Archivio mensile:Settembre 2021
Tortura, omissioni e pestaggi nel carcere di Modena – la Procura costretta a riaprire l’inchiesta: i filmati ci sono
Tortura, omissioni e pestaggi nel carcere di Modena. La verità nei filmati
La procura riapre il caso sulle violenze dopo la rivolta al Sant’Anna e la morte di nove reclusi. L’Espresso è in grado di confermare l’esistenza di documenti che fanno riferimento alle immagini del circuito interno.
La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate. È lo scossone che riapre il caso del Sant’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti.
Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto. Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato “come un animale”.
“Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora“.
Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. “Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”.
Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani “rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita“. A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura.
“È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda”, commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta.
L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno“.
A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti“. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi.
Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazí, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta. Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che “lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio“. Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere.
Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti. Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura. Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman.
Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. “Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti“. Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. l’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno. Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte.
Alle richieste di aiuto lanciate dal celiante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde “lasciatelo morire”. E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. “A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato”.
Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. “A Modena“, scrive, “molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle”. Ad Ascoli, invece, “la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva“.
Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso.
Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto. “Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane“.
Pierfrancesco Albanese
da L’Espresso
un documento che pone problemi interessanti ma la proposta di ‘amnistia’ è velleitaria – troppo per i rapporti di forza e troppo poco per promuovere la lotta politica su questo tema secondo un paradigma rivoluzionario
Le radici per aria. Appunti per una Storia di classe
Stiamo assistendo ad un potente percorso di riscrittura della Storia. Lo Stato, uscito vincitore dal conflitto della seconda parte del 900, ha avuto un’esigenza: cancellare la possibilità di pensare e concretizzare il cambiamento dell’esistente. Quest’attacco rappresenta certamente una resa di conti con il passato, che in Italia prende le forme dell’azzeramento delle ragioni del conflitto di classe dal dopo guerra, ma soprattutto un monito, un avvertimento pesante a chi non accetta una Storia che qualcuno vorrebbe finita e immutabile.
Parlare ancora oggi della “guerra di bassa intensità” in Italia sembra far tremare non poco gli scheletri negli armadi dello Stato italiano; questo perché la “strategia della tensione” aveva un obiettivo chiaro e definito: impedire qualsiasi tipo di trasformazione sociale e politica del sistema capitalista ed atlantista messo in piedi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La dimostrazione drammaticamente più evidente di questa strategia si è avuta soprattutto, ma non solo, con la strage nella di Piazza Fontana a Milano nel 1969, quel 12 dicembre che per noi non sarà mai una data qualunque sul calendario ma ha rappresentato un salto di qualità nella “guerra non dichiarata” da parte dello Stato italiano, insieme ai servizi militari USA e alle organizzazioni fasciste, contro il movimento operaio, la sinistra e i comunisti nel nostro paese. Pertanto, il cosiddetto “assalto al cielo” non era una velleità o uno slancio utopico, ma una necessità storica e politica le cui fondamenta erano e sono tuttora da ritrovare nel grande clima di fermento e mobilitazione sociale di quegli anni: dalle lotte studentesche a quelle contro il carovita, dalle occupazioni nelle fabbriche alle manifestazioni in solidarietà con le lotte di indipendenza e autodeterminazione dei popoli nel mondo.
L’apparato repressivo di quegli anni (leggi ereditate dal fascismo, leggi speciali, arresti, carceri speciali, torture) ha rappresentato l’unica risposta possibile per un sistema di potere vacillante, incapace di mantenere quella “pace sociale” apparentemente garantita dal boom economico. Nulla è stato risparmiato a chi ha osato sfidare il sistema e le istituzioni dello Stato, il quale sin dai primi anni del cosiddetto “riflusso” ha messo in atto una campagna totale di distruzione martellante della memoria storica e politica per riscrivere un’altra storia, quella degli “opposti estremismi” e delle trame e sotto-trame della manipolazione complottista.
Eppure, la sete di vendetta dello Stato italiano, incapace di fare i conti con il proprio passato e la propria storia, è tornata a colpire chi non si è mai pentito e dissociato da quelle lotte. Ne sono dimostrazione tre fatti accaduti tra aprile e giugno di quest’anno, i quali non possono essere inquadrati e compresi se non prendendoli complessivamente.
