Salviamo la vita ad Alfredo Cospito! Stato assassino. NO al 41bis. Intervista all’Avv. Gianluca Vitale

Intervista all’avvocato Gianluca Vitale di Torino, di Anna Beniamino, sulla situazione di Alfredo Cospito, il 41 bis e l’ergastolo ostativo (questa intervista è stata fatta a meta’ dicembre dalla redazione del blog proletari comunisti).

Qual è la situazione processuale in questo momento? Quali sono gli ultimi avvenimenti e qual è la tua valutazione?

Intanto farei un racconto di come siamo arrivati a questo punto perché credo che sia significativo.

Sostanzialmente ormai i giochi nei termini di qualificazione giuridica, di condanna, di accertamento del fatto, sono ormai finiti; nel senso che l’ultima Cassazione del luglio scorso ha ribaltato, almeno in una parte, la decisione che riguarda questo famoso attentato di Fossano. Attentato che era stato contestato come cosiddetta “strage politica” fin dall’inizio dalla Procura di Torino.

La strage politica si diversifica dalla strage cosiddetta “comune” non per quello che succede o per come succede ma per quello che viene definito il “fine emotivo”, cioè con quale obiettivo tu commetti la strage.

Quindi si chiama strage indipendentemente dall’esito. Per semplificare, se tu hai l’obiettivo, il dolo, di poter uccidere più persone e in qualche modo l’azione che commetti ha questa concreta pericolosità, allora tu rispondi di strage. Se tu lo fai per mettere in pericolo, per attentare, alla sicurezza dello Stato allora diventa strage politica.

La differenza è ovviamente significativa come avrete visto, perché mentre per la strage comune senza

vittime la pena minima è 15 anni (quindi si va da 15 ai 24 anni), per la strage politica, con o senza vittime, la pena minima e massima è quella dell’ergastolo.

La procura aveva contestato fin dall’inizio la strage politica – noi sostenevamo che non fosse neanche reato di strage perché non c’era la volontà di uccidere – comunque, sia il primo grado che la Corte d’Assise d’appello l’avevano definita come strage comune: non raggiungeva quel grado di gravità per la sicurezza dello Stato da farla qualificare come strage politica.

“Strage politica” che è stata utilizzata pochissimo nella storia d’Italia e praticamente è rimasta totalmente identica – tranne la pena che era la pena di morte e poi diventata ergastolo – da quando è stata introdotta dal codice Rocco ad oggi. E’ uno dei pochi reati che non sono stati toccati in nessun modo, neanche per la strage di Bologna, l’Italicus, ecc, “Bologna”, “Italicus” ecc, non erano stragi politiche…

La Corte di Cassazione ha anche sostanzialmente cambiato giurisprudenza, perché anche la Corte di Cassazione aveva usato con molta attenzione il reato di strage politica. Però qua è strage politica, perché sostanzialmente attenta alla sicurezza dello Stato, ai beni fondamentali dello Stato, sotto un duplice profilo. Primo, si inserisce in una campagna della FAI che, in qualche modo, tenta di alterare la politica governativa, la politica statale sui CPR e sull’immigrazione. In secondo luogo, perché diretta contro la scuola allievi carabinieri di Fossano, quindi è nella rivendicazione “perché 10, 100, 1000, Nassiriya non sia solo uno slogan” ecc… E quindi intendeva colpire l’apparato di sicurezza dello Stato.

Questo lo dice la Corte di Cassazione, e avendolo fatto la Cassazione non avremo più modo di contestare questa affermazione. La Corte di Cassazione dice: “no, quella è strage politica, lo decido definitivamente io” e rimanda alla Corte d’Assise d’appello di Torino solo per quantificare la pena.

Arriva in Corte d’Assise d’appello e poniamo una serie di questioni di legittimità costituzionale.

La prima è relativa proprio alla possibilità che nel nostro sistema ci sia un reato con una pena unica: il principio di proporzionalità della pena. Un principio fondamentale che c’è anche nel diritto dell’Unione Europea oltre che nel nostro diritto interno, ed è un principio in base al quale il giudice valuta e deve poter valutare il fatto di reato non solo se rientra nella fattispecie astratta (insomma in quel tipo di reato che c’è scritto nel codice) ma anche valuta la sua gravità all’interno di una “forbice edittale”, cioè di una pena che deve essere compresa tra un minimo e un massimo.
Quasi tutti i reati, se non tutti i reati, tranne questo e pochissimi altri, prevedono una pena minima e una pena massima all’interno della quale è dato poi al giudice di decidere se la pena deve essere più vicina al massimo o più vicina al minimo.

