GENOVA 21 NOVEMBRE: MOMENTO SOLIDALE IN PIAZZA E DUE TESTI SULLA SORVEGLIANZA SPECIALE

il mese di novembre in corso, come molti sapranno, si presenta come ricco di sgraditi appuntamenti nei tribunali delle nostre città.

A Genova il 18 novembre si è svolta l’udienza per l’operazione Prometeo. Beppe, Natascia e Robert sono stati tutti rinviati a giudizio, nonostante le perizie e nonostante Robert sia stato già liberato. Sempre a Genova il giorno 24 si terrà un’udienza relativa al posizionamento di un ordigno nei pressi di una Posta della città di Genova nel 2016, fatto per il quale Beppe è l’unico accusato. Poste italiane in quel periodo subivano attacchi in tutta la penisola a causa della collaborazione nell’espulsione degli immigrati attraverso la compagnia Mistral Air oggi Poste Air Cargo.

Sempre il 24, a Torino presso l’Aula Bunker delle Vallette si terrà la sentenza in Appello per il processo Scripta Manent che vede imputati una ventina di compagni anarchici per i quali l’accusa chiede la condanna senza il riconoscimento di nessun tipo di attenuante.

A Genova mercoledì 25 si terrà l’udienza per la richiesta da parte della Procura di Sorveglianza Speciale nei confronti di una compagna anarchica. Il PM Manotti sostenuto dai Carabinieri del Ros e dalla Direzione Antimafia e Antiterrorismo (D.D.A.A) richiede l’applicazione di questo spregevole provvedimento per 5 anni con il pretesto dell’altissima pericolosità sociale della compagna in questione, basata di fatto (come tutte le volte che viene sostenuta la necessità della SS) sulle idee e sulle intenzioni.

In questo periodo in cui l’intensificazione del controllo viene agevolata dall’emergenza sanitaria e la repressione di qualunque forma di dissenso applicata senza tregua, compagne e compagni continuano ad essere processati e sottoposti ad infami misure coercitive in un’ottica di esclusione di tutti gli anarchici sempre più capillare.
Per far sentire la nostra vicinanza e la solidarietà a tutti i compagni sotto inchiesta in questo periodo diamo appuntamento per un momento in piazza.

Ci si vede:

SABATO 21 NOVEMBRE ALLE ORE 15 IN PIAZZA BANCHI (Caruggi, Genova)

In Allegato due testi riguardo alla Sorveglianza Speciale appena richiesta in città.

OGNUNO SCELGA DA CHE PARTE STARE

Ormai l’hanno capito anche le pietre che le attuali misure di contenimento della libertà imposte dai vari DPCM poco hanno a che fare con l’emergenza sanitaria in atto, mirano invece a svuotare le strade delle città da qualsiasi attività che non sia produttiva e funzionale al sistema, spianare qualunque dissenso, zittire le voci fuori dal coro dei privilegiati benpensanti, strozzare il conflitto sociale.

Non c’è bisogno di troppe analisi politiche, basta osservare semplicemente la realtà che si presenta brutalmente ai nostri occhi: al di là della retorica del “andrà tutto bene”, dello sforzo comune richiesto per il “bene di tutti”, con o senza pandemia, c’è un solo aspetto nel quale lo Stato si distingue per la sua solerzia, quello repressivo.

Si moltiplicano i divieti, sempre più assurdamente indipendenti da qualunque evidenza riguardo all’emergenza sanitaria, si moltiplicano a dismisura i numeri delle forze dell’ordine nelle strade, si moltiplica l’arroganza e la violenza con cui costoro pretendono di imporre le più restrittive limitazioni alla libertà individuale.

Nella nostra città si distingue ultimamente, tra gli altri, l’operato della Polizia Locale: il contagio virale da Covid ha operato in costoro una curiosa e mostruosa trasformazione, da impiegatucci pizzardoni compilamulte si sono trasformati in tracotanti sceriffi che spadroneggiano a destra e manca…

ma non è sicuramente un caso! Sono proprio loro l’espressione più diretta e genuina della spocchiosa ed inutile marmaglia di nuovi e vecchi politicanti che si è insediata al governo di questi territori.

