Torture nel carcere di San Gimignano: “L’ho visto in terra. Veniva colpito”

Un detenuto che nel 2018 si trovava in isolamento ha confermato le botte degli agenti al tunisino. Poi depone la comandante della polizia penitenziaria: viene invitata a nominare un legale, atti trasmessi alla procura

di Laura Valdesi

“Rammentare quei momenti per me è un’altra tortura. Già dissi queste cose quando parlai con il pm”. E ancora: “Sono l’unico che non ha presentato un esposto perché non intendo ricordare queste cose. Aiutai gli altri (detenuti, ndr) a fare le lettere. Sapevano che studiavo giurisprudenza”. Inizia così la testimonianza di un carcerato, adesso recluso a La Spezia ma che nell’ottobre 2018 si trovava a Ranza, nel reparto di isolamento dove rimase otto mesi. Il giorno in cui avvenne il presunto pestaggio di un tunisino durante lo spostamento di cella lui era lì. E in una lunghissima deposizione ha ribadito più volte che è stato così. “Io i calci e i pugni li ho visti davanti alla mia cella!” esclama in ultimo incalzato dalle domande.

Prima quelle del pm Valentina Magnini, che sostiene l’accusa di torture nei confronti di cinque agenti della polizia penitenziaria. Riottoso, all’inizio. Ha già raccontato quello che sa, non intende ripercorrere quello che ha vissuto. “Stetti una settimana nudo in cella”, svela. E ancora: “Tentai il suicidio per avvelenamento perché non ce la facevo più a stare in quell’istituto”. Non vola una mosca nell’aula al terzo piano. “Non intendo rispondere più – s’impunta – non millanto niente signor giudice! Sto dicendo la verità, per favore portatemi via, voglio dimenticare tutto”, ribatte quando il pm gli fa alcune contestazioni. Non sono accuse, si limita a ripercorrere alcuni passaggi delle sommarie informazioni rese dal testimone all’inizio del 2019. Gli viene spiegato e allora prosegue. Racconta di “aver sentito il trambusto e quel ragazzo è atterrato davanti alla mia cella ma non l’ho visto però andare giù”. Una frase che il detenuto – emerge in udienza, è rimasto in carcere 22 anni – ripete più volte. “Sono stato il primo a battere il blindo”, spiega, per segnalare che stava accadendo qualcosa di serio. Gli vengono mostrate dal pm alcune foto tratte dal filmato del trasferimento di cella. Risponde, indica gli agenti. Poi rovescia i figli come se non volesse vedere più i loro volti. Dopo aver messo il tunisino nella nuova cella, sostiene, “passarono anche da noi (gli agenti, ndr) a salutarci in modo affettuoso”. A più riprese si chiede di chiarire il significato di quella frase. Lo fa con insistenza anche il presidente del collegio Simone Spina prima che termini la testimonianza. Ma il detenuto non aggiunge nulla di più: “Ho risposto, credo di aver risposto abbastanza”, ribatte. Gli avvocati della difesa contrastano il fuoco di fila di accuse. Manfredi Biotti, che assiste quattro degli imputati, cerca di evidenziare le contraddizioni nel racconto del carcerato su come avesse fatto a vedere calci e pugni, che il magrebino veniva trascinato fino alla cella, se lo spioncino del blindo superiore era chiuso. Avrebbe guardato in realtà da quello in basso che si apre dall’interno. “Dichiara di aver visto il braccio e la testa del ragazzo – qui s’infila l’avvocato Fabio D’Amato che difende l’ispettore imputato – leggo però che aveva riferito che da lì la testa non riusciva a vederla”. Il carcerato svela poi come avevano fatto a scrivere le lettere di denuncia se erano in isolamento. “Noi – dice – con una bottiglietta d’acqua facevamo l’ascensore”.

