Torture senza fine nelle carceri israeliane: gli ex detenuti raccontano l’isolamento

Da infopal

Quds Press. Sono molte le forme di abusi attuate dall’occupazione israeliana contro i prigionieri palestinesi, come torture fisiche, trasferimenti arbitrari tra le varie carceri, sospensione delle visite familiari e divieto di acquistare beni di primaria necessità, oltre a forme di tortura psicologica che culminano nella detenzione in celle di isolamento.
Lo ‟stato di isolamento” interrompe per lunghi periodi i contatti dei detenuti con le loro famiglie, inasprisce la loro condizione di prigionieri, privandoli delle più elementari necessità vitali, e rappresenta, inoltre, una flagrante violazione dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, il quale vieta la reclusione individuale o il trasferimento collettivo, oltre alla deportazione di individui, dalle terre occupate alle terre del potere occupante. Come possono quindi essere isolati in modo così arbitrario per lunghi anni o mesi?

In tale contesto, tre prigionieri palestinesi, liberati in seguito all’‟accordo bilaterale Wafa Al-Ahrar”, nel 2011, hanno raccontato a Quds Press con dettagli piuttosto accurati i momenti che hanno vissuto durante l’isolamento, circondati da sbarre di ferro e acciaio e totalmente separati dall’esterno.

In isolamento il tempo si ferma.
L’ex detenuto Mohammed Taqatqa ha trascorso circa quattro anni in isolamento, dopo una segnalazione fatta dai servizi segreti dell’occupazione contro di lui, con l’accusa falsa di dirigere azioni di resistenza militare dall’interno del carcere. L’amministrazione penitenziaria lo ha isolato dalla sua famiglia e gli permetteva solo un’ora d’aria al giorno, in un piccolo cortile fuori dalla cella, circondato da alte mura, coperto in alto da reti di ferro, e tutto questo comunque con le gambe legate.

Taqatqa ha descritto la cella di isolamento dicendo che è “così piccola che non puoi muoverti all’interno”, aggiungendo che “la luce del sole non riesce ad entrarci, e senti che il tempo si è fermato completamente, non ha più alcun valore, è scandito solo dagli orari dei pasti”.

Secondo Taqatqa l’occupazione persegue una “politica di isolamento”, con l’obiettivo di spezzare il morale del prigioniero palestinese ed esporlo a maggiori pressioni psicologiche. Ha anche affermato che “il carceriere israeliano attua una politica di vendetta contro gran parte dei prigionieri, con l’obiettivo di tenerli ben lontani dagli altri detenuti”.

Un’agonia senza fine.
Un altro contributo viene dall’ex detenuto Nizar Ramadan, nato a Nablus, nel nord della Cisgiordania, che ha raccontato del suo isolamento durato tre anni. Dopo aver tentato di evadere dalla prigione militare di Ashkelon, ha affermato che l’occupazione lo ha sottoposto a numerosi e gravi tipi di tortura psicologica, trasferendolo da un carcere all’altro in condizioni disumane.

Ramadan, che è stato deportato nella capitale del Qatar, Doha, ha affermato che trasferirsi in una cella di isolamento significa “una continua agonia senza fine, come se si fosse trasferiti da un carcere ad un altro, ma ben più crudele e ingiusto” e “l’amarezza per l’ingiustizia si intensifica quando ricordi che l’isolamento è la punizione per il tuo tentativo di liberarti dal carcere per raggiungere la libertà”.
Ha anche affermato che la condizione di tormento dell’isolamento lo ha accompagnato dalla prigione di Beersheba alla prigione di Shata, dove è stato ammanettato al posto di due altri detenuti all’interno di una cella in cui i soldati avrebbero deliberatamente fatto irruzione durante i momenti di riposo e di sonno per fargli pressione psicologica, mentre il resto dei detenuti comuni riposava.

Ramadan è passato dalla durezza della cella di Shatta alla prigione denominata “la tenda oscura”, accanto al carcere di Beersheba, dove è stato sottoposto a sistematiche torture psicologiche e fisiche da parte dell’amministrazione penitenziaria. È stato molestato deliberatamente, fatto stare con detenuti comuni e agenti israeliani in una stanza, piuttosto caratteristica per la sporcizia e le ridotte dimensioni.

Ramadan ha spiegato che tra le violazioni commesse nei suoi confronti, gli è stato impedito di essere visitato dalla sua famiglia, gli è stato vietato di acquistare beni di prima necessità, gli sono stati confiscati tutti i suoi effetti personali, e gli è stato impedito di preparare i pasti, ricordando che è stato poi trasferito al carcere di Ashkelon, dove è stato sottoposto a torture psicologiche e fisiche ancora più gravi.