In questo caso invece la pena è l’ergastolo. Punto. Non ci sono alternative.

Come reato, come fattispecie, l’articolo 285 del codice penale, secondo noi (e ci sono dei precedenti giurisprudenziali) prevedere una pena unica, non modulabile, è incostituzionale. È incostituzionale sia per contrarietà ai principi di personalità della pena, di responsabilità, di finalità rieducativa della pena; perché essendoci come unica pena l’ergastolo si perde completamente ogni possibilità di finalità rieducativa della pena; sia ai principi dell’Unione Europea che porterebbero a una dichiarazione di incostituzionalità mediata, violare un principio dell’Unione Europea significa anche violare la Costituzione italiana.

Questa questione evidentemente non è stata accolta perché poi è su altra che finora si è pronunciata la Corte d’Assise d’appello.

Un’altra questione che abbiamo sollevato riguarda il problema che dicevo prima, cioè questa affermazione di responsabilità per questo reato – non per il reato che era stato prima riconosciuto, cioè la strage comune (422) che consentiva di partire da 15 anni come pena – viene decisa per la prima volta in Cassazione.

Uno dei principi fondamentali che c’è nel nostro sistema giuridico e nel sistema giuridico internazionale, perché questo ha origine anche nel patto internazionale sui diritti civili e politici, prevede la possibilità quantomeno di un doppio grado di giudizio; quindi il condannato deve sempre poter ricorrere contro la pronuncia che lo condanna.

Secondo noi questo significa che non si può avere un aggravamento, un peggioramento della modificazione del fatto, quindi un peggioramento della condanna in Cassazione, ma la Cassazione dovrebbe sempre in casi di questo genere rimandare al grado precedente; rinviare cioè – non solo per la modificazione della pena, ma anche per affermare dei principi – e poi rimandare al giudice che ha in mano i fatti, perché la ricostruzione del fatto è del primo e del secondo grado, non della Cassazione che decide solo sul diritto. Quindi rimandare al giudice se effettivamente quel fatto, obbedendo ai principi della Corte di Cassazione, deve essere ricompreso in un reato oppure nell’altro. Dando così la possibilità all’imputato, al condannato, di fare un ricorso. Che non è solo un ricorso che dice “tu c’eri o tu non c’eri” ma anche un ricorso che possa entrare nel merito: “tu c’eri e quello che hai fatto è il reato X” oppure “tu c’eri e quello che hai fatto è il reato Y”. Altrimenti viene violato sostanzialmente il diritto di difesa, quindi difendersi non solamente dell’accusa del pubblico ministero in modo dialettico col pubblico ministero), ma anche difendersi dialetticamente rispetto alla sentenza del giudice che ha deciso la tua condanna. Anche questo evidentemente non è stato accolto.

Si apre allora un problema. È strage politica, e non possiamo discutere del fatto che sia strage politica, la strage politica prevede l’ergastolo. C’è però un articolo nel codice penale ed è l’articolo 311 che prevede che in tutti i reati contro le personalità dello Stato la pena sia diminuita nel caso in cui il fatto debba essere ritenuto tenue. Tenue per la modalità, le circostanze complessive, il pericolo per il bene protetto e il danno che è stato cagionato.

Noi abbiamo sempre sostenuto che non fosse strage politica ma che – se fosse mai stata definita strage politica – questa attenuante vada riconosciuta, proprio perché – di fronte a un reato che non distingue per gli effetti dell’azione, per la gravità dell’azione, per le modalità dell’azione, non consente di individuare una forbice tra un minimo e un massimo. Quantomeno questa distinzione deve arrivare dall’utilizzo di questa attenuante.