Una breve pausa, quando l’uomo viene portato via dall’aula. Si decide che il processo proseguirà il 25 novembre l’intera giornata. “Ad oltranza”, annuncia agli avvocati di parte civile e ai difensori il presidente Spina. Saranno otto i testimoni da ascoltare, fra cui due detenuti. Poi si riprende ascoltando l’allora comandante delle guardie del carcere ma la testimonianza finirà molto prima del previsto. Perché alla luce delle sue risposte, il collegio la invita a nominare un avvocato. Si cerca un legale, arriva dal piano inferiore. Non è neppure del foro di Siena. Si consulta brevemente con lui e, seppure incredula di quanto sta accadendo, preferisce non rispondere più alle domande. Gli atti vengono dunque trasmessi alla procura per le opportune valutazioni. Per capire se il suo comportamento sia stato corretto, essendo pubblico ufficiale.

da  La Nazione

Milano – Attivisti di Extinction Rebellion denunciati per un’occupazione simbolica del giornale di confindustria

Da Osservatorio repressione

Cinque attivisti di Extinction Rebellion sono stati denunciati per essersi seduti, in silenzio, nella hall principale della sede milanese del Sole 24 Ore. Gli attivisti avevano portato una richiesta di aiuto alla redazione per raccontare la verità sulla crisi climatica

In questo 2021 l’Italia ha ospitato summit internazionali salutati da tutto il mondo come cruciali nella lotta alla crisi climatica. Domenica 31 ottobre si è concluso il G20 a presidenza italiana con la promessa di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto degli 1,5°C. La stessa promessa già fatta nel 2015 a Parigi e mai mantenuta. Il giornalismo può svelare e raccontare l’inadeguatezza della classe politica nell’affrontare questa crisi e aiutare i cittadini a comprendere il tempo in cui viviamo.

Il 29 settembre 2021, alla vigilia degli incontri preparativi alla Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che hanno avuto luogo a Milano a inizio ottobre (preCop26), diversi attivisti di Extinction Rebellion – movimento internazionale nonviolento che si batte per la giustizia climatica ed ecologica – hanno occupato contemporaneamente le hall delle più importanti televisioni, giornali e radio italiane [1].

L’obiettivo era quello di lanciare una richiesta disperata di aiuto al mondo giornalistico per raccontare in modo adeguato la più grande crisi che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare, evidenziandone le responsabilità politiche e le evidenze scientifiche che ne stanno alla base.

“Codice rosso per l’umanità: il clima è già cambiato”, “I governi parlano e non decidono”, “Aiutateci a raccontarlo” sono gli slogan apparsi sui cartelli che gli attivisti hanno esposto una volta entrati nella hall. Il messaggio è stato portato direttamente nelle hall delle sedi di Sky, La Repubblica, La Stampa, RCS, Corriere della Sera, Il sole 24 ore, Il Fatto Quotidiano, Open, Libero, Virgin Radio, Radio 101, Radio 105 e Radio Montecarlo.

A differenza delle risposte avute da tutte le altre redazioni occupate, nella sede del IlSole24Ore, poco dopo essersi seduti nella hall principale, gli attivisti sono stati strattonati e trascinati fuori di peso dalla polizia, la quale ha successivamente verbalizzato cinque denunce per “Invasione di terreni o uffici” (Art. 633 c.p.).

Il rifiuto di ascoltare e comprendere le ragioni di un’azione completamente pacifica stupisce e sembra quasi collidere con la missione di una testata giornalistica: rispettare, coltivare e difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini, ricercando e diffondendo ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse [2].

Cinque persone oggi rischiano che queste denunce si trasformino in un procedimento penale. Il loro coraggio ci ricorda che l’allarme sta suonando e, che lo si voglia ascoltare o meno, continuerà inesorabilmente a suonare.

Extinction Rebellion Italia

Video

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Scaricalo in HD: https://we.tl/t-sdtyqLlpBo

Riferimenti

[1] https://extinctionrebellion.it/press/notizie/2021/09/30/azioni-apertura-precop26/

[2] https://www.mise.gov.it/images/stories/recuperi/Comunicazioni/cartadoverigiornalista.pdf

https://extinctionrebellion.it/

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Repressione – Milano. Polizia in università, sgombero e denunce per gli studenti

Comunicato di Cambiare Rotta di Milano sullo sgombero dell’occupazione e sulla continuazione della lotta.