Gli arresti degli esuli italiani in Francia e l’ennesimo tentativo di estradarli in Italia. Voler colpire questi esuli politici italiani ha rappresentato una dimostrazione di riaffermazione del potere di uno Stato in realtà debole, svuotato dal processo di integrazione europea di ogni sua funzione di mediazione e decisione politica e sociale. Questo Stato, a cui resta poco più dell’esercizio delle sue funzioni repressive, si è incaricato esso stesso di tracciare una linea di collegamento tra il passato e il presente, ovviamente in senso repressivo: per chi si schiera contro di esso, ci sarà solo guerra e vendetta. Questo è il messaggio che si è voluto mandare soprattutto alle giovani generazioni, un segnale per scoraggiare chi oggi intende impegnarsi a livello militante e organizzato nelle lotte sociali e politiche.
Il secondo fatto riguarda chi già è detenuto e contro il quale lo Stato sta consumando la propria vendetta. Cesare Battisti, ex militante del Proletari Armati per il Comunismo, è stato a lungo rifugiato in Francia, per poi essere arrestato in Bolivia ed estradato nel gennaio 2019. A giugno aveva intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro le sue condizioni di detenzione nel reparto di Alta sicurezza (AS2) del carcere di Rossano, nonostante dovesse essere mantenuto in isolamento per soli sei mesi. Dopo più di venti giorni, è riuscito ad ottenere il trasferimento nel carcere di Ferrara ma il suo regime detentivo in alta sorveglianza non è stato affatto modificato. Le sue condizioni detentive sono evidentemente quelle che lo Stato vorrebbe riservare anche ai compagni esuli in Francia.
Da ultimo, un caso che a prima vista sembra meno grave, ma che colpisce il cuore della questione della memoria storica. Pochi giorni dopo l’intervista con Paolo Persichetti realizzata ad inizio maggio, la DIGOS aveva sequestrato tutto il materiale cartaceo e i dispositivi tecnologici che costituivano il suo archivio personale, andando a colpire il lavoro di ricostruzione storica del compagno che oggi è un giornalista, ricercatore, scrittore e storico. Questo si inserisce in un piano di rilettura di Stato degli ultimi 60 anni di questo paese ed in una più ampia manovra repressiva retrodatata, che vuole zittire tutti quei protagonisti che ancora si battono per una verità diversa da quella dettata dai vincitori.
Dunque, mettendo in fila: persecuzione contro chi è ancora esule, vendetta consumata contro chi è prigioniero e sequestro di un archivio storico, agendo direttamente nella rimozione del piano concreto di informazioni che riguardano quegli anni. È in queste forme che l’azione tesa alla damnatio memoriae dello Stato italiano si sostanzia concretamente.
Ma non c’è solo la lotta passata nel mirino di classi dominanti sempre più in crisi di legittimità. La torsione autoritaria e repressiva, attuata dai governi nazionali nel quadro generale della costituzione e del rafforzamento della Unione Europea come polo imperialista, criminalizza e punisce qualsiasi tentativo, anche “moderato”, di innescare una dinamica di conflitto, più o meno organizzato, nel mondo attuale.
Abbiamo affermato che siamo in presenza di un salto nel baratro della civiltà giuridica europea, nonostante la propaganda di regime voglia raccontare un’altra storia. La votazione a Bruxelles per togliere l’immunità parlamentare agli indipendentisti catalani esuli, il silenzio delle istituzioni continentali durante lo sciopero della fame e della sete del prigioniero politico Dimitris Koufontinas in Grecia, la detenzione criminale di Georges Ibrahim Abdallah, ci dicono chiaramente che l’Unione Europea è pronta ad agitare il tema dei diritti umani strumentalmente ai propri fini di politica estera, ma è incapace di rispettarli all’interno dei suoi confini. La guerra è guerra, e i nostri nemici dimostrano di esserne perfettamente coscienti.
Per noi si impone quindi con maggior forza la necessità della “amnistia sociale” come parola d’ordine per le lotte di ieri e di oggi.
L’ingombrante apparato legislativo e repressivo ereditato dal fascismo dalla nostra Repubblica, implementato grazie alle varie legislazioni emergenziali negli anni ‘70, non è mai stato dismesso – anzi è stato rafforzato – ed anche oggi chi si oppone in vario modo allo stato di cose presenti ne sperimenta il fardello in un contesto in cui il conflitto sociale è divenuto un crimine tout court.
