Chiara Gabrielli, docente di procedura penale, Università di Urbino
Domenico Gallo, magistrato, già presidente di sezione della Corte di cassazione
Elisabetta Grande, docente di Sistemi giuridici comparati nell’Università del Piemonte orientale
Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele
Franco Ippolito, presidente Fondazione Basso
Roberto Lamacchia, avvocato, presidente Associazione italiana Giuristi democratici
Gian Giacomo Migone, docente di Storia dell’America del Nord nell’Università di Torino, già senatore
Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte, rettore dell’Università per stranieri di Siena
Andrea Morniroli, cooperatore sociale, Napoli
Moni Ovadia, attore, musicista e scrittore
Giovanni Palombarini, magistrato, già procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione
Michele Passione, avvocato in Firenze
Valentina Pazé, docente di filosofia politica, Università di Torino
Livio Pepino, presidente di Volere la Luna e direttore editoriale delle Edizioni Gruppo Abele
Alessandro Portelli, storico e docente di letteratura angloamericana all’Università di Roma La Sapienza
Nello Rossi, magistrato, già avvocato generale presso la Corte di cassazione
Armando Sorrentino, avvocato, Associazione italiana giuristi democratici, Palermo
Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
Ugo Zamburru, psichiatra, fondatore del Caffè Basaglia di Torino
padre Alex Zanotelli, missionario comboniano

Per aderire all’appello: https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6

indegna campagna di criminalizzazione contro i giovani ambientalisti di Ultima generazione

I “vigliacchi” del clima

martedì 3 gennaio 2023

Ieri gli attivisti di “Ultima Generazione” hanno imbrattato con della vernice lavabile Palazzo Madama, sede del Senato, contro le politiche climaticide del governo italiano al sesto posto tra i finanziatori di energie fossili.

Apriti cielo: condanna bipartisan di tutto l’arco costituzionale, tre attivisti sono stati arrestati e due denunciati, il governo di Fratelli d’Italia si è messo subito in moto per inasprire le pene per l’imbrattamento dei palazzi del potere e nessuno si è preoccupato del messaggio mandato dagli attivisti, mentre l’Europa a gennaio sta vivendo già la peggiore ondata di caldo mai registrata.

Particolarmente tragicomica è la dichiarazione di Ignazio La Russa, Presidente del Senato, che ha dato agli attivisti dei “vigliacchi” dato che avrebbero “scelto palazzo Madama perché è meno protetto”. E ancora “nessun alibi, nessuna giustificazione per un atto che offende tutte le istituzioni e che solo grazie al sangue freddo dei carabinieri non è trasceso in violenza” quando in realtà gli attivisti dopo l’azione si sono seduti a terra per resistere passivamente all’arresto. Evidentemente si è sentito ferito nell’orgoglio, ma non sono state le sue le uniche dichiarazioni paradossali. Il Ministro della Difesa Crosetto ha dichiarato: “Scegliere di sporcare opere d’arte o edifici storici, per difendere l’ambiente sarebbe un po’ come organizzare una cena tra amici a tema Asado argentino, per fare battaglie vegane”, voi capite dov’è il nesso? Ma anche fuori dallo schieramento di governo il solito Matteo Renzi regala un bel pezzo di paternalismo d’antan: “Chi vandalizza un palazzo delle Istituzioni pensando di difendere l’ambiente capisce poco”, forse che lui può insegnare come si combatte il cambiamento climatico celebrando il “Rinascimento saudita”.

Ma chi sono i veri vigliacchi? Oggi per opportunità in Italia nessuno schieramento politico nega il cambiamento climatico, è troppo evidente e persistente ormai nella percezione comune. Se il negazionismo è stato formalmente messo in soffitta nella sostanza non è cambiato nulla.