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Il 19 ottobre come Cambiare Rotta, nel collettivo studentesco C.R.I.C Collettivo Rottura In Corso, con altre realtà politiche e studentesse e studenti dell’università, abbiamo aperto un nuovo spazio autogestito nell’ex dipartimento di storia nel chiostro Legnaia dell’Università Statale di Milano.

Dopo due settimane di occupazione e autogestione delle 4 aule studio, attorno alle 6:15 di stamattina sono entrati in Università polizia, carabinieri e digos con uno stuolo di agenti a sgomberare le 30 studentesse e studenti che si trovavano dentro, che sono stati denunciati.

La scelta di aprire un nuovo spazio per studiare e confrontarsi all’interno dell’università era nata dalle necessità materiali di studentesse e studenti, di fronte all’insufficienza di posti in aule e biblioteche aperte per studiare, rispetto al numero di persone che quotidianamente attraversano l’università.

A partire da questa rivendicazione, il collettivo ha sviluppato una critica generale all’Università, dalla Statale di Milano fino all’intero modello a cui le riforme in atto nel mondo della formazione tendono.

Le ragioni della carenza e dell’inadeguatezza degli spazi sono tante: innanzitutto molti di essi sono vuoti o inutilizzati; in secondo luogo, altri, in particolare quelli della sede di Festa del Perdono, vengono messi a disposizione di enti privati che irrompono nell’ambito accademico per fare profitto – ne è un recente esempio il Fuori Salone.

In aggiunta, la pandemia ha esasperato questa strutturale carenza di spazi per gli studenti, riducendo la quantità e la disponibilità oraria delle aule.

A mancare, inoltre, non sono esclusivamente i luoghi deputati alla didattica, ma anche quelli che offrono occasioni di socialità, aggregazione e crescita politica e culturale.

L’università, infatti, al posto di incentivare l’esercizio al dibattito e al pensiero critico, che dovrebbe essere il suo primo obiettivo, è vettore di una sempre crescente frammentazione e disgregazione del corpo studentesco, un vero e proprio esamificio in cui si assiste alla conservazione dell’ideologia dominante e si riproducono le logiche di individualismo, competizione e meritocrazia che permeano questa società.

E’ chiaro dunque che quest’università non faccia gli interessi degli studenti, bensì che sia sempre più subordinata al profitto e orientata alle logiche del mercato del lavoro: in questa direzione vanno sia il processo di privatizzazione che quello di aziendalizzazione dell’università, nonché la sua trasformazione in senso sempre più elitario ed escludente per la maggior parte degli studenti, che si devono conformare da un punto di vista qualitativo e quantitativo alle necessità produttive di questo modello sociale ed economico.

Alle richieste degli studenti di maggiori spazi di studio e di confronto e di vedere messe al centro le necessità di chi studia – invece della continua svendita dell’università ai privati -, il rettore Franzini ha prima negato l’incontro che come C.R.I.C Collettivo Rottura In Corso avevamo chiesto, per poi rispondere con la repressione.

All’interno di questa università non c’è più spazio per nessuna forma di dissenso. Terremo oggi alle 14 un’assemblea pubblica nel chiostro centrale dell’Università Statale di Milano per dare una risposta organizzata alla repressione che abbiamo subito da parte del rettore Franzini e dell’università.

Da contropiano

Come in India anche nelle Filippine la polizia ammazza contadini e quadri maoisti inscenando falsi scontri: massacrate nell’ultima settimana almeno 7 persone dal regime fascista Duterte

La mattina del 24 ottobre almeno 5 contadini sono stati uccisi a sangue freddo dalla Polizia nazionale filippina (PNP) a Masbate, una delle province che ha visto il maggior numero di esecuzioni extragiudiziali attribuite a militari e polizia. Per il Partito Comunista delle Filippine (CPP) sono più di 74 ora gli omicidi nella provincia sotto il regime terrorista di Duterte.