Siamo consci che una ampia amnistia per i reati politici e sociali è il viatico per rompere quella gabbia del “diritto del nemico” in cui si sono imprigionati gli anni ‘70 e si vuole tutt’ora detenere la lotta di classe nel nostro Paese.
La storia dei compagni e delle compagne, e del loro sogno/bisogno di comunismo, è una risorsa preziosa che non lasceremo in balia degli aguzzini e delle loro leggi liberticide.
23 ottobre manifestazione a Lannemezan per la liberazione di G:Abdallah
Pour nous en italie preparons la manifestation contre le G 20 in rome le 29/30 octobre. - signons l'appel et au g20 nous apportons un grand banderol pour la liberation de gia contre macron. Proletari comunisti - soccorso rosso proletario Inviato da iPhone
Il giorno 21 set 2021, alle ore 22:40, Jean Clément <campagne.unitaire.gabdallah@gmail.com> ha scritto: Bonsoir camarade, le 23 octobre prochain aura malheureusement lieu, une nouvelle fois, une manifestation à Lannemezan - la 11e - pour exiger la libération de notre camarade Georges Abdallah. Ce rendez-vous n'a pas qu'une valeur symbolique : il est une nouvelle occasion pour notre camarade, pour ses soutiens et pour les représentants de l'Etat français d'évaluer la force et l'amplification de la mobilisation. Cette dernière ne cesse de s'intensifier mais il est essentiel que, pour ce nouveau jalon, nous soyons toujours plus nombreux à montrer notre détermination à poursuivre le combat jusqu'à la victoire. C'est en ce sens que nous vous appelons, cette année encore, à unir l'ensemble de nos forces durant un mois - durant un mois international d'actions - pour que pas un jour ne passe, dans nos quartiers, dans nos villes, en France et à l'international, sans que soit criée et entendue l'impérieuse nécessité de la libération de notre camarade. D'ors et déjà, et jusqu'à Lannemezan, durant un mois, montrons l'ampleur des soutiens qui s'engagent pour la libération de Georges Abdallah et sur lesquels peut compter notre camarade. Pour cela nous vous proposons : 1. de signer le texte ci-joint appelant au mois international d'actions 2. d'indiquer quelle(s) intiative(s) votre organisation pense mener durant ce mois pour que toutes puissent apparaître sur un calendrier d'actions rendu public, donnant à voir l'étendu du réseau national et international de soutien à notre camarade. C'est ensemble et seulement ensemble que nous vaincrons ! Salutations rouges internationalistes et solidaires
Torture senza fine nelle carceri israeliane: gli ex detenuti raccontano l’isolamento
Da infopal
Quds Press. Sono molte le forme di abusi attuate dall’occupazione israeliana contro i prigionieri palestinesi, come torture fisiche, trasferimenti arbitrari tra le varie carceri, sospensione delle visite familiari e divieto di acquistare beni di primaria necessità, oltre a forme di tortura psicologica che culminano nella detenzione in celle di isolamento.
Lo ‟stato di isolamento” interrompe per lunghi periodi i contatti dei detenuti con le loro famiglie, inasprisce la loro condizione di prigionieri, privandoli delle più elementari necessità vitali, e rappresenta, inoltre, una flagrante violazione dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, il quale vieta la reclusione individuale o il trasferimento collettivo, oltre alla deportazione di individui, dalle terre occupate alle terre del potere occupante. Come possono quindi essere isolati in modo così arbitrario per lunghi anni o mesi?
In tale contesto, tre prigionieri palestinesi, liberati in seguito all’‟accordo bilaterale Wafa Al-Ahrar”, nel 2011, hanno raccontato a Quds Press con dettagli piuttosto accurati i momenti che hanno vissuto durante l’isolamento, circondati da sbarre di ferro e acciaio e totalmente separati dall’esterno.
In isolamento il tempo si ferma.
L’ex detenuto Mohammed Taqatqa ha trascorso circa quattro anni in isolamento, dopo una segnalazione fatta dai servizi segreti dell’occupazione contro di lui, con l’accusa falsa di dirigere azioni di resistenza militare dall’interno del carcere. L’amministrazione penitenziaria lo ha isolato dalla sua famiglia e gli permetteva solo un’ora d’aria al giorno, in un piccolo cortile fuori dalla cella, circondato da alte mura, coperto in alto da reti di ferro, e tutto questo comunque con le gambe legate.