Non possiamo pensare minimamente di accettare che “Bologna” (che non era neanche strage politica secondo quella che è stata allora la sentenza) sia di fatto meno grave o parimenti grave rispetto alle due bombe di Fossano fatte con la polvere pirica che non solo non hanno causato feriti, né tanto meno morti, ma che hanno fatto danni materiali molto lievi; cioè sono esplosi due cassonetti, una gabbia di recinzione che si è introflessa e qualche buco nel muro della caserma per le schegge che sono partite (noi abbiamo dei dubbi, ma la sentenza dice che ci sono questi buchi, quindi ormai giudizialmente questo è accertato).
Non ci sono danni strutturali, non ci sono danni materiali estremamente rilevanti come purtroppo in tantissimi altri casi. La procura in primo grado aveva detto “per noi è strage politica ma si può applicare questa attenuante”; adesso la procura generale, ha chiesto invece di non concedere questa attenuante, il che porterebbe all’ergastolo per Alfredo Cospito e a una pena (secondo i calcoli che avevano fatto in aula) di 27 anni e un mese per Anna Beniamino, perché Anna Beniamino non ha una recidiva cosiddetta qualificata, reiterata specifica che invece ha Alfredo Cospito.

Quale è il problema della recidiva, di questo tipo di recidiva? Che per principio generale questa recidiva non consente, impedisce, che eventuali circostanze attenuanti (che siano attenuanti generiche che sia questa attenuante specifica per tutti questi tipi di reati) siano considerate prevalenti rispetto all’aggravante.

Per Alfredo cosa significava? Evitare l’ergastolo. Mentre si applica l’aggravante della recidiva: resta l’ergastolo.
Anche su questo abbiamo proposto una questione di legittimità costituzionale che a questo punto non tocca più il procedimento che ha portato all’affermazione che quello era un reato di strage politica, ma tocca proprio il divieto di legge di fare un bilanciamento, quindi di considerare che l’attenuante possa essere prevalente, e possa consentire di abbassare la pena rispetto alla pena unica dell’ergastolo.
Su questo la Corte di Assise d’appello per il momento ci ha dato ragione nel senso che ha detto “effettivamente ci può essere un dubbio di incostituzionalità, la questione è non manifestamente infondata ed è rilevante, perché riteniamo che possa esserci il riconoscimento di questa attenuante ai fatti di Fossano”, e quindi ha sospeso il procedimento e manderà gli altri atti alla Corte Costituzione che dovrà decidere proprio su quel punto, cioè se effettivamente, per questo reato, il divieto di bilanciamento sia incostituzionale. Questo consentirebbe, in caso di risposta positiva, di potere superare la “pena unica ergastolo”.

Qualcuno potrebbe dire “e vabbè allora perdoniamo quelli che…”. Non si tratta di questa roba qua, stiamo comunque parlando di pene che partono dai 21 anni, non stiamo parlando di caramelle. Sia Alfredo che Anna comunque avranno delle pene elevatissime e – continuo a sostenere – totalmente sproporzionate rispetto alla gravita dei fatti. Su questo però la sentenza è definitiva, quindi su questo non abbiamo molto da discutere, anche in assenza di prove reali sulla loro responsabilità per quei fatti.

In effetti la cosa che veramente sembra assurda, ma purtroppo è molto molto grave anche come precedente, è questo fatto di considerare strage politica per cui viene messo sullo stesso piano una azione (se e vero o meno che l’abbia fatto) che però non ha assolutamente provocato nessun morto, nessun ferito, e le stragi come quella di Bologna, il fatto che fin ora questa tipologia di reato non era stata utilizzata e ora invece viene utilizzata.

La questione secondo me è fondamentale e la Cassazione la risolve in un modo che è giuridicamente assurdo in realtà, perché dice “vabbè la discussione è solamente accademica perché il reato di strage comune avviene; se ci sono vittime la pena sì è quella dell’ergastolo; a Bologna c’erano le vittime e quindi comunque si sono beccati l’ergastolo”.
Questo dal punto di vista giuridico è un ragionamento che tiene molto poco, perché è importante la qualificazione giuridica di un fatto. La funzione della cassazione sarebbe proprio quella di delineare i principi del diritto, non di andare a fare un discorso da bar.
Il principio fondamentale dovrebbe essere quello dell’offensività, cioè: ma i fatti di Fossano hanno realmente avuto la capacità di mettere in pericolo la sicurezza dello Stato intesa come tenuta democratica dello Stato? No, assolutamente no! Avrebbe avuto quella capacità la strage di via d’Amelio, avrebbe avuto quella capacità la strage di Bologna o l’Italicus o piazza Fontana, che non sono state invece qualificate come stragi politiche. Sicuramente non ce l’ha questa, lo stato, non può essere qualificato come strage politica.