Sempre a sangue freddo, il 29 ottobre alle 8 di sera a Bukidnon, le Forze Armate delle Filippine (AFP) hanno assassinato i compagni Jorge Madlos, alias “Ka Oris”, portavoce del New People’s Army (NPA), e il suo assistente medico Eighfel Dela Peña, alias “Ka Pika”, mentre stavano andando in motocicletta per cercare cure mediche. I rivoluzionari erano disarmati e sono stati uccisi in un’imboscata, ma per creare una falsa immagine di scontro armato, le AFP hanno organizzato attacchi aerei quattro ore dopo nelle vicinanze di Barangay Dumalaguing, Impasug-ong, provincia di Bukidnon. Per circa due ore, dalle 00:40 alle 2:00 passate, l’AFP ha sganciato almeno sei grosse bombe, ha sparato dozzine di razzi e mitragliato il fianco della montagna, sconvolgendo la pace e provocando paura e panico tra la gente. Hanno poi sostenuto un’enorme menzogna parlando di uno scontro armato alle 11 del mattino (10 ore dopo) in cui Ka Oris e Ka Pica sarebbero stati uccisi.

Sia gli omicidi dei contadini che quelli dei quadri maoisti sono stati commessi  dalla Polizia nazionale filippina (PNP) e dalle Forze Armate delle Filippine (AFP) su persone disarmate e propagandati come operazioni militari antiguerriglia nel corso di combattimenti.

Repressione pura, vere e proprie esecuzioni sommarie ed extragiudiziali, come le definisce in un articolo, che riportiamo in calce, Gianni Sartori.

Questi massacri fanno parte dell’aggravarsi degli atti di terrorismo di stato perpetrati dalle Forze Armate Filippine e dalla Polizia Nazionale contro le masse contadine e la popolazione ribelle nel tentativo di porre fine alla resistenza armata del popolo contro il regime dell'”Hitler” filippino (come ama definirsi Duterte).

Finti scontri con attacchi aerei e bombardamenti si sono intensificati nel 2021, nel tentativo di “sconfiggere l’insurrezione entro la fine dell’anno”. Nel febbraio di quest’anno, le truppe dell’AFP hanno ucciso sommariamente un agricoltore locale e due membri dello staff di una fattoria dimostrativa per l’agricoltura sostenibile a Pres. Un totale di 277 agricoltori sono stati uccisi a livello nazionale dalle forze armate fasciste di Duterte dalla metà del 2016, per non parlare delle migliaia di casi di molestie e intimidazioni, resa forzata, insediamento e altri abusi a seguito delle operazioni militari mirate nelle campagne.

Di seguito riportiamo 2 comunicati del Partito Comunista delle Filippine (CPP) sul massacro di contadini a Masbate e sull’omicidio dei compagni a Bukidnon:

October 25, 2021

The Communist Party of the Philippines (CPP) condemns in the strongest terms the Philippine National Police (PNP) for the massacre of at least five peasants early yesterday morning in Barangay Bugtong, Mandaon town in Masbate province.

Contrary to the PNP’s claims in their press releases, the victims were not members of the New People’s Army (NPA). The PNP identified one of the victims as Eddie/Arnold Rosero, a local resident.

According to the NPA’s Regional Operational Command in Bicol, there was no armed encounter yesterday nor was there an NPA unit in the area.

We hold the PNP accountable for this heinous crime. This was committed by the police following direct orders of the police chief to “put an end” to the NPA in Masbate and the Bicol region.

The local unit of the NPA must seek to immediately identify and arrest those directly responsible for the massacre. We urge local police officers, whether involved or not in the crime, to cooperate with the NPA and reveal the whole truth about the massacre. The NPA must do everything in its power to give justice to the victims and their families.

This massacre forms part of the worsening acts of state terrorism perpetrated by the Armed Forces of the Philippines (AFP) and the PNP against the peasant masses and people of Masbate. The AFP and PNP seeks to terrorize the people through killings, abductions, unlawful arrests, beatings, armed intimidation, forced surrenders, hamletting of communities and other abuses in their futile drive to put an end to the people’s armed resistance.

Masbate is one of the provinces that has seen the biggest number of extrajudicial killings attributed to the military and police. Based on our information, there are now at least 74 killings in the province under the terrorist Duterte regime.