In questo clima così disteso, alla fine di ottobre, vengo gentilmente omaggiata dalla Questura e dalla Procura della Repubblica di Genova di una richiesta di “sorveglianza speciale”, una tra le più pesanti fra le misure di prevenzione: nel mio caso prevederebbe il rientro notturno al domicilio, il divieto di uscire dal territorio comunale, il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche, il divieto di incontrare pregiudicati o persone sottoposte a misure preventive, il tutto per la durata di 5 anni, pena l’arresto in caso di violazione.

La data del giudizio viene fissata in uno stretto lasso di tempo.

La sorveglianza speciale viene applicata indipendentemente dal fatto di aver compiuto o no reati specifici ma sulla base di un profilo che le forze dell’ordine stilano a proposito del soggetto, che comprende un giudizio generico sulla sua condotta di vita da cui emergerebbe l’evidente (a loro dire!) pericolosità sociale della persona, tale da doverla sottoporre a misure di prevenzione, cioè prima del compimento di qualsiasi atto, cioè evidentemente un processo alle idee e alle intenzioni.

E questa richiesta, da cui scaturirebbe una misura di così rilevante limitazione della libertà individuale, non ha bisogno di essere supportata da prove, a cosa servono le prove! il giudice decide esclusivamente sulla base del profilo che le forze dell’ordine dipingono.

In questo caso la pericolosità sociale che mi viene ascritta, al di là delle tinte fosche che il pubblico ministero Manotti, polizia e Ros spandono a profusione, consiste nell’ideale che sostengo e che mi sostiene, l’anarchia; consiste nell’aver diffuso e promosso idee che coniugano il pensiero e l’azione nella rivendicazione della libertà di autodeterminazione dell’individuo e nell’urgenza di abbattere questo sistema politico ed economico profondamente ingiusto e le discriminazioni che produce; nell’aver praticato solidarietà e sostegno nei confronti degli anarchici imprigionati dallo stato.

Non stupisce il fatto di essere oggetto di questa richiesta di restrizione, è sempre stata manifesta la mia posizione sul campo del conflitto sociale, sempre dal lato opposto a quella dei cani da guardia dello stato.

Ed è evidente la sua funzione, far fuori chi dia voce al dissenso, evitare pericolose contaminazioni.

Non è certo la prima volta che qualcuno viene sottoposto a questo genere di misura o rischia di esserlo.

Io, nel caso, come molte altre compagne e compagni hanno fatto prima di me, affronterò al meglio delle mie intenzioni le conseguenze delle idee in cui mi riconosco.

Riflettendo su tutto questo mi sorge, malgrado tutto, un pensiero…stupendo, una sfida contro il condizionamento del giogo quotidiano che di questi tempi è ancora più pesante: che nelle strade, nelle piazze, sui sentieri si riversino in sempre più, insieme o da soli, nell’ombra o in piena luce, a violare senza compromessi le regole e i divieti di questo surrogato di vita che lo stato vorrebbe imporre, con il cuore e l’intenzione fissi sull’orizzonte da raggiungere, la libertà.

Una che non si ravvede

SS A ZENA


Lettera di Francesca dal carcere di Latina sulla situazione Covid19.

22 ottobre 2020

Mentre bevevamo il caffè dopo pranzo, nella cella dove faccio socialità, sentiamo dai passeggi delle voci maschili, il che è molto strano. Ci affacciamo dunque alla finestra e vediamo diverse persone, tra alcune prigioniere del piano di sotto, infermierx, guardie, comandante, medico e direttrice. Dev’essere successo qualcosa, non l’avevo mai vista da quando sono qui! Sentiamo discorsi un pò

sconnessi, concitati, una delle detenute piange e urla, ma non capiamo bene, sentiamo parole come “tampone”. Ecco, ci siamo, pensiamo e ci diciamo. É arrivato: il virus è tra noi. Dopo qualche minuto, sale uno con qualche grado, ci fanno uscire tutte dalla cella (con la mascherina!) e ci fanno

stare in corridoio: davanti a noi compaiono l’ispettrice, la direttrice e qualche sgherro. Ci dice in due parole che qualcuna di noi è stata in contatto con uno della scorta che ha avuto la risposta del tampone positivo, e quindi la metteranno in quarantena, e così alla sua concellina. Chiediamo chi sono, e ce lo dice. Proviamo a dire qualche parola, niente, arrivederci e grazie.