Taqatqa ha descritto la cella di isolamento dicendo che è “così piccola che non puoi muoverti all’interno”, aggiungendo che “la luce del sole non riesce ad entrarci, e senti che il tempo si è fermato completamente, non ha più alcun valore, è scandito solo dagli orari dei pasti”.
Secondo Taqatqa l’occupazione persegue una “politica di isolamento”, con l’obiettivo di spezzare il morale del prigioniero palestinese ed esporlo a maggiori pressioni psicologiche. Ha anche affermato che “il carceriere israeliano attua una politica di vendetta contro gran parte dei prigionieri, con l’obiettivo di tenerli ben lontani dagli altri detenuti”.
Un’agonia senza fine.
Un altro contributo viene dall’ex detenuto Nizar Ramadan, nato a Nablus, nel nord della Cisgiordania, che ha raccontato del suo isolamento durato tre anni. Dopo aver tentato di evadere dalla prigione militare di Ashkelon, ha affermato che l’occupazione lo ha sottoposto a numerosi e gravi tipi di tortura psicologica, trasferendolo da un carcere all’altro in condizioni disumane.
Ramadan, che è stato deportato nella capitale del Qatar, Doha, ha affermato che trasferirsi in una cella di isolamento significa “una continua agonia senza fine, come se si fosse trasferiti da un carcere ad un altro, ma ben più crudele e ingiusto” e “l’amarezza per l’ingiustizia si intensifica quando ricordi che l’isolamento è la punizione per il tuo tentativo di liberarti dal carcere per raggiungere la libertà”.
Ha anche affermato che la condizione di tormento dell’isolamento lo ha accompagnato dalla prigione di Beersheba alla prigione di Shata, dove è stato ammanettato al posto di due altri detenuti all’interno di una cella in cui i soldati avrebbero deliberatamente fatto irruzione durante i momenti di riposo e di sonno per fargli pressione psicologica, mentre il resto dei detenuti comuni riposava.
Ramadan è passato dalla durezza della cella di Shatta alla prigione denominata “la tenda oscura”, accanto al carcere di Beersheba, dove è stato sottoposto a sistematiche torture psicologiche e fisiche da parte dell’amministrazione penitenziaria. È stato molestato deliberatamente, fatto stare con detenuti comuni e agenti israeliani in una stanza, piuttosto caratteristica per la sporcizia e le ridotte dimensioni.
Ramadan ha spiegato che tra le violazioni commesse nei suoi confronti, gli è stato impedito di essere visitato dalla sua famiglia, gli è stato vietato di acquistare beni di prima necessità, gli sono stati confiscati tutti i suoi effetti personali, e gli è stato impedito di preparare i pasti, ricordando che è stato poi trasferito al carcere di Ashkelon, dove è stato sottoposto a torture psicologiche e fisiche ancora più gravi.
Eliminare i diritti umani di base.
Da parte sua l’ex detenuto Khuwaylid Ramadan ha trascorso circa cinque mesi in isolamento nella prigione di Ashkelon, ed è riuscito a porre fine alla propria condizione dopo aver partecipato a uno sciopero dei prigionieri.
Spiegando l’isolamento, Khuwailid ha detto: “Qua era più duro delle solite condizioni di isolamento. Ero solo nella sezione nonostante la presenza di altre tre celle d’isolamento adiacenti alla mia, e non ho mai incontrato altre persone, a meno che non portassero un criminale comune per punirlo all’interno di una delle celle di isolamento, ma rimaneva per due o tre giorni e poi lo trasferivano‟.
Ha sottolineato che la causa principale del suo isolamento è dovuta ad una falsità, che può essere definita pretestuosa, escogitata dal direttore della prigione di Al-Jalama, che ha trovato dei documenti nella sua borsa mentre veniva portato in tribunale, documenti che sono definiti come un “testamento scritto dal prigioniero Nizar Ramadan”, quando invece era un testo di carattere palesemente umoristico e comico.
Khuwaylid ha aggiunto che “il direttore ha inviato questo documento alla direzione della prigione di Ashkelon, e lì mi hanno accusato di voler uccidere un poliziotto, e in più di voler ottenere il martirio, anche se l’intero argomento del testamento era solo un palese scherzo.
