Un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere è morto circa un mese dopo il giorno dei pestaggi. Per la Procura si è trattato di “morte come conseguenza di altro reato”, per le violenze e le successive mancate cure, ma il gip non ha accolto questa tesi optando per quella del suicidio con massiccia assunzione di farmaci.
Suicidio. È stato chiuso così il caso di Lamine Hakimi, algerino di 27 anni, morto nel maggio 2020 nella sezione Danubio del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Ma sulla scrivania del gip la sua storia era arrivata con un’altra versione: secondo la Procura l’uomo era un caso di “morte come conseguenza di altro reato”. Vale a dire: deceduto in seguito alle percosse e alle mancate cure in carcere. In particolare, l’uomo era tra i 15 detenuti del reparto Nilo classificati dalla Polizia Penitenziaria come pericolosi e per questo messi in isolamento dopo quella che il gip, nell’ordinanza, aveva definito “una orribile mattanza”.
Hakimi, affetto da schizofrenia, è deceduto per un arresto cardiocircolatorio, conseguente a un edema polmonare acuto, causato da una grossa quantità di farmaci (tra oppiacei, neurolettici e benzodiazepine) assunti “in rapida successione e senza controllo sanitario”. La morte risale al 4 maggio 2020, a distanza di quasi un mese dalle violenze perpetrate dagli agenti della Penitenziaria contro i detenuti del reparto Nilo. Agli altri detenuti in isolamento, si legge nell’ordinanza da 52 misure cautelari firmata due giorni fa dal gip, venne sospesa la somministrazione dei farmaci. Il giorno della morte del 27enne, inoltre, ci fu un’altra perquisizione personale, durante la quale gli agenti sputarono sui detenuti e li minacciarono di ripetere le violenze di poche settimane prima: “Mica è finita qua! Avete avuto la colomba, dovete avere ancora l’uovo di Pasqua!”.
La testa contro il pavimento
Durante quelle violenze, viene ricostruito nell’ordinanza, Hakimi aveva provato a ribellarsi: venne quindi preso con la forza dalla sua cella e picchiato con tale violenza durante il trasferimento da provocarne lo svenimento. L’algerino aveva sferrato un pugno ai poliziotti, che si erano quindi maggiormente accaniti: gli avevano schiacciato la testa contro il pavimento e lo avevano colpito alle gambe e alle costole mentre lo trascinavano per la maglia. “Lo hanno sfondato – aveva poi commentato un altro detenuto – stava così male che per 4 giorni non ha preso la terapia. Dopo 4 giorni si è svegliato e abbiamo parlato…”.
“Lucidamente consapevole della strategia punitiva che sta ponendo in essere il DAP nei miei confronti, e contemporaneamente offuscata di rabbia e disgusto, ho deciso che, se non ho mezzi per interpormi concretamente alle loro logiche vendicative, ho perlomeno la possibilità di non lasciarglielo fare con la mia collaborazione. Alla notizia del mio ritorno a S. Maria, alle h. 18.00 del 16.06.21, ho immediatamente comunicato l’inizio di uno sciopero della fame a tempo indeterminato. So che queste decisioni non competono alla direzione del carcere, ma io in questo posto di merda non intendo più mangiare un boccone”
Con queste parole il 16 giugno, alla notizia del nuovo trasferimento nel carcere di S. Maria Capua Vetere, Natascia ha intrapreso uno sciopero della fame a tempo indeterminato.
Natascia si trova in carcere da oltre due anni, accusata assieme ad altri due compagni, Beppe (anche lui imprigionato da oltre due anni) e Robert, dell’invio di buste esplosive all’ex direttore del DAP, Santi Consolo, e a due pm torinesi particolarmente dediti all’accanimento giudiziario nei confronti di compagne e compagni, Rinaudo e Sparagna.
Dal giorno del suo arresto, Natascia non ha mai subito passivamente le angherie dei suoi carcerieri: trasferimenti punitivi in luoghi improbabili e lontani dai propri affetti e dal proprio avvocato, impossibilità di comunicare in maniera adeguata con il proprio legale per riuscire a costruire una qualunque difesa processuale, processi in videoconferenza, censura e trattenimenti arbitrari sulla corrispondenza, strette sui colloqui e sull’ora d’aria, sulla musica, sui libri.