Tu vedi una relazione tra questa linea assunta e il clima generale, non credo legato al nuovo governo perché troppo recente, però legato a una volontà di repressione politica che poi si è vista anche rispetto alla repressione delle lotte, delle avanguardie? C’è se non un salto, un rincrudimento di questo? Questa vicenda come la dobbiamo leggere?

Concordo assolutamente con te che non può essere e non è un effetto del cambio di maggioranza. È troppo giovane questa maggioranza. E per altro in realtà questo processo affonda le sue radici in diversi anni fa, quindi evidentemente non è un problema di quel genere.

Credo che si inserisca in un rincrudimento repressivo anche della giurisprudenza, della magistratura inquirente, dei pubblici ministeri, ma anche in parte della magistratura giudicante che ha trovato e trova probabilmente in alcuni casi in Torino delle punte più avanzate dal punto di vista repressivo, ma non è assolutamente peculiare di Torino.

Io ho sempre personalmente non condiviso la personalizzazione del discorso repressivo. Io ho sempre pensato che non sia un problema di questo o di quel magistrato (per carità, poi c’è il magistrato che è più democratico, quello meno democratico, il magistrato che più si accanisce nei confronti dei movimenti, il magistrato che meno è portato ad accanirsi nei confronti del movimento) ma è un discorso di magistratura, se vogliamo anche di classe. Semplifico il ragionamento che ho sempre fatto: la magistratura è chiamata per legge, per Costituzione, ad essere soggetta solamente alla legge, quindi ad eseguire quello che decide la legge; la legge è una espressione dei rapporti di classe, quindi è frutto dei rapporti di classe e quindi la magistratura è in qualche modo al servizio di una classe.

Anche per noi il livello di repressione politica e non solo è frutto dei rapporti di classe che purtroppo non sono ancora tali che possano incidere anche nel fronte della repressione statale per contrastare efficacemente ed effettivamente questa repressione.

Si, assolutamente. Da una parte credo che ci sia questa esigenza di aumentare la repressione nei confronti di quello che viene considerato radicalmente antagonista alla forma di Stato, alla classe dominante e quant’altro. Ed è questo il motivo per cui alcuni settori, che siano di movimento che siano politici, vengono maggiormente colpiti dalla repressione. Da altra parte, purtroppo, il fatto che non ci sia in questo momento una forte presenza politica e una radicalizzazione (ma nel senso di capacità di analisi e di rivendicazione da parte delle classi subalterne piuttosto che dei movimenti), questo in qualche modo indebolisce anche in questo settore la capacità di risposta. Credo che questo in qualche modo anche nei tribunali ci troviamo a scontarlo.

In termini legali, chiaramente dopo la corte di cassazione non c’è un altro livello di giudizio, ma ci sarebbero altre possibilità, per esempio la Corte europea dei diritti dell’uomo?

In realtà stiamo ragionando anche sul piano extra-nazionale, sulle corti sovranazionali. Sia la corte europea dei diritti dell’uomo, sia – questo da valutare – il comitato relativo al patto sui diritti civili e politici sul problema che dicevo sul diritto al secondo grado di giudizio.
Sono possibilità che in qualche modo stiamo tentando di approfondire e di valutare. Ovviamente sono tutte strade molto molto difficili da percorrere. Non sappiamo ancora se sarà possibile percorrerle perché è inutile fare un buco nell’acqua in casi di questo genere.
Le stiamo cercando proprio perché convince molto poco tutto quello che è successo. E tutte le affermazioni che sono state fatte in questo processo.

Purtroppo la parte che fino all’altro ieri convinceva meno era proprio la parte dell’accertamento della ricostruzione dei fatti; perché di fronte a un processo assolutamente indiziario, siamo di fronte ad un processo in cui le cosiddette prove scientifiche (c’è una perizia grafologica e una perizia del DNA) fanno – consentitemi il termine – acqua da tutte le parti, ma sono state considerate decisive per l’accertamento del fatto. Basta dire che il fatto più grave – che è Fossano, queste due bombe di Fossano – è forse il fatto che ha meno elementi, anzi che non ha nessun elemento come fatto che lo riporti alla responsabilità di Alfredo e Anna.

Non c’è nessun elemento che dalle bombe di Fossano porti direttamente ad Alfredo e Anna. Sostanzialmente Alfredo e Anna sono stati ritenuti responsabili anche di Fossano perché loro sarebbero in qualche modo responsabili anche di altre azioni che fanno parte dello stesso periodo, della stessa campagna della Federazione Anarchica Informale e – ragionando in termini di “se tu hai fatto uno hai fatto l’altro perché fai parte di quel gruppo lì” – a quel punto viene attribuita loro anche Fossano.