“In un primo momento, non mi hanno messo nelle stanze di isolamento ufficiale, poiché sono rimasto per circa 40 giorni in una cella che è nota per essere una punizione ma non un isolamento, larga un metro, lunga due metri e mezzo, e può ospitare un solo materasso, senza ovviamente servizi igienici”.
Ha spiegato di essere poi passato all’isolamento ufficiale nel carcere di Ashkelon, affermando che “è uno strumento punitivo utilizzato dall’amministrazione delle carceri di occupazione per annichilire i diritti basilari dell’essere umano, il più importante dei quali è vivere con gli altri, poiché l’uomo è per sua natura una creatura sociale”.
Traduzione per InfoPal di Giovanni Bilanci
Violenze nel carcere di Ferrara: lo stato assolve sé stesso e i suoi servi infami
Tutti assolti da tutte le accuse. Si è concluso così il processo sulle presunte violenze in carcere a carico di due agenti di polizia penitenziaria, l’ispettore capo Roberto Tronca e il sovrintendente capo coordinatore (oggi in pensione) Geremia Casullo. I due erano accusati di diversi reati, due in concorso e gli altri contestati al solo Tronca. Le accuse (sei in tutto i capi di imputazione) andavano dalla tentata violenza privata all’abuso di mezzi di coercizione passando per l’istigazione a commettere danneggiamenti e resistenza a pubblico ufficiale. Secondo le accuse, i poliziotti avrebbero percosso e minacciato un detenuto per avere informazioni e, il solo ispettore, avrebbe spinto alcuni ristretti a commettere illeciti. Nella penultima udienza, il pubblico ministero Isabella Cavallari aveva chiesto la condanna a un anno e tre mesi di reclusione per entrambi gli imputati per due capi di imputazione (tentata violenza privata e abuso di mezzi di coercizione, entrambi in concorso) e l’assoluzione per i quattro contestati al solo ispettore.
Ieri pomeriggio, al termine di un lungo e complesso dibattimento, il giudice Silvia Marini ha letto la sentenza di assoluzione per ogni singolo capo di imputazione, seppure con formule diverse (per non aver commesso il fatto relativamente a quattro capi di imputazione, perché il fatto non sussiste per uno e perché il fatto non è previsto dalla legge come reato per un’altro). Alla lettura del dispositivo hanno assistito anche Tronca e Casullo affiancati dal loro difensore, l’avvocato Denis Lovison. Il legale, al termine dell’udienza, ha espresso la propria soddisfazione per l’esito del processo a carico dei due poliziotti. “La decisione del tribunale – è stato il commento a caldo – ridona dignità e un po’ di serenità ai miei assistiti, operatori di polizia penitenziaria che hanno prestato servizio per oltre trent’anni nel corpo. Una serenità che avevano perso da quanto è iniziato questo processo. Siamo a maggior ragione soddisfatti – ha concluso il legale – visto il momento non particolarmente favorevole per la polizia penitenziaria. Il tribunale si è dimostrato imparziale nell’emettere il verdetto arrivato al termine di un dibattimento lungo e difficile”.
Salgono i positivi nel carcere di Bari e sale la protesta dei detenuti
“Non siamo dei cani”, dopo il focolaio Covid protestano i detenuti del carcere: urla, fumo e lancio di carta igienica dalle celle
“Bisogna tutelare il loro diritto alla salute – spiega la moglie di uno dei detenuti – Mio marito è positivo e tenuto al momento in cella di isolamento”. Sono saliti a 20 i positivi all’interno della struttura.
Protesta in corso nel carcere di Bari dopo l’aumento dei positivi per il focolaio Covid all’interno della struttura. Dal primo pomeriggio i detenuti stanno battendo oggetti sulle sbarre delle celle per fare rumore all’esterno, oltre a lanciare carta igienica dalle finestre e dare fuoco a oggetti, visto il fumo che si nota salire dall’istituto penitenziario. “Non siamo dei cani” urlano i detenuti dalle finestre delle celle.
“Mio marito è positivo, tenuto al momento nella cella di isolamento – racconta la moglie di uno dei detenuti – Queste persone hanno bisogno di assistenza, bisogna rispettare il diritto alla salute”.