Quindi la storia è che questa donna è andata all’ospedale per una visita, e quello della scorta era asintomatico e la risposta del tampone di due giorni fa è arrivata oggi. Queste sono le news

sull’argomento della giornata.

Un giorno, un paio di settimane fa, ci chiamano a tutte e ci fanno il tampone. Lo faccio anche io. Prima chiedo di parlare con “qualcunx che conti qualcosa”, pongo le mie domande, sulle incoerenze della quarantena tra le nuove giunte (che avevano detto che per covid non sarebbero arrivate e dopo di me saranno venute almeno 15), sulla mancanza di informazioni che abbiamo, perché non viene nessunx a dirci niente, lx infermierx e le guardie ci danno informazioni diverse, ecc. fiato sprecato, come prevedibile.

Non ci hanno mai dato i risultati. Dopo dieci giorni, chiamano tre di noi per rifare il tampone: panico! Anche qui, informazioni discordanti sul perché. Alla fine viene l’ispettrice, ci racconta una storia, e poi si finisce a parlare d’altro. Io vado dal medico, mi fa vedere il mio risultato, mi dice che i tamponi delle tre in questione erano contaminati e quindi li hanno rifatti. Nel frattempo, si era scritto alla direttrice per porle alcune questioni, tra cui il fatto che abbiamo bisogno di informazioni sui rischi che corriamo per tutelare la nostra salute.

Ho cercato di fare un breve quadro generale, per far emergere uno dei dispositivi che sappiamo essere necessari al potere – in un caso come il covid, s’è visto anche fuori dal carcere, è notevole – : il controllo dell’informazione. Non potendo tenerci tutto nascosto, confondono. Noi vediamo il TG, e sappiamo cosa ci dicono per lettera o al telefono, abbiamo ovviamente una versione parziale e allarmistica.

C’è da qualche settimana una tensione palpabilissima, preoccupazione per sé, per lx proprx carx fuori, per figlx che hanno la propria madre in galera e non hanno i suoi consigli – e manco del padre, perché quasi tutte le donne che sono qui hanno marito, compagno, padre e a volte sorelle, madri, figlx grandx anche loro in carcere. Come potete immaginare, moltx delle figure che vengono qui, comprese le guardie, non sempre hanno la mascherina. E molte delle prigioniere hanno

condizioni di salute non buone, soprattutto quelle che sono qui da anni, problemi ai polmoni, al cuore per citare i più relativi al covid. L’altro lato della medaglia sono le comunicazioni con l’esterno. Noi al momento abbiamo quattro colloqui in videochiamata al mese di venti minuti l’uno dei quali due possono essere sostituiti da due colloqui visivi di un’ora l’uno, con vetro e citofono, e due chiamate al mese di dieci minuti l’una (chi ha figlx minorx ne ha di straordinarie). Prima

del covid erano quattro colloqui di un’ora al mese. Il Dap ha dato disposizioni di aumentare le comunicazioni con il fuori per l’emergenza sanitaria, ricordiamo le rivolte di marzo in molte prigioni, ma qui ce le hanno diminuite. Qui sostengono che il ministero ha dato loro tot. giga per maschile e femminile, e quindi solo quelli possiamo avere. Se così fosse, tutte queste nuove che sono arrivate, con che giga fanno la video? Se non c’era il personale (cosa che ci viene detta) come si facevano a fare le ore di colloquio in presenza prima? E perché vengono altre detenute se

non ci sono le strutture e le guardie? Non si sa. Si è in una situazione di stallo.