Questa secondo me è una gravissima carenza dal punto di vista della ricostruzione storico-giudiziaria delle responsabilità; questa però è quella su cui abbiamo meno possibilità di impugnare delle armi anche nelle Corti sovranazionali perché, anche lì, non puoi ridiscutere la ricostruzione storica del fatto, ma andare a parare su altri obiettivi e su altri elementi per impugnare la sentenza. Purtroppo quella è la parte più debole di queste decisioni – oltre a quella che dicevo prima della qualificazione giuridica di Fossano come strage politica – ma è forse la meno attaccabile.

Per quanto riguarda il 41bis dato ad Alfredo. Per Nadia Lioce era motivato perché poteva ancora influenzare “l’esterno”, e quindi in questa maniera il 41bis secondo loro doveva impedire questo contatto, questo legame con l’esterno. Per Alfredo Cospito, la motivazione è questa o altra per il 41bis?

Per Alfredo Cospito l’applicazione del 41bis deriva sostanzialmente dal fatto che lui ha continuato a partecipare al dibattito politico. Attenzione, dibattito del tutto pubblico ovviamente. Non sono i “pizzini” del boss mafioso. Ma quando si parla di dibattito politico è un po’ quello che dicevi tu. Nadia Lioce, partecipando al dibattito politico, continuerebbe ad avere rapporti con l’area, con il contesto esterno.

In questo, devo dire, l’interpretazione in qualche modo si adegua alle recenti modifiche che sono assolutamente trasversali. Trasversali perché non vedo tutte queste differenze tra il progetto di legge che era in discussione nella precedente legislatura sull’ergastolo ostativo e sul 41bis e quello che è stato poi approvato dal governo Meloni. E sostanzialmente ci dicono che “devi dimostrarmi di aver rescisso ogni legame, che non ci sia il pericolo che si riprendano i legami, con l’organizzazione di appartenenza” e questa è la ratio, il significato, per cui era stato inventato il 41bis. Si dice “devi dimostrarmi di non aver rapporti e che non ci sia pericolo che tu riprenda rapporti con l’organizzazione, con l’associazione…. e con il contesto!”
Il concetto di “contesto” è, credo, un concetto assolutamente pericolosissimo perché significa un po’ quello che sta succedendo anche ad Alfredo, cioè “tu mi devi dimostrare, per non meritare questa forma di estremo isolamento, di estrema punizione, mi dovresti dimostrare che non hai più rapporti con il contesto di cui facevi parte”; contesto che è politico, relazionale, di area. Contesto che significa sostanzialmente libertà di pensiero, e quindi “tu mi devi dimostrare che non la pensi come la pensavi prima”. Credo che questo sia assolutamente oltre.

Il 41 bis non dovrebbe essere uno strumento di afflizione, lo è ormai da anni e lo sappiamo tutti, facciamo finta che non sia così ma lo sappiamo tutti; anche chi continua a sbandierarlo come indispensabile per la lotta contro la mafia sa benissimo che ormai il 41bis è uno strumento di afflizione, uno strumento solamente punitivo, squisitamente punitivo. A volte ci sono delle finalità di contrasto ma ormai è diventato uno strumento punitivo. Ti devo terrorizzare, ti devo dire “guarda che se tu commetti determinati reati ti muro vivo dentro una cella e tu lì ci muori senza più vedere neanche il cielo stellato”, questo è sostanzialmente quello che è diventato il 41bis.

Un’ultima cosa per quanto riguarda la solidarietà. Chiaramente anche noi ci siamo, a partire dall’informazione; chiaramente c’è l’area anarchica; c’è anche tutta un’area che già da tempo è impegnata sul fronte della lotta contro la repressione di Stato. Su questo anche noi, per quello che possiamo, in particolare a Roma abbiamo contribuito e partecipato alle ultime iniziative e manifestazioni.
Per quanto riguarda invece il fronte democratico coerente, ma anche nell’area dei giuristi si sta facendo qualcosa? Lo dico anche perché molti anni fa ci fu una campagna per la liberazione di un detenuto politico, lo dicevano vicino alle BR, che aveva avuto una condanna altissima perché dicevano avesse buttato una bombetta verso una base militare che non aveva portato a nessun effetto, non solo alle persone ma neanche alla struttura, solo annerito un muro. Ecco, quella campagna, fatta da noi verso i vari settori, sia compagni rivoluzionari, sia democratici, in effetti poi riusci’ a conseguire un risultato e dopo quel compagno fu addirittura liberato. Anche se è un caso diverso da quello di Alfredo, ma non tanto diverso dal caso di Fossano in cui nessuno si è ferito e neanche le strutture sono state messe in pericolo, sul fronte democratico, di giuristi ecc, si sta prendendo posizione, si sta muovendo qualcosa?