Stanno tentando in ogni modo di fiaccare la forza e la determinazione di Natascia, e nel contempo di lanciare un monito per chiunque decida di porsi di traverso con corpo, testa e cuore alle loro decisioni. Il suo trasferimento nel carcere di S. Maria Capua Vetere è solo l’ultimo degli stratagemmi vendicativi messi in atto dal DAP. Lo stesso carcere noto alle cronache per i brutali pestaggi e per le torture subite e testimoniate da diversi prigionieri e che ebbero luogo nell’aprile del 2020, a freddo e dopo una protesta nata in piena emergenza sanitaria per chiedere tamponi e pretendere le distanze sociali rese impossibili dal sovraffollamento carcerario. Lo stesso carcere che in questi giorni è noto alle cronache per la notizia di 52 misure cautelari emesse nei confronti di altrettante guardie penitenziarie proprio per quegli stessi fatti. (Qui il video dei pestaggi)
Natascia ha deciso di usare il suo corpo per non subire passivamente la lunga sequela di azioni infami che il DAP e la direzione del carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno deciso di adottare nei suoi confronti, e che proseguono incessantemente da quasi 4 mesi.
La corte d’assise di Genova ha deciso che il processo per l’op. Prometeo non può rallentare neppure di fronte ad un leso diritto alla difesa: the show must go on.
Venerdì 2 luglio, h: 8,30 vi sarà un presidio di solidarietà davanti al tribunale di Genova e Domenica 4 luglio ore 14, sotto il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in solidarietà con la compagna anarchica Natascia in sciopero della fame
e con tutti i detenuti e le detenute di quell’infame galera.
I filmati inediti, pubblicati da «Domani», delle violenze: carcerati in ginocchio umiliati con calci e manganelli Il video conferma la spedizione punitiva del 6 aprile 2020 nell’istituto penitenziario ‘Francesco Uccella’ di Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. In uno dei filmati pubblicati dal quotidiano «Domani» si vedono i detenuti che vengono fatti inginocchiare e vengono colpiti con calci, pugni e manganellate. Qualcuno è trascinato a forza, altri vengono picchiati con insistenza dopo essere caduti a terra. Detenuti costretti a spogliarsi e a restare nudi anche davanti agli agenti donna, pestaggi di gruppo, ispezioni anali col manganello, e poi i “cappottoni”: reclusi costretti a passare in un corridoio umano di agenti e bersagliati di colpi fino a restare senza fiato. Leggere le oltre duemila pagine di ordinanza dell’inchiesta che ha portato all’emissione di 52 misure cautelari per agenti della Polizia Penitenziaria e funzionari del Dap è scendere nell’inferno del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), quello che il gip che ha firmato le misure definisce “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania” e, senza mezzi termini, “una orribile mattanza”.
“Orribile mattanza”: il video shock delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicato in esclusiva su “Domani”
Un video shock è la prova regina dell’accusa. Nelle sequenze riprese dalle telecamere di sorveglianza pubblicate da Il Domani le scene che inchiodano gli agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella” il 6 aprile del 2020. Un pestaggio durato quattro ore che mostra nel video alcuni momenti salienti ripresi dal circuito interno e che hanno fatto firmare misure cautelari per 52 tra dirigenti e agenti della casa circondariale del Casertano.
Incappucciati e colpiti
Ecco che cosa si vede nelle riprese che risalgono al pomeriggio del 6 aprile dello scorso anno, quando, dopo le proteste dei detenuti (senza conseguenze) avvenute il giorno prima per chiedere mascherine e tamponi dopo il primo caso di Covid-19, arriva un vero e proprio raid punitivo che viene definito dai responsabili del carcere e annunciata ai detenuti come una “perquisizione generale straordinaria”.
Violenze in carcere, 52 misure cautelari per gli agenti. Il gip: “Orribile mattanza”
Nel video pubblicato da Il Domani, di cui molti frame compaiono negli atti giudiziari, c’è una sala piena di sedie impilate dove due agenti con casco e scudo e manganello fanno camminare davanti a sè in ginocchio un detenuto sul pavimento. Un altro, seduto a terra e appoggiato al muro, come tanti altri, lungo la parete e con le mani dietro la testa, viene avvicinato da un agente con il casco che lo prende a manganellate. Un’altra guardia con i capelli bianchi trascina un detenuto incappucciato e gli dà dei calci nell’addome e nel sedere. Un altro ancora, in piedi, viene colpito da una violenta manganellata sulle gambe.
Forche Caudine nel corridoio del carcere
Poi la scena cambia, dalla telecamera della videosorveglianza viene inquadrato un corridoio e si vede in primo piano un agente coperto dal casco che schiaffeggia un detenuto che indossa una tuta rossa. È l’inizio di quella che negli atti è stata definita qualcosa di simile a una mattanza: i detenuti vengono fatti sfilare uno dopo l’altro fra due ali di agenti – nel corridoio ce ne sono almeno cento – e a ogni passaggio sono botte. Non viene risparmiato chi cade a terra, succede a un detenuto che a un certo punto perde l’equilibrio e scivola: a quel punto si vede la guardia infierire su di lui con il manganello. I colpi vengono inferti anche con le mani coperte da guanti. Si vedono anche i detenuti presi di mira coprirsi il volto per non essere colpiti. Tutti gli agenti distribuiscono colpi e quasi tutti indossano le mascherine.