Ciò si nota facilmente guardando ai primi mesi del Governo Meloni partendo banalmente dalla semantica. Nel decreto Aiuti Quater, di metà novembre, si è notata da subito una piccola, rivelatrice, modifica che compare nel comma 1 all’articolo 6 dello stesso decreto. La parola “decarbonizzazione” viene infatti sostituita dal termine “ottimizzazione”. Ma è la sostanza quella che conta in fondo e la sostanza è fatta di trivelle, rigassificatori e depositi di gas, continuando a puntare sulle fonti fossili. Non solo, mentre i sussidi per le energie inquinanti vengono confermati la legge di bilancio introduceva nuove e più stringenti misure di tassazione per le fonti rinnovabili.

Ma la tutela delle energie fossili e delle produzioni inquinanti da parte del governo non si ferma qui, la Meloni durante la conferenza di fine anno ha dichiarato “irragionevole” il bando dei motori termici siglato per il 2035 da parte dei governi dell’UE. Nello specifico, l’obiettivo per l’intera flotta dell’UE è quello di ridurre del 100% le emissioni di CO2 prodotte dalle autovetture e dai veicoli commerciali leggeri nuovi rispetto al 2021. L’intesa raggiunta la scorsa estate prevede una riduzione delle emissioni di CO2 del 55% per le vetture nuove (e del 50% per i furgoni) entro il 2030, rispetto ai livelli del 2021.

Altrettanto indicativo è il modo in cui il governo ha scelto di misurarsi con le crisi industriali del nostro paese: il Presidente del Consiglio dice che riguardo all’ex Ilva di Taranto “l’obiettivo che ci diamo è farne una grande acciaieria verde (che significa ndr?), aumentando la produzione e recuperando le persone in cassa integrazione» e nel frattempo reintroduce lo scudo penale per chi inquina.

Ma la totale indifferenza del governo Meloni al cambiamento climatico non la si deduce solo dal modo in cui vengono affrontate le cause, ma anche dalla sostanziale inazione sugli effetti. Infatti nonostante l’aumento dei fenomeni meterologici estremi (1.503 in un decennio, che hanno coinvolto 780 comuni e hanno causato 279 morti) e la ormai continua ripetizione di catastrofi collegate al clima, alla fragilità del nostro territorio e alla cementificazione, il governo ha scritto un aggiornamento al “Piano di adattamento ai cambiamenti climatici” senza destinare in legge di bilancio alcuna risorsa a questo tema. Pura aria fritta.

Intanto il peso dello strapotere delle industrie dell’energia lo vedremo ulteriormente già da prossimi mesi con lo sblocco degli aumenti in bolletta concessi dalla Meloni, un vero regalo alle imprese che fanno extraprofitti che potranno nuovamente ritoccare al rialzo i contratti ancora in corso in maniera unilaterale.

Dunque chi è il vigliacco? Chi denuncia la follia delle istituzioni che ci porteranno a sbattere contro il muro della crisi climatica o chi fa finta di niente e va a braccetto con le imprese che devastano e ci impoveriscono?

/ Il caso di Alfredo Cospito finisce davanti alla Corte Costituzionale

 

Si apre uno spiraglio nella assurda vicenda che riguarda Alfredo Cospito, militante anarchico condannato all’ergastolo, per di più “ostativo” (con il divieto dunque di accedere agli sconti di pena previsti dalla “legge Gozzini”) e perciò detenuto in regime di 41bis (isolamento pressoché assoluto).

La cosa giuridicamente assurda è nel fatto – riconosciuto anche dalla condanna – che Cospito non ha ucciso nessuno. Però è stato riconosciuto colpevole in via definitiva (dopo i tre normali gradi di giudizio) di aver piazzato un ordigno nei pressi di una caserma dei Carabinieri.

L’esplosione, avvenuta di notte, non ha ferito né i militari né eventuali passanti. Ma la Procura di Torino – e successivamente il Tribunale di quella città – ha ritenuto di doverlo processare per “strage”, contestandogli l’art. 285 del codice penale.

Questa contestazione non è di per sé “strana”, e viene sollevata ogni volta che viene usato dell’esplosivo per un attentato, indipendentemente dal fatto che ci siano oppure no delle vittime. Non esiste, in altri termini, il reato di “tentata strage” e dunque il codice prevede una sola possibile pena: l’ergastolo, appunto.