Voglio dire qualche parola su queste videochiamate. Prima del covid in carcere non esistevano. Ora invece si fanno pure tra carcere e carcere e qualcuna delle donne che sono qui è riuscita a “vedere” per la prima volta dopo diversi anni figlx, mariti, familiari rinchiusx in altre prigioni, così come familiari che per ragioni di salute non potevano spostarsi per i colloqui. Molte anche dopo che hanno riaperto i colloqui visivi, dopo mesi che erano chiusi, hanno preferito non far venire lx loro

carx, soprattutto lx bambinx perché è traumatico per loro vedere la mamma nell’acquario. Si è inaugurata così una nuova fase, come è successo in altri ambiti della società, dove alla presenza è sostituita la comunicazione tecnologica. In carcere è ovviamente molto più [incomprensibile], visto che è l’unico momento di scambio quello del colloquio, ciò che aspetti tutta la settimana con ansia ed impazienza.

Presidio a San Vittore e iniziativa sulla latitanza-Milano/sabato 21

ORE 11 PRESIDIO AL CARCERE DI SAN VITTORE A MILANO

Per portare solidarietà a tutte e tutti i reclusi e a coloro che sei mesi fa si sono coraggiosamente rivoltati e ora sono accusati di reati gravi come devastazione e saccheggio.
Per far sentire la nostra vicinanza a chi si è visto negare nuovamente i colloqui a causa del Covid, ma è costretto a stare a stretto contatto con le guardie, principale vettore del virus all’interno delle strutture, in una situazione di forte affollamento.

ORE 16 DISCUSSIONE SULLA LATITANZA, ALLA CASA OCCUPATA IGLESIAS, in via Iglesias 29 .

In solidarietà con chi ha scelto la strada della latitanza per sfuggire alla repressione e per far sì che questa possibilità non venga accantonata.
Proviamo a parlarne per quanto è possibile.
Gli interventi scritti di chi non può essere presente e la partecipazione di chi ha fatto in passato questa esperienza, forniranno la base per discutere.
Tante sono anche le persone senza “il giusto” documento, come gli immigrati, che devono ogni giorno eludere i sistemi di controllo e sorveglianza.
Partendo da queste esperienze, e con l’aiuto di compagni medici ed infermieri, proveremo anche ad introdurre la possibilità di una latitanza dal controllo sanitario.

In apertura dell’incontro presentazione del libro “In Incognito”, con i curatori della CASSA ANTIREPRESSIONE DELLE ALPI OCCIDENTALI.

DUE SETTIMANE DI MOBILITAZIONE PER GLI ANARCHICI E LE ANARCHICHE SOTTO PROCESSO E PER LA LIBERTÀ DI TUTTE E TUTTI I PRIGIONIERI NELLE CARCERI.
Nei mesi autunnali saranno diversi i processi che coinvolgeranno centinaia di anarchici e anarchiche.
In queste inchieste PM e giudici vogliono processare l’ideale anarchico. Ridurre le differenti tensioni e pratiche in farraginosi schemi giuridici – come l’odiosa e patetica divisione tra un anarchismo “buono” e uno “cattivo” – ha lo scopo di reprimere con decenni di carcere chi lotta.
In un periodo storico in cui le condizioni di vita imposte sono sempre più dure è fondamentale lottare. Rispondere alla violenza dello Stato, al regime di oppressione che vorrebbe imporre e al tentativo di attaccare chiunque esprima solidarietà a chi ha già scelto da che parte stare.
Porteremo alle nostre compagne e ai nostri compagni vicinanza e complicità ma non solo nelle aule di tribunale: lanciamo due settimane di mobilitazione dal 9 al 24 novembre, un’occasione per creare momenti di solidarietà attiva nelle piazze, nelle strade e ovunque si voglia esprimere.
AL FIANCO DI TUTTE LE ANARCHICHE E GLI ANARCHICI SOTTO PROCESSO
CONTRO IL CARCERE E PER LA LIBERAZIONE DI TUTTI/E I/LE PRIGIONIERI/E
TUTTE E TUTTI LIBERI