I colpi al volto sul pianerottolo
La scena seguente vede due agenti in cima a una scala che porta ai piani superiori e due detenuti che salgono gli ultimi scalini: entrambi sul pianerottolo vengono colpiti al volto e alla testa e uno viene preso per la maglia e spinto, dopodiché gli arriva anche un colpo di manganello sulla schiena.
Salvini domani nel carcere di Santa Maria, il garante Ciambriello: “Ma ha letto le carte?”
“Giovedì sarò a Santa Maria Capua Vetere per portare la solidarietà, mia e di milioni di italiani, a donne e uomini della Polizia Penitenziaria che lavorano in condizioni difficili e troppo spesso inaccettabili”, ha spiegato Matteo Salvini, “La Lega sarà sempre dalla parte delle Forze dell’Ordine”. Indagini che però vanno ancora avanti. Stando a quanto emerso dalle indagini, ci sarebbero state vere e proprie rappresaglie mascherate da perquisizioni, durante le quali i detenuti sarebbero stati picchiati, umiliati e lasciati senza cure per punirli della rivolta avvenuta qualche giorno prima. A finire al centro dell’inchiesta anche le chat tra alcuni indagati, nelle quali si parla apertamente delle violenze: “allora domani chiave e piccone in mano”, “li abbattiamo come vitelli”, ” domate il bestiame”, “spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovare tutti malati”, “si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, il tempo delle buone azioni è finito”, si legge nell’ordinanza del Tribunale sammaritano. Gli inquirenti, al termine degli indagini, hanno ritenuto la gravità indiziaria per il delitto di concorso in tortura nei confronti di 41 detenuti, di maltrattamento aggravato verso 26 detenuti e di lesioni personali volontarie nei confronti di 130 detenuti.
Ancora calci e spintoni nel corridoio nuovamente inquadrato, in particolare su un detenuto quasi calvo e con una t-shirt azzurra addosso. E ancora in corridoio a un certo punto arriva un detenuto extracomunitario che indossa la celebre maglia del Barcellona che era della stella argentina Leo Messi, erede di Maradona. Su di lui i colpi si moltiplicano: il carcerato cerca di avanzare, ma viene respinto all’indietro.
Il pestaggio del detenuto disabile
E come in un crescendo di disumanità, viene poi inquadrato un altro detenuto che viene spinto sulla sedia a rotelle da una guardia con casco e scudo. Costui non gli risparmia colpi di manganello addosso. Gli fanno ala altri quattro agenti, almeno due dei quali indossano la pettorina bianca con la scritta “Polizia penitenziaria”. Dopo l’invalido escono altri quattro detenuti che vengono tutti colpiti alla testa da una guardia con i capelli bianchi e da altri colleghi. Ognuno che esce dopo il portatore di handicap dalla stanza di fronte a una grande vetrata, riceverà questo tipo di accoglienza.
Trattenuto e colpito con il manganello
In un’altra sequenza si vedono tre o quattro ospiti del carcere di Santa Maria Capua Vetere contro i quali gli agenti si accaniscono particolarmente prima che vengano spinti e trascinati dentro una stanza. Una guardia carceraria che indossa guanti arancione si scatena contro un detenuto, colpendolo ripetutamente per tutto il suo passaggio in corridoio. Nessuno si ribella. Quasi tutti si fanno schermo con le mani e camminano con la testa abbassata. Un altro con una maglia bianca viene trattenuto per la manica e picchiato ripetutamente con il manganello da cinque o sei agenti con casco e scudo. Poi vengono nuovamente fatti uscire dalla stanza, piegati, con la testa bassa e comunque colpiti mentre si allontanano. Uno con una t-shirt grigia viene addirittura trascinato sul pavimento fuori dalla stanza e portato via, come non si deve fare neppure agli animali.
Il SRP esprime piena solidarietà a Edoardo Sorge, un compagno generoso che ha scelto di lottare ogni giorno contro la guerra di classe che quotidianamente i padroni e lo stato al loro servizio conducono contro la classe sfruttata.
Su di lui è stata aperta un’indagine per associazione a delinquere, ma l’associazione che stato e padroni vogliono colpire cercando di ingessare con questa indagine l’impegno di Eddy è quella dei lavoratori e delle lavoratrici combattive, degli operai, dei disoccupati, dei senza casa, degli immigrati, degli sfruttati che a testa alta lottano e si organizzano in difesa dei propri diritti, nella prospettiva di una trasformazione radicale dei rapporti di produzione, dei rapporti sociali.