October 31, 2021

Comrade Ka Oris (Jorge Madlos), spokesperson of the New People’s Army (NPA), was not killed in an armed encounter. He was ambushed on the road between Impasug-ong town proper & the national highway at 8 pm on Oct 29. He and his medical aide were riding a motorcycle on their way to seek medical treatment. This is according to his wife Ka Maria Malaya.

Ka Oris and aide Eighfel Dela Peña (Ka Pika) were both unarmed when ambushed. Whether they were ambushed while moving or were accosted and thereafter executed is still unclear. Clearly, however, they were not in a position to give battle or fight back and were murdered in cold-blood.

To conceal their crime of murdering unarmed revolutionaries and create a false picture of an armed encounter, the 4th ID staged aerial strikes four hours later in the vicinity of Barangay Dumalaguing, Impasug-ong, Bukidnon province. For around two hours, from 12:40 a.m. to past 2 a.m. the AFP dropped at least six large bombs, fired dozens of rockets and strafed the mountainside shattering the peace and causing fear and panic among the people. They then issued a fat lie claiming of an armed encounter at 11 am (10 hours later) where Ka Oris and Ka Pica were supposedly killed.

Since last night, Gen. Brawner of the 4th ID and other AFP officers shamelessly faced the media. They brazenly wove one lie after another in an attempt to fool the people. They are utterly dishonorable officers for propagating false information. We hold Gen. Brawner and the men and officers of the 403 IBde responsible for the murder of Ka Oris and Ka Pica and its coverup.

Given the circumstances, the families of Ka Oris and Ka Pika are in a position to demand that independent pathologists perform an autopsy on the bodies of the victims to determine the actual circumstances of their killing.

We also support the wishes of the families to have the bodies of Ka Oris and Ka Pika be immediately released to them in order for them to conduct a proper wake and give all those who knew Ka Oris the opportunity to pay their last respects.

Ka Oris had long wished to return to Siargao Island where he grew up as a boy. Perhaps, his wish could be fulfilled.

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Da Osservatorio repressione

Dall’India alle Filippine si ammazzano indigeni e contadini

Mascherare la repressione pura e semplice, in molti casi l’esecuzione extragiudiziale, come “operazione militare contro la guerriglia” rientra nei metodi, nello “stile”, delle guerre a bassa intensità (per quanto “bassa” risulti spesso un eufemismo).

Lo si è visto in America Latina, dalla Colombia al Guatemala, dove venivano venduti ai media come cadaveri di combattenti i poveri corpi massacrati di contadini e indigeni. Talvolta interi villaggi.

O addirittura esibirli come vittime della guerriglia.

Per esempio in Colombia era pratica consolidata quella di attribuire alle FARC o all’ELN la responsabilità dei massacri di civili operati dall’esercito, dalla polizia, dai paramilitari o da squadroni della morte (in genere legati al narcotraffico).

Del resto succedeva anche in India. Solo neldicembre 2019, dopo quasi otto anni, una commissione guidata dal giudice V.K. Agrawal aveva finalmente stabilito la verità in merito agli eventi di Sarkeguda dove, nel giugno 2012, vennero assassinati 17 adivasi (gli aborigeni dell’India), di cui sette bambini. Un massacro ufficialmente presentato come uno scontro con la guerriglia maoista, i naxaliti. Quel mattino i paramilitari (le CRPF) avevano circondato gli abitanti del villaggio riuniti per la festa tradizionale di Beej Pondum aprendo quindi il fuoco. Successivamente si erano scatenati infierendo ulteriormente sulle persone ferite rimaste a terra.

Due recenti episodi sembrerebbero riproporre lo schema. Il primo ancora in India, l’altro nelle Filippine.

Il 25 ottobre tre indigeni adivasi, esponenti del Partito Comunista dell’India (Maoista), sono stati uccisi dalle forze di sicurezza nei pressi della frontiera tra gli Stati del Telangana del Chhattisgarh.