20/11 Trento – PORTIAMO IN STRADA LA VOCE DEI DETENUTI

I DETENUTI DEL CARCERE DI SPINI DI GARDOLO VOGLIONO FAR SAPERE ALL’ESTERNO QUESTE NOTIZIE
Venerdì 13 novembre un detenuto ha dato fuoco alla propria cella e si è dato fuoco. E’ stato portato via in ambulanza. Il gesto è motivato dal rifiuto, da parte delle guardie, di dargli gli effetti personali portati dalla moglie.
La posta è bloccata in entrata e in uscita.
I pacchi non entrano.
La direzione non da informazioni sui contagi (i detenuti parlavano di 6 o 7 positivi, alcuni parenti invece di oltre una sessantina).
I positivi vengono sbattuti nelle celle di isolamento punitivo o trasferiti in altre carceri.
Da settimane i colloqui con i famigliari sono completamente sospesi.
Solo dopo due settimane da quando si è saputo dei primi contagi sono stati fatti i tamponi ai lavoranti, che nel frattempo hanno dovuto continuare a girare per tutte le sezioni.
Per due settimane i medici non si sono visti e solo dopo una settimana di battiture si è ripresentato il personale sanitario.
I detenuti con patologie che necessiterebbero di trattamenti specifici non vengono seguiti in alcun modo, mentre vengono abbondantemente distribuiti psicofarmaci per mantenere deboli e sedati i detenuti.
I magistrati di sorveglianza (responsabili, con i loro rifiuti, di tre suicidi negli anni passati) continuano a non concedere misure alternative a chi ha i requisiti per accedervi.
Giudici e magistrati trattano i detenuti con intrinseco razzismo: a parità di situazione, se sei bianco e hai un cognome italiano hai più probabilità di uscire o accedere a misure alternative.

 
VENERDI’ 20 NOVEMBRE ALLE 17.00 IN PIAZZA D’AROGNO (TRENTO)
PORTIAMO IN STRADA LA VOCE DEI DETENUTI
Per rompere l’isolamento, voci e immagini dal carcere di Spini di Gardolo.
9 – 24 novembre mobilitazione contro il carcere, per la libertà di tutti i prigionieri, in solidarietà con chi lotta dentro e fuori le galere

Covid nelle carceri, situazione esplosiva e sciopero della fame a Busto Arsizio. Una petizione on line da diffondere

Un centinaio di detenuti del carcere bustocco ha iniziato una protesta con sciopero della fame per chiedere misure alternative e più telefonate con i parenti

La situazione nel carcere di Busto Arsizio sta emergendo in tutta la sua drammaticità. In alcune celle della struttura di via per Cassano Magnago è iniziato uno sciopero della fame da parte di un gruppo di detenuti che, tramite i loro legali, hanno fatto avere alle testate giornalistiche un testo che racconta il grande disagio che si sta vivendo nelle anguste celle delle realtà penitenziarie come quella di Busto Arsizio che già da anni soffre una situazione di sovraffollamento.

I detenuti chiedono la valutazione e l’accelerazione delle decisioni sulle misure alternative al carcere, colloqui telefoni giornalieri con i parenti, scarcerazioni anticipate dove possibile e risoluzione dei problemi di chi ha figli minori a carico.

Il quadro è il seguente: 174 detenuti contagiati, accolti in gran parte nei Covid hub di San Vittore e Bollate, 11 ricoverati e 142 operatori in quarantena fiduciaria per positività o contatti con persone risultate positive.

Qui una petizione da condividere e sottoscrivere:

Il diritto alla salute è di tutti, nessuno escluso.

Fin dall’inizio della pandemia avevamo già rivolto alle SS. VV. un appello affinché venissero adottati provvedimenti straordinari per la popolazione detenuta che la mettesse al riparo dal rischio contagio e diffusione del virus, consapevoli sia dei limiti della sanità penitenziaria -già in condizioni di normalità-, sia del sovraffollamento cronico che impedisce, di fatto, il distanziamento sociale che la trasmissibilità del Covid 19 impone quale misura primaria di prevenzione.

Nell’appello facevamo riferimento soprattutto a quella parte di popolazione detenuta maggiormente vulnerabile se esposta a contatti con soggetti contagiati: anziani e ammalati; d’altra parte, le linee guida elaborate dall’OMS e dal Centro di prevenzione e controllo delle malattie europeo, e le raccomandazioni del CPT sulla gestione dell’emergenza Covid per le persone detenute e internate, sono chiarissime e sottolineano la preminenza del diritto alla salute di ognuno senza distinzioni di sorta.