L’indagine su Eddy, la repressione di lavoratrici e lavoratori messa in atto da stato e padroni con la complicità dei sindacati collaborazionisti, fa il paio con l’assassinio di Adil, con le squadracce assoldate dai padroni per piegare la resistenza di operai e operaie, e si inserisce a pieno titolo nella guerra di classe del capitale.
Una guerra sistemica che nella crisi capitalistica si inasprisce ancora di più e ricorre a qualsiasi mezzo, “legale” e “illegale”, repressivo e preventivo, per procrastinare la sua fine.
Consapevoli di questo, nel rinnovare la nostra solidarietà a Eddy e a tutti i lavoratori e le lavoratrici combattive colpiti dalla repressione padronale e di stato, rilanciamo il nostro appello a tutte le forze che si battono contro la repressione, a tutte le energie del sindacalismo conflittuale, alle lavoratrici che si battono contro ogni tipo di discriminazione e a tutti i proletari coscienti, a costruire un fronte unitario contro la repressione padronale e di stato. Un organismo di autodifesa legato a livello nazionale e nei territori alle lotte proletarie e che punti apertamente alla mobilitazione politica dei lavoratori sul terreno del carcere e della repressione, contro l’attività permanente controrivoluzionaria di stato, governi e padroni.
Se toccano uno toccano tutti e tutte, L’unica associazione a delinquere è quella di stato e padroni
SRP
Dal Laboratorio Politico Iskra
Negli ultimi anni e in questi mesi di pandemia decine di procedimenti giudiziari e amministrativi si sono accumulati sulle spalle di disoccupati, attivisti, studenti e lavoratori. È evidente ora a tutti l’escalation repressiva di questi mesi.
In questi giorni un militante del Laboratorio Politico Iskra, Eddy, membro dell’esecutivo nazionale del Si Cobas e tra i portavoce del Movimento di Lotta Disoccupati 7 Novembre, è stato informato dai nostri legali di un’indagine a suo carico per Associazione a delinquere (articolo 416 del codice penale) in cui sarebbe coinvolto e che risulta tuttora in corso.
Non entriamo nel merito di un’indagine di cui sappiamo ancora molto poco ma iniziamo a sottolineare la cornice politica entro cui si attua questa azione repressiva. L’utilizzo dell’associazione a delinquere è un capo d’imputazione usato più volte contro i movimenti di lotta. Qui a Napoli la Procura, con questa fattispecie di reato utilizzata spesso contro i disoccupati organizzati, ha provato a distruggere queste esperienze di lotta collettive, utilizzandolo come un monito chiaro per chiunque avverta la necessità di mobilitarsi in difesa del diritto ad un salario.
Il fatto che gli sfruttati e le sfruttate stiano provando ad organizzarsi a più livelli e in maniera sempre più convinta non fa dormire sonni tranquilli ai padroni la cui unica esigenza diventa quella di prevenire e poi reprimere ogni tentativo di lotta che metta in discussione questo sistema sociale ed economico. Per evitare che ciò possa accadere stato e sfruttatori ricorrono ai tanti strumenti repressivi in loro possesso e affinati nel corso di decenni di controrivoluzione, colpendo soprattutto le avanguardie di lotta più combattive.
La criminalizzazione dei movimenti di lotta, la depoliticizzazione degli stessi, l’uso indiscriminato dei reati associativi, disegna una pericolosa strategia volta a risolvere il conflitto sociale sul piano dell’ordine pubblico, spesso in maniera preventiva, nel tentativo di sbarazzarsi di chiunque osi organizzarsi per rivendicare i più basilari diritti come quello al lavoro, alla casa, alla salute, alla bonifica.
L’unica possibilità concreta che abbiamo oggi è unirsi attorno ad un programma politico di lotta capace di fare da ponte tra le rivendicazioni immediate e la prospettiva rivoluzionaria ed anticapitalista, che sia in grado di parlare alle emergenze ed esigenze sociali in un’ottica di trasformazione politica, sociale ed economica.
Se è vero che una lotta contro questi meccanismi repressivi non può essere slegata da una lotta quotidiana contro il sistema economico e sociale che li produce, tra le esigenze immediate resta centrale la necessità di fare quadrato attorno a chi viene represso perché prova a rovesciare lo status quo.
E’ da tempo che siamo scesi in campo e continueremo ad allargare il fronte unico degli sfruttati pronti a farvi tremare e rovesciarvi e non saranno teoremi fantasiosi, denunce, fogli di via o multe a fermarci.
Come urliamo ogni giorno dalle piazze, il messaggio chiaro a chi mette in atto queste montature è uno solo: se toccano uno, toccano tutte e tutti noi. Giù le mani da Eddy! Giù le mani da chi lotta!