Io devo dire intanto che ci ha stupito che la vicenda di Alfredo abbia in qualche modo raggiunto le prime pagine dei giornali e i media mainstream. Se ne è parlato parecchio e se ne è conosciuto parecchio. Devo dire che ci sono state prese di posizione contro quella forma estrema di punizione che si chiede per Alfredo da ambienti diciamo pure insospettabili, anche da ambienti lontanissimi da qualunque idea anarchica, ambienti assolutamente non di sinistra, anzi, totalmente schierati da un’altra parte. Prese di posizione anche apprezzabili da un punto di vista logico-giuridico.

Nel mondo del diritto ci sono state prese di posizione anche abbastanza significative e anche in questo caso sufficientemente trasversali. Anche queste forse non ce le aspettavamo.
Ci sono state anche delle frenate in questa direzione; però devo dire che la risposta è stata abbastanza positiva nel mondo dei giuristi democratici, giuristi di sinistra e forse anche liberali.

Purtroppo ci troviamo poi sempre con dei ragionamenti avanzati che vengono frenati se vuoi nello stesso campo, o in campi che dovrebbero essere vicini, dalla vulgata della antimafia radicale, fondamentalista. Nel senso che, purtroppo, quando poi vai a discutere di legittimità del 41bis, quando vai a cercare di spiegare che il 41 bis è una tortura o quando vai anche a mettere in discussione la legittimità dell’ergastolo (perché io mi auguro anche che la battaglia di Alfredo possa portare a un confronto culturale, giuridico, democratico, sulla legittimità di questi istituti), ti vai a scontrare con quelli che dicono “eh, ma allora tu dai una mano alla mafia, la mafia va combattuta anche con questi strumenti”. Questo devo dire che è un grosso problema, io non sono convinto peraltro che la stessa mafia vada combattuta con la tortura in un paese che dice di essere “democratico”. Io non credo che possa esser utilizzata una forma come quella del 41bis né che sia legittimo l’ergastolo, quindi bisognerebbe ragionare in quei termini.

L’ultima pericolosa generazione

Da Osservatorio repressione

La reazione repressiva di fronte al semplice imbrattamento del Senato mostra gli strumenti giuridici con cui, nel nostro ordinamento, può essere sanzionato come «pericoloso per la società» chi lotta contro cambiamento climatico e diseguaglianze sociali

di Anna Cortimiglia

Nelle ultime settimane, le azioni di disobbedienza civile nonviolenta portate avanti dal movimento Ultima Generazione hanno catalizzato l’attenzione mediatica. Poche settimane fa, su richiesta della Questura di Pavia è stata fissata per il giorno 10 gennaio l’udienza davanti al Tribunale di Milano per decidere sull’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di Simone Ficicchia, vent’anni, attivista e tra i portavoce dell’organizzazione.

Il mattino del 2 gennaio, invece, cinque attivisti dello stesso movimento hanno imbrattato Palazzo Madama con un getto di vernice arancione. Tre di loro sono stati arrestati e trattenuti sino al giorno successivo, in cui si è instaurato il processo con il rito speciale del giudizio direttissimo. L’accusa nei loro confronti è di danneggiamento aggravato ai sensi dell’art. 635 del codice penale: accusa che ha giustificato l’arresto in flagranza di reato e la scelta del rito speciale, come vedremo meglio.

Il susseguirsi di queste notizie porta al centro della scena, oltre al tema della crisi climatica, il rapporto tra la protesta e gli strumenti del diritto penale, che si intrecciano secondo schemi in parte già noti e in parte inediti.

Le azioni di Ultima Generazione interagiscono, infatti, con un ordinamento, quello italiano, in cui il dissenso politico deve fare i conti con istituti ereditati dal fascismo e con recrudescenze di accanimento legislativo nei confronti di un ampio novero di personalità ritenute «devianti»: militanti politici, stranieri, soggetti emarginati.