Preminenza sancita dalla nostra Costituzione all’art. 32 che, ricordiamo, è l’unico diritto qualificato quale fondamentale, e finanche dal Codice Penale del 1930 agli articoli 146 e 147 che determinano la recessione della potestà punitiva dello Stato a fronte del diritto alla salute, ed è azione obbligatoria nei casi individuati ai sensi dell’art. 146.

Sottolineiamo che lo Stato italiano è obbligato ad attenersi alle raccomandazioni elaborate dagli organismi internazionali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione.

Alle indicazioni fornite dagli esperti della realtà penitenziaria sin dalla fine di febbraio (sindacati di polizia penitenziaria, garanti, operatori del diritto e della giustizia, associazioni), ovvero ridurre sensibilmente il sovraffollamento e sostituire la misura detentiva con la detenzione domiciliare o ospedaliera per tutti i soggetti portatori di determinate patologie – sì da poter gestire l’eventuale, e purtroppo verificatasi, emergenza-, questo governo, e questo parlamento, hanno preferito seguire le sirene del populismo penale agitato da alcuni media a scapito dello Stato di diritto e della salute della comunità penitenziaria che oggi, purtroppo, conta oltre 1300 persone contagiate tra detenuti e operatori, con un trend in crescita costante che sta colpendo indistintamente la popolazione detenuta finanche nelle sezioni di 41bis che qualcuno, pretestuosamente, aveva dichiarato immuni da possibili contagi.

I numeri e la velocità con cui si sta diffondendo il virus nelle carceri non possono essere né sottovalutati né subordinati al titolo del reato, trattandosi del diritto alla salute che la nostra Costituzione e le leggi primarie tutelano sopra ogni altro diritto indistintamente per ciascun cittadino; diversamente si andrebbe a configurare la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cosa per la quale più volte l’Italia è già stata condannata.

Gli istituti di legge per evitare che la situazione degeneri ulteriormente sono già in essere, basta applicarli (senza temere di dover rispondere alle pretestuose campagne portate avanti dai media) rispondendo all’emergenza sanitaria con gli strumenti necessari.

Vista la drammatica emergenza sanitaria che sta colpendo la popolazione tutta riteniamo che le misure di prevenzione adottate rispetto alla popolazione detenuta siano assolutamente inadeguate a fronteggiare una situazione che sta mettendo a rischio l’intera comunità penitenziaria. Va tenuto conto che il 50% circa della popolazione detenuta ha una età compresa tra i 40 e gli 80 anni, oltre il 70% presenta almeno una malattia cronica e il sistema immunitario compromesso. È del tutto evidente che la diffusione del virus all’interno delle carceri rischia di assumere dimensioni catastrofiche. Abbiamo visto che limitare o proibire i colloqui familiari, l’accesso dei volontari e i permessi di uscita non ha messo al riparo dalla diffusione dei contagi. Quello che si è creato, e che va crescendo di ora in ora, è un clima di paura e insicurezza nella popolazione detenuta, fra i familiari e il personale penitenziario che comunque è obbligato a garantire il servizio.

Gli istituti penitenziari sono a tutti gli effetti luoghi pubblici, sovraffollati e promiscui, con un via vai continuo di personale e fornitori che sta scatenando una vera epidemia. Pertanto non bisogna dimenticare che la popolazione detenuta, al pari del resto della popolazione, è tutelata dalla Costituzione e dalle carte internazionali dei diritti umani.