Le centinaia di processi avvenuti in Italia per fatti simili, e anche decisamente più gravi, quanto alle conseguenze, hanno però sempre mantenuto un criterio di proporzionalità tra reato in astratto ed effetti reali. E quindi l’ergastolo è stato comminato soltanto nel caso ci fossero state vittime decedute. E neanche in tutti i casi.

Di più. In quelle centinaia di processi è stato affinato con il tempo anche un criterio di proporzionalità rispetto ai “mezzi” usati per un attentato con l’esplosivo, visto che ne esistono di molti tipi e con grandissime differenze di pericolosità.

La stessa sentenza di condanna di Cospito riconosce che sono stati usati 500 grammi di “polvere pirica”, ovvero la polvere da sparo che si usa comunemente nei “botti” di Capodanno. E’ forse l’esplosivo meno potente che si trova in circolazione, lontano anni luce dalla dinamite o dal “plastico” per usi militari. Insomma, poco più di un petardo, come “strumento adeguato a compiere una strage” lasciava molto a desiderare…

Il caso di Alfredo costituisce dunque un unicum che ha sollevato non poche perplessità anche in ambienti decisamente non in sintonia con gli anarchici. Troppo evidente che contro di lui si sia voluta “forzare” l’interpretazione della legge, come mai era avvenuto prima, per costituire un precedente minaccioso verso tutti i “dissidenti”.

La Corte d’Appello di Torino, nel raccogliere un ricorso presentato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini, ha riconosciuto che – pur essendo accertata giudiziariamente la colpevolezza di Cospito (ovvero quanto stabilito dai tre gradi di giudizio) – l’entità della pena è decisamente sproporzionata rispetto ai fatti contestati. Anche in virtù di quel vincolo al “massimo della pena” previsto nel codice per la “strage” (anche quando non avviene, come in questo caso).

Chi si districa nella terminologia giuridica potrà apprezzare i dettagli dell’ordinanza con cui la Corte ha rinviato gli atti alla Corte Costituzionale perché decida se “Il divieto inderogabile di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 311 c.p. in relazione al delitto di cui all’art. 285 c.p. non appare dunque compatibile con il principio di determinazione di una pena proporzionata”.

Nel linguaggio comune diremmo: se è costituzionalmente possibile che, in assenza di vittime, si possa condannare qualcuno all’ergastolo solo perché ha messo in atto un’azione “contro la personalità dello Stato” e non se ne è “pentito”.

Quest’ultimo non è un dettaglio, perché proprio la “personalità” è stata indicata come un elemento di “pericolosità” sociale secondo il Tribunale di Sorveglianza che gli ha confermato di recente il 41bis.

A noi sembra pacifico che sia un’assurdità, ricordando innumerevoli processi in cui un fatto del genere veniva punito con 5 o 10 anni di carcere (che non sono comunque pochi, no?). La stessa Corte d’Appello ricorda che, in caso, di accoglimento del ricorso, la condanna potrebbe essere rideterminata dentro una forbice comunque mostruosa: tra i venti e i ventiquattro anni di reclusione.

Ma è immediatamente evidente che in quel caso Cospito non potrebbe più essere rinchiuso in regime di 41bis (che andrebbe abolito comunque e per tutti, e su cui pende un procedimento apposito davanti alla stessa Consulta), con tutto quel che ne consegue per quanto riguarda “l’esecuzione della pena” e le condizioni di prigionia.

I tempi non saranno ovviamente brevi, ma prendiamo atto che questo spiraglio si è aperto e ci auguriamo che la Corte Costituzionale tega fermi i princìpi della Carta, com’è suo dovere, nonostante le infinite “interpretazioni creative” di legislatori improvvisati e di magistrati che si sentono “in prima linea” anziché su uno scranno ottimamente retribuito.