Il diritto penale contro il dissenso politico

Appartiene a una delle più recenti innovazioni in questo senso proprio il reato contestato a seguito dei fatti del 2 gennaio scorso: lo stesso Matteo Salvini ha rivendicato il ruolo del cosiddetto Decreto Sicurezza bis nell’arresto delle e dei militanti di Ultima Generazione. Nel 2019, infatti, è stato introdotto un terzo comma all’articolo 635, che punisce più gravemente il reato di danneggiamento «in  occasione  di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico»: innalzando la pena a un massimo di cinque anni si consente l’arresto in flagranza.

In realtà, l’intervento non è stato decisivo come il ministro vorrebbe far credere dato che a permettere l’arresto era già il preesistente danneggiamento contro edifici pubblici. Si tratta comunque di un provvedimento sintomatico di un determinato uso del diritto penale nei confronti del dissenso politico, che infatti è tornato utile a fini propagandistici nel caso dell’imbrattamento del Senato. L’intento è colpire un tipo di fenomeno e, soprattutto, un tipo di autore estremamente specifico, decidendo in virtù di ciò di abbandonare qualsiasi senso della proporzione: per intenderci, la pena tra il minimo di un anno e il massimo di cinque è quasi identica a quella dell’omicidio colposo.

Accanto alla previsione normativa, dunque alle scelte di criminalizzazione a livello astratto, ha giocato un ruolo importante anche l’applicazione in concreto. Come segnalato da Ultima Generazione nonché dai tecnici che hanno commentato la vicenda, l’azione dovrebbe essere più correttamente qualificata, invece che come danneggiamento, come «imbrattamento», diversa e meno grave fattispecie di reato. La differenza è intuitiva ed è evidenziata nelle sentenze dei tribunali: risponde di danneggiamento chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibile il bene, cioè provoca un danno che incide sulla funzionalità della cosa e ne diminuisce il valore. Si è al di fuori di questa ipotesi se è possibile ripristinare, senza particolari difficoltà, l’aspetto e il valore originario del bene, ovvero esattamente ciò che è accaduto nel caso di Palazzo Madama, dove è stato sufficiente rimuovere la vernice lavabile, operazione che ha impiegato poche ore. Dalla scelta della pubblica accusa di contestare un reato in luogo dell’altro – aspetto che sembra poco più di una pedanteria tecnica – discendono conseguenze importantissime: la possibilità di essere tratti in arresto, di procedere per direttissima, nonché una notevole differenza sul piano delle sanzioni cui si va incontro.

Sorvegliati speciali

Quanto invece alla sorveglianza speciale, misura richiesta nei confronti di Simone Ficicchia, quello che si osserva è che la sensibilità politica del momento – e dunque la percezione dell’allarme sociale nei confronti dei fenomeni – è centrale nel definire la fisionomia dell’istituto.

Di tale misura si è parlato, in tempi recenti, quando è stata richiesta nei confronti di cinque militanti che hanno combattuto come internazionalisti, in intervalli di tempo diversi tra il 2015 e il 2018, contro l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico nella Siria del nord ed è poi stata applicata a una di loro, Maria Edgarda (Eddi) Marcucci.

La sorveglianza speciale appartiene al novero delle misure di prevenzione, sanzioni comprese in quello che è stato definito come sotto-sistema penale di polizia. È un elemento di originalità dell’ordinamento italiano la presenza, accanto a un sistema di diritto penale «ordinario» che sanziona i reati ed è dominato da alcune garanzie fondamentali (i principi di legalità, giurisdizionalità e colpevolezza), di una serie di istituti che prescinde da tali garanzie. Le misure di prevenzione, infatti, incidono sulla libertà personale prima che un reato sia commesso e accertato con provvedimenti applicati, con ampia discrezionalità amministrativa, nei confronti di soggetti giudicati «sospetti» o «pericolosi». La sorveglianza speciale è la più afflittiva di queste misure.

La normativa prevedeva, originariamente, che potesse essere proposta per tre categorie di persone: per coloro che debbano ritenersi dediti a traffici delittuosi, coloro che debba ritenersi vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose e per coloro che debba ritenersi siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. La riforma del 2011, che ha ricompreso le misure di prevenzione all’interno del cosiddetto Codice Antimafia, ha esteso l’applicazione delle misure di prevenzione agli indiziati di appartenere alle associazioni mafiose o di una serie di reati di cui è aggiornato l’elenco, riforma dopo riforma, in modo totalmente disomogeneo e secondo un ordine di priorità discutibile. L’ultimo arrivato, nell’ottobre 2022, è il reato di invasione di terreni per raduni pericolosi introdotto dal cosiddetto decreto anti-rave.