Chiediamo che si intervenga con un provvedimento immediato di sospensione della pena per tutte le persone detenute ammalate ed anziane ai sensi degli articoli di legge; chiediamo che il Parlamento vari urgentemente un’amnistia per la rimanente popolazione detenuta, per poi iniziare a pensare un sistema di pene che non calpesti la dignità umana ma dia senso e sostanza a quell’art. 27 della Costituzione troppo spesso dimenticato e calpestato.

http://www.osservatoriorepressione.info/appello-2/?fbclid=IwAR2hlAmmWK4s5LHsbIpTStb215ATQsffpCssS2HVSXMPrlKHrgR1PEkwraE

16 novembre 2020

continua la repressione contro i compagni e le compagne del TKP/ML in Germania

Anche dopo il verdetto di luglio contro i dieci rivoluzionari accusati 
di appartenenza al TKP / ML,lo stato tedesco continua la sua repressione 
in modo apertamente arbitrario e  anticomunista
 Contro il Dr. Sinan Aydin, che vive e  e lavora in Germania dal 2012, 
e il Dr. Dilay Banu Büyükavcı, 
 attiva in Germania come psichiatra dal 2004,contro cui 
è stato avviato a un procedimento di espulsione a Norimberga 

un appello per i prigionieri politici sarahoui detenuti e torturati in marocco

Carta aberta dirixida á Comunidade Internacional a propósito dos presos políticos saharauis do grupo de Gdeim Izik, no cadro da inminente revisión do seu caso e ante a crise humanitaria causada pola COVID-19.

 

 

 

Pasaron máis de dez anos desde a detención e encarceramento ilegal dos 25 activistas saharauis do acampamento de protesto pacífico de Gdeim Izik, nos arredores do Aaiún, Sáhara Occidental. O exército ocupante marroquino someteu a control e ataque o acampamento até desmontar violentamente o 8 de novembro de 2010.

Como consecuencia daquelas accións a poboación saharaui foi vítima de graves violacións de dereitos humanos. As forzas de ocupación marroquinas declararon 11 baixas entre as súas fileiras, baixas que a día de hoxe non puideron ser probadas, non existe exame médico forense e non constan os seus certificados de defunción.

Os activistas saharauis, hoxe en prisión por aqueles feitos, foron sometidos a diferentes procedementos xudiciais, inclusivamente militares, en Marruecos. O último terminou co ditado dunha sentenza en xullo de 2017, que reiterou as altas condenas de cárcere que van desde os 20 anos de cárcere até a prisón perpetua. Na actualidade, 19 deles permanecen recluídos en prisións marroquinas distantes entre 500 e 1.200 quilómetros do Aaiún, cidade de onde son a maioría deles e onde viven as súas familias.*1

Hai que lembrar que diferentes instancias internacionais denunciaron a falta de garantías á que foron sometidos os acusados. Entre outros, o Comité contra a Tortura das Nacións Unidas, que despois de avaliar a súa situación emitiu unha decisión en que acusa Marrocos de violar varios artigos da Convención de Nacións Unidas contra a Tortura durante o proceso de interrogatorio dos acusados.

Estes procedementos xudiciais son ilegais ao carecer de competencia Marrocos por referirse a feitos e situacións cometidas fóra do seu territorio, o proceso é unha vulneración flagrante do Dereito Internacional e do consagrado dereito a tutela xudiciaria efectiva.

Na vista no Tribunal Ordinario de Apelación non existiu proba de cargo, as condenas estaban baseadas nun video aéreo en que nin sequer se recoñece os hoxe condenados, nin sequer é posíbel verificar o lugar da grabación, e nas confesións obtidas sob torturas, torturas que denunciaron desde o momento en que tiveron acceso a un avogado, polo que esas declaracións terían de ser declaradas nulas, conforme ao dereito internacional, mesmo conforme ao dereito interno marroquino. Non foron practicadas probas dactiloscópicas, nin exame de ADN, nin tan sequer se informou de onde foron encontrados os procesados, sendo preciso destacar que un deles foi detido no Aaiún o día antes do desmantelamento do acampamento e apesar diso, acusado de feitos acontecidos no día seguinte. Outra suma de razóns para a ilegalidade do proceso.

As autoridades marroquinas, conscientes da ilegalidade do proceso, puxeron empecillos á presenza de observadores internacionais; mesmo deportaron algúns dos observadores internacionais que se deslocaron para acudir ao xulgamento, o que acredita a falta de garantías e obscurantismo que rodeu todo o proceso.