ORDINANZA-19.12.2022

 

la manifestazione per alfredo cospito a Milano del 29 dicembre

Il 29 dicembre si è tenuta una manifestazione con concentramento all’angolo tra via Mazzini e via Torino, inizialmente prevista in piazza Duomo, dopo la notifica del divieto notificato dalla Questura di Milano

Nelle vie dello shopping hanno sfilato qualche centinaio abbondante di compagni con slogan contro il 41 bis e “Alfredo libero”., il corteo è stato scortato da un massiccio spiegamento di polizia che ci ha scortato passo passo e un pezzo alla volta si è arrivati fino in piazza XXIV maggio.

 

Di seguito la comunicazione fatta circolare diffuse prima dell’iniziativa dai promotori dell’assemblea in preparazione della manifestazione tenutasi il 26 gennaio:
In merito al divieto notificato dalla Questura di Milano per la manifestazione del 29 dicembre in P.za Duomo contro il 41 bis, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e, in particolare, in solidarietà con lo sciopero della fame ad oltranza di Alfredo Cospito, facciamo alcune precisazioni.
– I temi sollevati da questa lotta hanno raccolto un’ampia e trasversale solidarietà – anche nei media main stream soliti osservare un religioso silenzio su tali questioni – e l’assemblea che ha promosso la manifestazione del 29 dicembre è espressione di questa pluralità; dunque ridurre la sua portata alla sola area anarchica è da leggere come un ridicolo tentativo di circoscrivere e differenziare la solidarietà.
– Assistiamo da lungo tempo a leggi eccezionali che si rinnovano producendo uno stato di emergenza permanente. Oggi però con un dispositivo ordinario si vuole impedire lo svolgimento di una manifestazione che denuncia un fatto di eccezionale gravità e che offre ormai un margine di tempo brevissimo prima di arrivare ad un punto di non ritorno. Nello stesso modo viene affrontata la tragedia quotidiana che si vive nelle carceri; in tempo di pandemia gli strumenti eccezionali sono stati trovati per impedire i colloqui e isolare ancor di più la popolazione detenuta ma solo quelli ordinari per affrontare il sovraffollamento degli istituti e la miseria che lì si vive tutti i giorni. L’altissimo numero dei suicidi la dice lunga come pure la mancata riforma carceraria tanto attesa all’interno delle mura.
– Ribadiamo le ragioni e la volontà di scendere in piazza il 29 dicembre dando come luogo di concentramento via Torino angolo via Mazzini consapevoli della necessità di mobilitarsi ulteriormente nei giorni a seguire in sintonia con la campagna che si è aperta a livello nazionale e internazionale sulle parole d’ordine: fuori Alfredo dal 41 bis, abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Alleghiamo di seguito il comunicato dell’assemblea che ha promosso la manifestazione e che ha redatto queste righe.

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L’Assemblea tenutasi Lunedì 26 dicembre presso CSOA COX18 di Milano in solidarietà con Alfredo Cospito in sciopero della fame ad oltranza dal 20 ottobre e contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo ha espresso la necessità di attivarsi e di mobilitarsi per dare un contributo al buon esito della lotta che Alfredo ha intrapreso. Alfredo Cospito è ormai al 69° giorno di sciopero della fame e le sue condizioni fisiche si fanno sempre più gravi. In questa situazione, oltre alla necessità di creare conoscenza e consapevolezza sulle ragioni della sua lotta e sul ruolo del 41 bis come strumento altamente repressivo ad afflittivo oramai riconosciuto come vera e propria forma di tortura; di allargare la discussione; l’importanza del momento ci chiama tutti ad agire ora! Gli spazi legali che lo Stato Italiano permette sono quasi inesistenti. Nella giornata di Martedi 27 dicembre verrà depositato il ricorso per Cassazione contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza che in data 19 dicembre ha confermato la detenzione di Alfredo nel regime di tortura del 41 bis, di fatto firmandone la condanna a morte. I tempi per il ricorso in Cassazione potrebbero essere oggettivamente incompatibili con l’attuale situazione di Alfredo in sciopero della fame da ormai 69 giorni (ricordiamo per esempio che nello sciopero della fame dei prigionieri irlandesi nel 1981 Bobby Sands morì dopo 66 giorni). L’Assemblea ha ribadito con forza che solo la solidarietà e la mobilitazione possono impedire che Alfredo possa morire. L’Assemblea oltre ad esprimere la massima solidarietà ad Alfredo Cospito ed a tutti i detenuti soggetti alla tortura del 41 bis, ritiene necessario unirsi alle molte manifestazioni di solidarietà che si stanno tenendo sia in Italia che a livello internazionale. La lotta di Alfredo Cospito è riuscita a riaccendere l’attenzione generale sul regime di tortura del 41 bis e sull’ergastolo ostativo ma oggi diventa necessario attivarsi e mobilitarsi in tutti i modi possibili per impedire che Alfredo sia condannato a morte dallo Stato Italiano.