Si trattava di quadri a livello regionale del partito, ma non di esponenti della guerriglia naxalita. Come invece ha cercato di dar a intendere un comunicato delle forze di sicurezza parlando di uno “scontro a fuoco” che in realtà non sarebbe mai avvenuto. Stando almeno a quanto dichiara il PCI (M) che definisce l’episodio “un’esecuzione mascherata da combattimento”. Va detto che i naxaliti rivendicano sempre le loro operazioni e i militanti caduti in combattimento. L’accusa alle forze di sicurezza di aver agito come una squadra della morte va quindi presa in seria considerazione. Di conseguenza il PCI(M) ha chiamato la popolazione della regione a sollevarsi con uno sciopero generale contro la triplice barbara esecuzione.

Quasi contemporaneamente nelle Filippine il capo della polizia nazionale – generale Guillermo Eleazar – si è complimentato con l’ufficio regionale della polizia 5 (PRO-5) per aver “neutralizzato” (ossia ucciso) cinque presunti appartenenti a NPA (Nuovo esercito popolare) a Barangay Bugtong (provincia di Masbate). Ma anche in questo caso, come ha immediatamente denunciato il Partito comunista delle Filippine (ramo politico di NPA), si trattava di semplici contadini, non di guerriglieri. Anche perché in questa zona notoriamente non è presente alcuna unità di NPA.

Gianni Sartori

Padova, cariche della polizia di stampo sudamericano per proteggere il fascista negazionista Bolsonaro

Idranti e cariche contro i manifestanti che hanno forzato il blocco della celere e si stavano dirigendo verso la Basilica del Santo. Un fermo, diversi feriti.

Pioggia battente e freddo: l’arrivo del presidente brasiliano Jair Bolsonaro coincide con una brusca virata metereologica verso l’autunno inoltrato. Nonostante questo tantissime persone hanno risposto all’appello lanciato dal Cso Pedro, Adl Cobas e altre realtà cittadine in Prato della Valle. Un appello che conteneva un messaggio chiaro: la presenza di Bolsonaro è un insulto alla città e le persone che scendono in piazza lo faranno per bloccarne l’arrivo. Anche il titolo della manifestazione, riportato nel grande striscione d’apertura, non lascia dubbi: “Fora Bolsonaro!”, che si rifà alle contestazioni che il presidente sta ricevendo in patria, ma anche a un’espressione dialettale veneta inequivocabile.

Scene di guerriglia nel centro cittadino: manganelli e idranti contro il corteo che era deciso a raggiungere la basilica di Sant’Antonio per dire a Bolsonaro che a Padova non c’è spazio per le sue posizioni omofobe, fasciste e razziste, e che è stato immediatamente bloccato da una carica e, subito dopo, dall’idrante. Di fronte alla presenza di un capo di stato come Bolsonaro, lo stato italiano si è schierato a difesa di posizioni fasciste reprimendo il dissenso della città. Nel corso delle cariche, una ragazza è stata fermata, per poi essere liberata in serata.

L’evento che ieri, 1 novembre, ha visto scendere in piazza tante realtà cittadine, ha avuto una portata tale da attirare nutrite delegazioni da tutto il Nord-Est e anche da altre parti d’Italia. Bolsonaro rappresenta così bene la sintesi del “male contemporaneo” che la sua presenza offre l’occasione per portare in piazza le tante tematiche su cui i movimenti sociali lavorano da anni. Nei suoi quasi tre anni di presidenza si è contraddistinto per aver demolito qualsiasi (timido) avanzamento nel campo dei diritti civili e sociali che c’era stato in Brasile; per aver bloccato la restituzione delle terre alle popolazioni indigene; per aver condotto una guerra di bassa intensità contro indigeni, femministe, attivisti sociali; per aver  favorito l’aumento della violenza estrattivista in tutto in Paese, in particolare in Amazzonia. E poi la gestione negazionista e criminale della pandemia, per la quale è stato accusato di crimini contro l’umanità da una commissione d’inchiesta parlamentare che si è appellata all’ONU: il Paese sudamericano è secondo al mondo per numero di morti da Covid (oltre 600 mila), che si sono concentrati nelle fasce più povere e razzializzate della popolazione.