Eliminare i diritti umani di base.

Da parte sua l’ex detenuto Khuwaylid Ramadan ha trascorso circa cinque mesi in isolamento nella prigione di Ashkelon, ed è riuscito a porre fine alla propria condizione dopo aver partecipato a uno sciopero dei prigionieri.

Spiegando l’isolamento, Khuwailid ha detto: “Qua era più duro delle solite condizioni di isolamento. Ero solo nella sezione nonostante la presenza di altre tre celle d’isolamento adiacenti alla mia, e non ho mai incontrato altre persone, a meno che non portassero un criminale comune per punirlo all’interno di una delle celle di isolamento, ma rimaneva per due o tre giorni e poi lo trasferivano‟.

Ha sottolineato che la causa principale del suo isolamento è dovuta ad una falsità, che può essere definita pretestuosa, escogitata dal direttore della prigione di Al-Jalama, che ha trovato dei documenti nella sua borsa mentre veniva portato in tribunale, documenti che sono definiti come un “testamento scritto dal prigioniero Nizar Ramadan”, quando invece era un testo di carattere palesemente umoristico e comico.

Khuwaylid ha aggiunto che “il direttore ha inviato questo documento alla direzione della prigione di Ashkelon, e lì mi hanno accusato di voler uccidere un poliziotto, e in più di voler ottenere il martirio, anche se l’intero argomento del testamento era solo un palese scherzo.

“In un primo momento, non mi hanno messo nelle stanze di isolamento ufficiale, poiché sono rimasto per circa 40 giorni in una cella che è nota per essere una punizione ma non un isolamento, larga un metro, lunga due metri e mezzo, e può ospitare un solo materasso, senza ovviamente servizi igienici”.

Ha spiegato di essere poi passato all’isolamento ufficiale nel carcere di Ashkelon, affermando che “è uno strumento punitivo utilizzato dall’amministrazione delle carceri di occupazione per annichilire i diritti basilari dell’essere umano, il più importante dei quali è vivere con gli altri, poiché l’uomo è per sua natura una creatura sociale”.

Traduzione per InfoPal di Giovanni Bilanci

Violenze nel carcere di Ferrara: lo stato assolve sé stesso e i suoi servi infami

Tutti assolti da tutte le accuse. Si è concluso così il processo sulle presunte violenze in carcere a carico di due agenti di polizia penitenziaria, l’ispettore capo Roberto Tronca e il sovrintendente capo coordinatore (oggi in pensione) Geremia Casullo. I due erano accusati di diversi reati, due in concorso e gli altri contestati al solo Tronca. Le accuse (sei in tutto i capi di imputazione) andavano dalla tentata violenza privata all’abuso di mezzi di coercizione passando per l’istigazione a commettere danneggiamenti e resistenza a pubblico ufficiale. Secondo le accuse, i poliziotti avrebbero percosso e minacciato un detenuto per avere informazioni e, il solo ispettore, avrebbe spinto alcuni ristretti a commettere illeciti. Nella penultima udienza, il pubblico ministero Isabella Cavallari aveva chiesto la condanna a un anno e tre mesi di reclusione per entrambi gli imputati per due capi di imputazione (tentata violenza privata e abuso di mezzi di coercizione, entrambi in concorso) e l’assoluzione per i quattro contestati al solo ispettore.

Ieri pomeriggio, al termine di un lungo e complesso dibattimento, il giudice Silvia Marini ha letto la sentenza di assoluzione per ogni singolo capo di imputazione, seppure con formule diverse (per non aver commesso il fatto relativamente a quattro capi di imputazione, perché il fatto non sussiste per uno e perché il fatto non è previsto dalla legge come reato per un’altro). Alla lettura del dispositivo hanno assistito anche Tronca e Casullo affiancati dal loro difensore, l’avvocato Denis Lovison. Il legale, al termine dell’udienza, ha espresso la propria soddisfazione per l’esito del processo a carico dei due poliziotti. “La decisione del tribunale – è stato il commento a caldo – ridona dignità e un po’ di serenità ai miei assistiti, operatori di polizia penitenziaria che hanno prestato servizio per oltre trent’anni nel corpo. Una serenità che avevano perso da quanto è iniziato questo processo. Siamo a maggior ragione soddisfatti – ha concluso il legale – visto il momento non particolarmente favorevole per la polizia penitenziaria. Il tribunale si è dimostrato imparziale nell’emettere il verdetto arrivato al termine di un dibattimento lungo e difficile”.