Diffondiamo in sintesi alcune considerazioni emerse nell’assemblea tenutasi alla camera del non lavoro dopo la manifestazione del 29 dicembre contro il 41 bis, l’ergastolo ostativo e in solidarietà con la lotta intrapresa da Alfredo Cospito.

Di seguito il comunicato diffuse dopo l’assemblea della “camera del non lavoro” tenutasi dopo la manifestazione del 29 dicembre

L’ampia partecipazione alla giornata di mobilitazione milanese, almeno 400 persone, nonostante il divieto posto dalla Questura, giunto così celermente e diffuso dai principali media proprio per scoraggiare la partecipazione, dimostra nuovamente nei fatti che la solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo e la critica all’impianto che regola il regime di tortura del 41 bis sono elementi imprescindibili riconosciuti come propri da settori militanti, sindacali e sociali non quindi circoscritti alla sola area anarchica.
Diversi articoli apparsi sui media ufficiali, con davvero poche eccezioni, raccontano invece di una manifestazione di esigua consistenza numerica, composta da soli anarchici e organizzata da un collettivo anarchico cittadino. E’ evidente che tali informazioni hanno il chiaro intento di circoscrivere la breccia apertasi con la coraggiosa lotta di Alfredo nel consenso o silenzio che regnava sul regime di tortura del 41 bis, vera pietra angolare che regola l’approfondirsi dell’arbitrio carcerario attraverso l’onnipotenza di strutture come la Direzione Antimafia e Antiterrorismo e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
Se insistiamo su questo aspetto non è per denunciare il ruolo di certa stampa asservita, dalla quale si pretende comunque una maggiore attenzione e indipendenza, ma per porre con fermezza due elementi.
Il primo è che al di là degli esiti della lotta di Alfredo vada mantenuta viva e concreta la critica al regime di tortura del 41 bis, dell’ergastolo ostativo e in generale del criterio della “collaborazione” quale strumento premiale o punitivo di mobilità fra i circuiti carcerari che istituzionalizza l’arbitrio e il baratto. Assumendo questi quali punti irrinunciabili di un agire quotidiano che punti a un reale cambiamento sociale, cercando di allargare a livello sociale la breccia che la generosa lotta di Alfredo ha indubbiamente aiutato ad aprire. Consapevoli anche del fatto che tra le due opzioni: il ricorrere ad un provvedimento di declassificazione, a rischio di indebolire l’impianto della differenziazione carceraria e dei vertici della catena di comando e scegliere di mantenere una posizione di fermezza sino a mettere in gioco la vita di Alfredo, che darebbe ancora più corpo alla critiche contro il 41 bis, possa per chi decide risultare preferibile la seconda.
Il secondo elemento sul quale è necessario riflettere è che vada contrastata la costante azione di criminalizzazione della componente anarchica – il tributo pagato è già altissimo in termini di repressione, misure preventive e carcere – e compresa la sua natura strumentale finalizzata a generalizzare un approfondimento dell’azione repressiva come la storia di questo paese ben ci ha insegnato.
In conclusione si è indicata la data di martedì 3 gennaio alle ore 20.30 presso la Panetteria Occupata, via Conte Rosso, 20 (MM Lambrate) per un nuovo appuntamento assembleare che deciderà delle prossime mobilitazioni.