Cosa comporta l’applicazione della sorveglianza speciale, in concreto? Le prescrizioni generali sono quelle di trovarsi un lavoro, avere una dimora fissa, di farla conoscere all’autorità e di non allontanarsene senza preventivo avviso, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina prima di una certa ora e senza comprovata necessità, di non detenere armi, di non partecipare a pubbliche riunioni. Accanto a queste limitazioni, il giudice può aggiungere quelle che ravvisi necessarie, «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», come il divieto di soggiorno o l’obbligo di soggiorno in comuni o province.

È evidente che si tratta di limitazioni della libertà personale estremamente gravose, soprattutto considerando che vengono prescritte senza che sia necessario accertare che un qualsivoglia reato sia stato effettivamente commesso.

Cos’è pericoloso per la società?

Spesso si evidenzia la continuità della sorveglianza speciale rispetto al cosiddetto confino di polizia di epoca fascista, ma è già nella legislazione ottocentesca che misure simili erano previste per «oziosi, vagabondi, mendicanti e altre persone sospette» (codice penale sardo del 1839, norme poi estese a tutto il regno), permettendo in seguito uno stretto controllo sugli operai, schedati nelle fabbriche, e poi per quelle che vennero definite «classi pericolose della società» (così nel Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1889). Nel regime fascista, ovviamente, le «persone pericolose» per le quali era previsto il confino erano, in sostanza, gli antifascisti.

Le leggi dell’Italia repubblicana si pongono in continuità: il presupposto comune a tutte queste misure non è, come si diceva, la commissione di un reato, ma l’appartenenza del soggetto a un «tipo di autore» che è individuato secondo il criterio – vago, indefinito e soggetto ad amplissima discrezionalità – di pericolosità sociale.

La sorveglianza speciale e le altre misure di prevenzione personali ci danno la possibilità, quindi, di individuare chi o cosa, in un determinato momento storico e in una determinata congiuntura politica, è considerato pericoloso per la società.

È ancora il riferimento alla pericolosità sociale, tramite il richiamo normativo ai medesimi presupposti di applicazione delle misure di prevenzione personali, a individuare nella legislazione attuale la figura del migrante pericoloso: un soggetto per il quale il prefetto può decretare l’espulsione amministrativa e spesso, di conseguenza, il trattenimento in un centro di detenzione per stranieri (Cpr). Un’altra pena senza delitto, irrogata sulla base di precedenti di polizia e giudizi standardizzati su pericolosità, inaffidabilità e marginalità sociale.

Lo strumento diventa adatto a reprimere tanto i fenomeni come l’associazione mafiosa quanto il militante pericoloso, la disobbedienza sociale, lo straniero, fino ad arrivare, a seconda della necessità propagandistica del momento, al partecipante a un rave party. L’estensione della repressione a tali fenomeni non incontra particolari resistenze nell’opinione pubblica, come si nota dalla condanna praticamente unanime dell’azione di Palazzo Madama da parte della politica nonché dalle sguaiate richieste di pene esemplari per un’azione che non ha provocato danno alcuno. Ma che la proporzionalità tra pena e delitto non sia una priorità, quando si parla del tipo di autore militante, era già evidente dal silenzio assordante sulla vicenda di Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre, all’ergastolo ostativo in regime di 41 bis per una strage senza vittime.

Di fatto, gli attivisti di Ultima Generazione fanno esplodere una contraddizione essenziale: quella nei loro confronti è la repressione esemplare di soggetti considerati un pericolo per la società per comportamenti che mirano ad accendere i riflettori sull’inazione nei confronti del rischio per la sopravvivenza umana sul pianeta rappresentato dal riscaldamento globale.

Una contraddizione che rende urgente riflettere su cosa, oggi, può essere sanzionato come pericolo per la società, e con quali strumenti. Per riportare al centro, in ultima analisi, la lotta contro ciò che davvero di pericoloso siamo chiamati ad affrontare: il cambiamento climatico, l’emarginazione sociale, le disuguaglianze.

da Jacobin Italia