Per tutte queste ragioni sono tante le voci che si sono alzate dalla piazza padovana. A partire da Lisa del Cso Pedro che aprendo la giornata di mobilitazione di oggi ha ribadito come «l’odio, l’omofobia e il negazionismo non debbano avere spazio».

Mattias di Rise Up 4 Climate Justice, neonato movimento climatico che venerdì scorso è stata protagonista di un’iniziativa proprio ad Anguillara, ha sottolineato come «i territori sono devastati a causa di persone come Bolsonaro. In Amazzania si sta deforestando l’ultimo polmone verde del mondo per dare terreni alle multinazionali, cacciando le popolazioni indigene».

Melania di Non Una di Meno Treviso ha voluto ricordare Marielle Franco, attivista nera indigena, ammazzata da Bolsonaro, primo mandante politico, e continua «questa città si opporrà all’arrivo di un fascista, omofobo machista e la marea transfemminista si opporrà.  Sono i nostri corpi in lotta che rendono le città sicure».

Interviene anche un professore italiano che lavora in Brasile, proprio ai piedi dell’Amazzonia e dice «come italiano mi vergogno perché io l’Amazzonia l’ho vista bruciare, ho visto l’oppressione in Brasile, la pandemia, l’omicidio di Marielle Franco che oggi è con noi in questa piazza. Vi ringrazio per essere qui».

Ilaria del Cso Pedro, a proposito di intersezionalità delle lotte, rilancia il world vegan day, «le specie amazzoniche sono state decimate negli ultimi anni anche per colpa del consumo dei corpi degli animali da macello. Dalla pandemia di Covid-19 l’Amazzonia brasiliana continua a bruciare e la deforestazione batte nuovi record. Nel primo semestre del 2020 sono stati occupati 3.000 ettari di foresta, un aumento del 25% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso».

Francesco di Open Your Borders, ribadisce «siamo qui oggi per un motivo molto semplice, impedire a Bolsonaro di entrare a Padova. Siamo qui oggi perché Padova è sempre stata una città accogliente ma con anticorpi al razzismo ben allenati. Per questo motivo siamo qui oggi a mettere in gioco i nostri corpi. Bolsonaro rappresenta quindi la visione del mondo elitaria, classista, razzista a cui noi ci opponiamo fermamente, come ha anche dimostrato con i suoi ripetuti attacchi ai popoli indigeni».

Dopo le cariche, la manifestazione si mossa nelle vie del centro per chiedere la liberazione della manifestante fermata: «Padova ha dimostrato in maniera inequivocabile di saper tener testa a chi fa del razzismo, del sessismo e del negazionismo climatico il proprio manifesto politico. “Fora Bolsonaro!” non è stato solo uno slogan, ma il grido di una città degna che ha voluto dimostrare tutto il suo sdegno contro uno dei peggiori criminali del nostro tempo».

da GlobalProject

30 ottobre a Roma contro i padroni del mondo, contro i regimi fascio-populisti reazionari e le loro politiche genocide

Dall’India, al Brasile, alla Turchia, i governi dittatoriali, fascio-populisti e reazionari hanno trasformato ancor più la pandemia in strage di masse proletarie e povere. Le loro politiche portano alla fame, al dilagare della povertà, alla guerra contro i loro stessi popoli.

Accade in India con Modi, dove il campione di quella che viene chiamata “la più grande democrazia del mondo” incarcera, deporta, tortura i lavoratori, i contadini, gli intellettuali, le masse popolari che si ribellano in armi guidate dal PCI(maoista)

Accade nel Brasile con Bolsonaro, un fascio populista negazionista oggi incriminato per la gestione criminale della pandemia, legato organicamente ai militari, ai grandi latifondisti e che per loro fa terra bruciata in Amazzonia, deporta i popoli indigeni, conduce una guerra contro le masse contadine povere…

Accade in Turchia col regime Erdogan che porta il terrore in Siria, nel Rojava, nel Kurdistan, che occupa militarmente la Libia, aiuta l’UE nei respingimenti antiimmigrati, espande l’influenza turca in Africa e reprime l’opposizione nel suo paese…