Numerosas resolucións institucionais deploraron esta condena e como exemplo a resolución da XXIV Conferencia dos lntergrupos parlamentares “Paz e liberdade no Sáhara Occidental”; que representa os Parlamentos Autonómicos do Estado Español, dos días 14 e 15 de febreiro de 2020, reunida na sede do Parlamento de Cantabria, en que acordaron “transmitimos o noso afecto e solidariedade aos presos de Gdeim Izik que recibiron inxustas condenas nun proceso ilegal e sen garantías e esiximos a súa inmediata liberación e acompañamos ás súas familias na súa loita pola xustiza e a súa liberdade”. 2

Amnistía Internacional no seu relatorio “2017/2018, A situación dos DDHH no mundo”, inclúe este caso e cualifícao de inxusto.  Refire que “o tribunal civil non investigou debidamente as denuncias de que foran torturados sob custodia nin excluíu como proba información obtida supostamente mediante tortura”. Houbo denuncias de tortura e outros malos tratos baixo custodia policial tanto en Marrocos como no Sáhara Occidental. As autoridades xudiciarias non as investigaron debidamente nin esixiron contas aos responsabeis. As autoridades mantiveron varias persoas detidas en réxime de isolamento durante periodos prolongados, o que constitúe tortura e outros malos tratos?. 3

“No xulgamento a maioría dos acusados declararon ante o tribunal que os torturaran para conseguir que “confesasen”, se autoincriminasen ou incriminasen terceiros. “Se o tribunal realmente quixese proporcionarlles un xulgamento xusto, a estas alturas xa tería realizado unha investigación adecuada das denuncias de tortura ou excluído as probas cuestionabeis nas vistas”, declarou Heba Morayef, directora de Investigación de Amnistía Internacional para o Norte de África.

Human Rights Watch no seu relatorio “Marrocos/Sáhara Occidental Eventos de 2017” referiuse a este procedemento:

“Un novo xulgamento ante un tribunal civil de 24 saharauis acusados de participaren nas mortes de policías durante os confrontos de 2010 concluíu coa súa condena e foron pronunciadas longas sentenzas de prisión, un resultado similar ao do seu primeiro xulgamento perante un tribunal militar. O xulgamento estivo contaminado por aparentes violacións do debido proceso, como a aceptación de testemuños supostamente obtidos baixo coacción sen seren investigadas previa e adecuadamente as denuncias de tortura”. 4

A actual pandemia por Covid 19 aumenta a angustia das familias destes presos, as súas vidas corren grave perigo ao estaren expostos a situacións de vulnerabilidade extrema frente ao contaxio, lembramos que a Alta Comisionada das Nacións Unidas para os Dereitos Humanos, Michelle Bachelet, pediu reducir a poboación carceraria se for preciso para baixar os factores de risco. O Goberno marroquino adoptou medidas de liberación, con accións de graza e indulto a máis de 5000 presos, das que non se viron beneficiados os presos políticos saharauis.

O pasado día 4 de novembro, o Tribunal de Casación de Rabat, Marrocos, celebrou unha sesión en relación ao recurso de casación do caso, e ten previsto pronunciar sentenza definitiva sobre o mesmo no próximo 25 de novembro.

Por todo isto,

As entidades e persoas abaixo asinadas Manifiestamos e Solicitamos:

  • Á Súa Maxestade o Rei de Marrocos, D. Mohamed VI, a liberación dos presos saharauis do grupo Gdeim Izik que actualmente están nos cárceres marroquinos, outorgándolles a liberdade no cadro da presente crise humanitaria.
  • Ás Nacións Unidas, na persoa do seu Secretario Xeral António Guterres e da Alta Comisionada das Nacións Unidas para os Dereitos Humanos, Michelle Bachelet; á Unión Europea, na persoa do alto representante da Unión Europea para a Política Exterior, Josep Borrell; ao Goberno do Reino de España, como potencia administradora do Sáhara Occidental, que fagan seguimiento da situación dos presos políticos saharauis e esixan do Reino de Marrocos a inmediata liberación dos presos saharauis e que inicien as oportunas accións de investigación independente sobre as acusacións de tortura e pola detención ilegal da que foron vítimas.

 

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